In un suo
recente lavoro Enzo Traverso metteva in guardia dall’effetto di confusione
insito nel ricorrere al termine «fascismo» per designare tendenze e
caratteristiche della politica contemporanea delle destre. Ritenendo più
pertinente impiegare piuttosto la definizione di «postfascismo».
Il crescente
protagonismo delle formazioni neofasciste (quelle che si richiamano
direttamente al Ventennio e quelle che si considerano come una sua variante
postmoderna) ha riportato al centro dell’attenzione il tema dell’antifascismo.
Converrà, però, seguendo il suggerimento di Traverso, discostarsi dalla
generica denuncia di un «ritorno del fascismo» per mettere a fuoco il punto
decisivo. E cioè il rapporto tra le forze della destra mainstream (comprese quelle
che si dichiarano antifasciste) e il neofascismo militante. Schematizzando, i
fascisti sono stati utilizzati dai poteri dominanti in tre diversi modi a
partire dalla fine del conflitto mondiale.
NELL’IMMEDIATO dopo guerra i processi di defascistizzazione in
Italia e di denazificazione in Germania sono stati interrotti per assecondare
le priorità politiche della guerra fredda. Negli anni Sessanta e Settanta la
folta galassia neofascista è stata messa al servizio della dottrina degli
“opposti estremismi” per imbrigliare la spinta dei movimenti. Più recentemente
il neofascismo è stato impiegato come elemento di disturbo e inquinamento delle
lotte sociali nonché come truppa di supporto alle politiche governative contro
l’immigrazione e le minoranze.
Nella società
contemporanea, afflitta da una condizione di crisi permanente e di crescente
disagio sociale, più che un richiamo al fascismo storico come sistema di
governo e organizzazione sociale, circola qualcosa di assai simile a quel tipo
antropologico che con il nome di «personalità autoritaria» fu messo a fuoco in
un celebre lavoro di ricerca condotto a Berkeley tra il 1944 e il 1949 da
Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson e Sanford.
COMPONENTI essenziali del quadro psicologico e ideologico
di questo genere di soggettività sono, come scriveva Giovanni Jervis
nell’introduzione all’edizione italiana dell’opera, «conservatorismo politico,
un rapporto di sottomissione verso l’autorità, autoritarismo verso chi ha minor
potere e, soprattutto, una ideologia etnocentrica, la quale a sua volta è
legata a una struttura autoritaria del carattere». Queste caratteristiche, alle
quali dovremmo aggiungere il revanscismo patriarcale, possono assumere forme e
linguaggi diversi: da quello del fondamentalismo religioso con la sua ostilità
verso i diritti civili e le libertà individuali a quello del suprematismo
bianco e machista made in Usa che, nei suoi tratti antistatali e
individualistici, ha una genealogia e una finalità del tutto diversa da quelle
del fascismo propriamente detto. Elementi di questa natura, assai più che un
qualche desiderio di regime, sono ben visibili negli episodi di violenza contro
i rom avvenuti in alcuni quartieri di Roma. In forme più vicine al Ku Klux Klan
che alle camicie nere.
Dalla
«personalità autoritaria» e dal suo uso politico, la legge Scelba contro la
ricostituzione del Partito fascista non è in grado di difenderci, così come
qualunque altra legge intesa a proteggere la democrazia da interpretazioni
sempre più restrittive e derive disciplinari. Esponenti politici di una visione
autoritaria della società, come lo stesso Scelba, il senatore Giovanardi o
Matteo Salvini non rientrano nel raggio di azione di un antifascismo, del tutto
disarmato nei confronti di quello che Traverso chiama «postfascismo» e Victor
Orbán ha battezzato «democrazia illiberale».
Tuttavia, in
Italia, il discorso autoritario non può che ricorrere a strumenti e linguaggi
che nella coscienza diffusa del paese evocano ancora il quadro ideologico e
politico del fascismo. E soprattutto non intende rinunciare al consenso e
all’attivismo propagandistico di quanti rimpiangono o mitizzano l’esperienza
del Ventennio. Ciò richiede un certo grado di revisionismo storico che, nella
sua forma più volgare, coincide con l’affermazione: «Mussolini ha fatto anche
delle cose buone». A partire da un simile giudizio si considera legittimo e
opportuno riproporre questo o quell’aspetto della politica fascista senza
doversi fare carico del contesto e dei nessi con l’architettura generale del
regime.
COMPITO del revisionismo storico non è tanto riabilitare
le dittature degli anni Venti e Trenta quanto rimuovere i freni inibitori che
la reazione a quelle esperienze aveva attivato nei confronti delle politiche
autoritarie. Ragione per la quale non possiamo rinunciare a combatterlo
vigorosamente. Dall’attenzione indirizzata alla «personalità autoritaria»
deriva anche una sostanziale indulgenza nei confronti dei gruppi neofascisti
dalle cui intemperanze la destra al potere si dissocia il minimo
indispensabile.
CIÒ COINCIDE con una ripresa di attività squadristica in
tutta Europa (i neonazisti tedeschi detengono un impressionante record
continentale delle aggressioni razziste e omofobe) dalla quale bisogna pur
trovare il modo di difendersi senza ricadere nella logorante guerriglia
molecolare che insanguinò gli anni Settanta. Soprattutto senza lasciare che lo
spettro di un ritorno del fascismo mascheri l’autorità liberticida che già
impugna le leve del governo. Avendo ben chiaro che non è la Lega che
fiancheggia i neofascisti, ma sono questi ultimi a fiancheggiare la Lega. Con
reciproca soddisfazione. Mai confondere il centro con la periferia.
(Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 maggio 2019)
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