Il mondo della scuola continua la sua mobilitazione contro il processo di
differenziazione regionale del sistema di istruzione messo in moto da Veneto,
Lombardia ed Emilia Romagna. A gettare acqua sul fuoco non è bastata l’intesa col
governo siglata a sorpresa dai maggiori sindacati (CGIL, CILS, UIL, SNALS,
Gilda), che hanno sospeso uno sciopero
proclamato da tempo. I sindacati di
base prendono le distanze e confermano lo sciopero, mentre un
nutrito gruppo di associazioni esprime il
proprio dissenso nei confronti della concertazione
sindacato-Governo, ritenuta troppo vaga per arginare un processo di
differenziazione regionale che si allarga a macchia d’olio. Aumenta infatti il
numero delle regioni che avanzano richieste di potestà legislative rafforzate.
Alle prime tre se ne sono aggiunte altre quattro: Piemonte, Liguria, Umbria e Marche. La
propaganda che filtra attraverso la rete, i social e le testate locali punta
l’accento su vantaggi economici per i territori più efficienti, dimenticando
non solo di dire chi pagherà il conto (ci sono già analisi che pronosticano
un “Robin Hood al
contrario”), ma anche di spiegare cosa accadrà in concreto alla
scuola e ai suoi lavoratori. Lo spieghiamo noi, basandoci sulleprime bozze di
intesa – pubblicate
proprio da questo blog – e su alcune “buone
pratiche” regionali già avviate, soprattutto nella scuola trentina, vero e
proprio laboratorio della futura “scuola regionale”. Una “Buona Scuola” modello
Renzi-boys, tutta efficienza, valutazione e “sinergie col
territorio”, in cui gli insegnanti, privati del loro orizzonte di libertà
culturale, si avviano a divenire solerti maggiordomi al servizio dell’indirizzo
politico locale.
La cosiddetta regionalizzazione dell’istruzione è parte di quel progetto di
“smontaggio” dello Stato ben più ampio (dalla sanità alle infrastrutture, dai
beni culturali all’ambiente, etc.) che in “un’ atmosfera da golpe bianco”[1] stava per essere ratificato
già a Febbraio.
La scuola intanto procedeva, coi suoi ritmi e le sue attività̀, senza ben
comprendere il destino incombente.
L’autonomia differenziata sembra una questione tecnica e fiscale, da
giuristi o economisti, oppure un problema delle regioni più̀ povere. In
fondo, non cambierà̀ nulla, si pensa. Anzi: forse alcuni guadagneranno qualcosa
in più̀, perché́ sono più̀ efficienti. Eppure, non è così. Il
progetto merita la massima attenzione di tutti i cittadini, e non solo dei lavoratori
della scuola, perché presenta (almeno) due aspetti profondamente pericolosi.
Il primo riguarda il coinvolgimento – in maniera trasversale –
degli interessi di tutte le forze politiche in gioco, sia di governo
che di opposizione: dal PD, responsabile della pre-intesa che
ha dato avvio al procedimento, al Movimento 5 Stelle, che – per dolo o
colpa – ha sottoscritto un contratto di
governo (articolo 20) in cui si definisce questione
prioritaria quella dell’autonomia regionale.
Un capitolo a parte in questa vicenda merita la Lega, che incredibilmente
tiene il piede in due scarpe, quella dell’elettorato del Nord e quella
dell’elettorato del Sud: due siti web,
due simboli diversi, due statuti, due codici fiscali, due indirizzi…
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