Le immagini strazianti confermano quanto
denunciavamo da tempo, come ci siano anche migranti tra le vittime della guerra civile innescata in Libia dal conflitto
interno al mondo arabo e dagli interessi delle grandi potenze occidentali,
incapaci di fermare le milizie contendenti prima che queste attaccassero le
popolazioni civili. Diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite sono state bloccate dai veti incrociati
di Stati Unitie Russia, mentre la Francia pratica una politica del doppio gioco,
con Serraj e con Haftar, che ha spaccato l’Unione Europea. Intanto l’Italia,
con la diplomazia parallela condotta da tempo dall’ENI, per garantire sicurezza
ai propri impianti e ai dipendenti, mantiene
buoni rapporti di collaborazione con le milizie legate al LNA di Haftar nelle
zone in cui i giacimenti petroliferi sono passati sotto il controllo del
generale, che a Tripoli Serraj, nostro alleato, definisce come un “rinnegato”.
Sul piano delle relazioni commerciali si
comincia a profilare quella divisione della Libia in due, se non tre parti, che
a fronte dello stallo della battaglia sul campo potrebbe essere quanto meno un
passaggio intermedio per la fine delle ostilità. Di certo anche in questa
prospettiva le condizioni indegne dei migranti, e in misura diversa delle
popolazioni sfollate dai territori di origine, rischiano di diventare
endemiche, con un accresciuto potere delle organizzazioni criminali che
potranno lucrare sull’ennesima frontiera inventata per ragioni meramente
politiche. A quel punto risulterà decisivo verificare lo schieramento
della sedicente
Guardia costiera libica, per adesso legata al governo Serraj, che in questi
giorni sembra scomparsa nel nulla, forse perche’ sta
armando, in violazione dell’embargo, le motovedette che le sono state donate
dal governo italiano.
Nei centri di detenzione di Tripoli, finanziati
dall’Unione Europea con l’Africa Fund Trust, tramite l’Italia, e riempiti di
migliaia di persone, intercettate in acque internazionali e respinte verso
l’inferno dalla Guardia costiera libica, coordinata ed assistita dall’Italia,
le milizie di Haftar stanno uccidendo e violentando persone inermi.
Persone, compresi donne e bambini, da mesi esposti ad abusi anche nei
cosiddetti centri “governativi”, gestiti dal DCIM , Dipartimento anti
immigrazione del governo Serraj, che adesso sono privi di qualsiasi tutela,
a parte le poche centinaia di trasferimenti realizzati da
UNHCR ed OIM, che, a causa degli scontri armati in corso in
tutta la Libia, hanno dovuto limitare la loro attività. Sono diventati ancora
più difficili anche i cosiddetti “rimpatri volontari”, per adesso in prevalenza
dalla Libia verso l’Egitto e la Nigeria. Le destre al governo in Europa
non prospettano soluzioni ma si limitano a rilanciare allarmi sempre
più eclatanti, prima con l’ennesima emergenza invasione, adesso, di
fronte al fallimento di tutte le loro politiche migratorie, evocando il
fantasma del terrorismo internazionale, l’arma totale che viene utilizzata per
sfruttare la paura della “gente” e spingere gli stati verso una degenerazione
autoritaria. Lo insegna la storia e la storia sembra ripetersi ancora una
volta.
Ue e Onu sostituiti dai grandi gruppi
economici
Alla vigilia delle elezioni europee, la
guerra civile in Libia segna il disfacimento, probabilmente irreversibile,
dell’Unione Europea e il ridimensionamento della capacità delle Nazioni Unite
di mediare nei conflitti regionali, conflitti che adesso assumono molto più
rapidamente di prima una dimensione globale, al di fuori delle sedi di composizione
dei contrapposti interessi che una volta erano offerte dalle istituzioni
internazionali. Alla fine, a decidere ed a mediare sono i grandi gruppi
economici e le alleanze che si formano nella guerra per l’accaparramento delle
risorse energetiche del pianeta. Su questo e non su altro si gioca il destino
di milioni di persone, private dalla evoluzione tecnologica di qualsiasi
possibilità di elaborare un pensiero critico e di
contrastare la politica delle fakenews con la quale
i gruppi più forti sul piano della comunicazione condizionano gli istituti
della democrazia costituzionale. Laddove non sono le armi dei generali a
dettare la loro legge.
Il sangue che scorre a Tripoli, come nel
resto della Libia, lo stesso sangue che scorre nella indifferenza generale
nello Yemen e in tanti paesi dell’Africa subsahariana, il sangue che si versa a
Gaza, o in Afghanistan ed in Irak, anche il sangue dei tanti attentati
terroristici che si ripetono nelle parti più distanti del mondo, è sangue delle
vittime di una guerra globale all’umanità che si sta combattendo innalzando
bandiere di vario colore e agitando inesistenti guerre di religione,
utilizzando le sigle terroristiche più diverse, ma sempre e soltanto in nome di
interessi economici e di egemonia militare. La guerra contro i migranti
intrappolati in Libia è solo un tassello di questo conflitto globale. Ma è
anche la guerra sulla quale l’Italia finisce inevitabilmente per
ritrovarsi in prima linea, anche se si cerca di negare l’evidenza, come fa
il ministro dell’interno che continua a parlare di “scontri”. Salvo a
rilanciare improbabili numeri da invasione di “clandestini” o a preparare
l’arma di propaganda di massa della minaccia terroristica, in vista delle
prossime scadenze elettorali.
Le rivolte in Sudan, Algeria e Corno
d’Africa
Forse, i segnali più importanti arrivano
proprio dall’Africa. Nel Corno d’Africa, e poi dal Sudan all’Algeria, si
registrano segnali importanti di rivolta contro le dittature militari, che
potrebbero estendersi a molti paesi africani, e che potrebbero forse ridimensionare
la contrapposizione oggi “dominante” in Libia tra Serraj ed Haftar, due leader che hanno entrambi
dimostrato di non sapere garantire i diritti fondamentali delle persone sulle
quali aspirano a governare. I cittadini di Bengasi prima, e di Tripoli adesso,
se ne sono accorti sulla loro pelle. Sarebbe tempo che fosse rispettata
la volontà dei cittadini libici, senza condizionamenti imposti da leader
determinati da potenze straniere. Per i migranti intrappolati in Libia vanno
individuati al più presto canali sicuri di evacuazione di massa, ben oltre i
ridottissimi limiti numerici consentiti dai cosiddetti “corridoi umanitari”. La
distinzione tra migranti economici e potenziali richiedenti asilo, nelle
attuali condizioni di guerra civile della Libia non appare più sostenibile.
Per le Nazioni
Unite, in ogni caso, e dunque per qualunque governo del mondo, “la Libia non
può essere considerata un luogo sicuro di sbarco”, come
ricorda il più
recente rapporto diffuso a livello mondiale.
L’UNHCR esclude tuttora che la Libia,
meglio nessuno dei diversi centri di potere nei quali è divisa, soddisfi i
criteri per essere designata come luogo sicuro a fini di sbarco in seguito ai
salvataggi in mare. La istituzione di una struttura di raccolta e partenza a
Tripoli, gestita direttamente dalle nazioni Unite, come alternativa alla
detenzione negli altri centri “governativi” non modifica la posizione
dell’UNHCR secondo cui la Libia non può essere designata come luogo sicuro ai
fini dello sbarco, considerato peraltro che tutte le persone trasferite in tale
struttura necessiterebbero comunque di essere evacuate dalla Libia per ragioni
legate alla protezione, anche se tale alternativa potrebbe non essere a
disposizione di tutti.
In Europa la crisi del parlamentarismo e
la spaccatura dell’Unione Europea con l’avanzata dei partiti populisti,
finanziati e sostenuti da Trump e da Putin, con lo stratega Bannon che recluta
adepti ad est e ad ovest, stanno spingendo verso la disillusione e la caduta
della partecipazione popolare, nella consapevolezza sempre più diffusa dello
svuotamento della rappresentanza politica. Le prossime elezioni europee
potrebbero segnare il declino definitivo dell’Unione Europea come soggetto
unitario in grado di garantire pace e stabilità. Fino a quando i cittadini
europei non si libereranno dai leader nazionalisti ai quali hanno assegnato
tutta la loro fiducia non vi sarà futuro per l’intera Europa, ed alcuni paesi
più esposti, come l’Italia, potrebbero trovarsi direttamente su un
fronte di guerra., nel più totale isolamento internazionale. Ci vorranno
anni, forse generazioni, per una inversione di tendenza, a meno che una guerra
non tocchi direttamente la vita di coloro che ritengono che soltanto
rinchiudersi in un recinto ( la fortezza Europa o la nazione Italia), possa
garantire maggiore sicurezza.
Nessuno può pensare di chiudere porti e
frontiere
L’Europa (e tanto meno l’Italia) non è
più neppure una fortezza, e nessun paese da solo può pensare che chiudere porti
e frontiere, o moltiplicare le espulsioni, possa servire a rallentare i
movimenti dei migranti in fuga verso la vita. Se un calo negli ingressi
apparentemente consistente si verifica, come oggi si verifica sulla rotta del
Mediterraneo centrale, dipende dalle condizioni esistenti nei paesi di origine
e transito, dalla chiusura delle vie di accesso al Mediterraneo, dallo stato di
guerra ai confini dei diversi paesi dell’Africa subsahariana confinanti con la
Libia. Per queste ragioni e non certo per l’allontanamento delle Ong, gli
sbarchi sono diminuiti in modo consistente.
Sono solo aumentate le vittime, in mare
ed a terra, per effetto della propaganda utilizzata da qualche ministro per
respingere, o fare respingere su delega, alcune centinaia di naufraghi soccorsi
in acque internazionali, per i quali gli stati avrebbero avuto comunque
l’obbligo di indicare un porto sicuro di sbarco. Le organizzazioni criminali
che gestiscono i traffici non faticano a riconvertirsi ed a rinnovarsi sulla
base delle mutate condizioni politiche internazionali, arrivando a diventare
persino determinanti per lo sviluppo dei commerci (basti pensare alla sicurezza
dei terminali petroliferi) e per la agibilità fisica dei territori (chek
point). Il caso della Libia ne è l’esempio più eclatante. Quanti trafficanti
internazionali di migranti sono stati bloccati in questi anni in Libia, in base
agli accordi stipulati con tribù e milizie libiche da Alfano, Gentiloni,
Minniti, Salvini, Avramopoulos (Commissario UE) o Legeri ( di Frontex)?
Si considera soltanto il dato numerico di possibili arrivi, gli
sbarchi “facilitati”dalle ONG, trascurando del tutto la sorte delle vittime, in
mare e in Libia. Una prospettiva che va capovolta. Anche non fornire tutela
contro i trafficanti è un crimine direttamente imputabile ad uno stato che
aderisce alla CEDU. Lo ha affermato in una sentenza anche la Corte Europea dei diritti
dell’Uomo, nel caso Ramtsev contro Cipro e Russia. Gli
stati che ricadono sotto la giurisdizione della Corte Europea di Strasburgo non
possono sottrarsi agli obblighi derivanti dalla Convenzione Europea a
salvaguardia dei diritti dell’Uomo o dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, delegando a paesi terzi compiti di esternalizzazione dei
controlli di frontiera, fornendo a tal fine mezzi e organizzazione tecnica e di
personale, come ha fatto l’Italia con la missione Nauras, di base da anni nel
porto militare di Tripoi (Abu Sittah). Nella Libia di oggi, in nessuna delle sue frammentazioni territoriali,
esistono quelle condizioni e quelle garanzie dei diritti fondamentali che
caratterizzano lo stato di diritto.
L’Italia in Libia
L’Italia è presente dal luglio del 2017
nel porto militare di Tripoli (Abu Sittah) con la missione NAURAS, con una nave
e altri mezzi tecnici per garantire assistenza e coordinamento alla Guardia
costiera libica ( LCG) . Quali garanzie in Libia per le
vittime delle intercettazioni consentite dal coordinamento italiano Nauras a
Tripoli?
Tra
le attività di supporto della missione Nauras a Tripoli, rientrava,
fino al 28 giugno 2018, anche“l’importante compito di aiutare i libici a
interfacciarsi con la Centrale operativa della Guardia costiera a Roma che
coordina le operazioni di ricerca soccorso nel Mediterraneo centrale”. Questo
coordinamento italiano delle attività di intercettazione in mare, affidate già
alla cosiddetta Guardia costiera
“libica“ e ribadito adesso
anche dal ministro Toninelli, risulta da una specifica
documentazione acquista agli atti del
processo di convalida innescato dal sequestro della nave Open Arms nel porto di
Catania. Come emerge da una successiva documentazione,
questo coordinamento è proseguito anche dopo la creazione di una zona SAR
“libica”, comunicata all’IMO a Londra dal governo Serraj nel mese di giugno del
2018. Un recente articolo del giornale Avvenire conferma
ancora in questi giorni le attività di coordinamento svolte a Tripoli dalle
unità della missione Nauras.
Mentre i crimini contro l’umanità
continuano a ripetersi sulla pelle dei migranti intrappolati in Libia e
contro quei pochi che riescono a fuggire, ma vengono ancora intercettati in
acque internazionali e riportati indietro, rimane il dovere della denuncia e
della documentazione, anche fotografica, degli abusi. Perché, comunque, un
giorno verrà nel quale chi si è reso autore o complice di queste violazioni dei
diritti umani sarà tenuto a risponderne. E nessuno potrà dire “io non sapevo”.
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