«Esiste una oggettività dello spirito…»
Uscite dal mondo, Elémire Zolla
Adelphi, 2005
Tra amanti della lettura si parla spesso di come sistemare e
ordinare i libri sugli scaffali. In ordine alfabetico, per provenienza
dell’autore, per casa editrice, per secolo o corrente o argomento e di nuovo
poi in ordine alfabetico, a seconda delle esigenze di chi dovrà avventurarsi
tra quegli scaffali. Un altro modo di procedere, che tracci una sorta di
percorso, potrebbe essere l’ordine di lettura; sistemare i libri seguendo
l’ordine in cui sono stati letti, un anno dopo l’altro.
Questo tipo di parametro focalizza l’attenzione sul lettore –
le sue preferenze, la sua formazione, la sua natura – e allo stesso tempo svela
qualcosa riguardo alla versatilità del libro e, più ancora,
alla sua portata artistica, se così si può dire: la sua capacità di stare bene
in qualsiasi posizione, tanto che è quasi una certezza che non si
troveranno mai due biblioteche personali uguali per combinazione di
titoli.
Se considerassimo i libri alla stregua di pezzi di puzzle, potremmo pensare
che appartengano, in un modo o nell’altro, a uno stesso grande disegno;
che il percorso delinei un disegno intero e smisurato al quale tutti i lettori
tendono, partendo da punti peculiari e imperscrutabili, tanto quanto
irrilevanti a livello generale, poiché il pezzo di partenza, sebbene rimandi a
ciascun lettore la percezione di essere equidistante da un fantomatico bandolo,
è solo il primo ad essere preso in mano.
Ernst Bernhard, medico pediatra e psicanalista, che «aveva fondato la sua terapia
sull’idea di destino (E. Zolla, Corriere della Sera, 6 nov 1969)» e
applicava quella che lui chiamava “psicologia del processo di individuazione”;
chirologo e astrologo, oltre che interlocutore (o confessore e guida) di Bobi
Bazlen, di Federico Fellini, di Cristina Campo, tra gli altri, nel suo
prezioso Mitobiografia (Adelphi, 2007), una raccolta di
appunti annotazioni e testi scelti dai suoi quaderni, racconta qualcosa di
analogo a proposito del costringere in un libro le sue idee, pratica
che l’ha sempre visto restio. Scrive: «nel corso degli ultimi decenni una parte
di queste idee è stata naturalmente espressa da altri autori a me
spiritualmente affini, in formulazioni più o meno simili, un segno che lo
stesso potenziale, la stessa energia creativa delle sorgenti sotterranee
dell’anima, quasi comunicando, è all’opera contemporaneamente in luoghi
diversi». Le idee di cui parla Bernhard assomigliano molto ai libri
dislocati nelle ipotetiche Librerie degli Anni, in cui a vigere è, appunto,
l’ordine di lettura: alcune delle idee che Bernhard ha avuto – o dei libri che
sono stati letti –, per motivi personali, sono arrivate/i anche ad altri
uomini, per motivi altrettanto personali, dando loro qualcosa in comune: un
terzo elemento, un testimone che redime le loro differenze. Ioan Petru
Culianu, definito da Grazia Marchianò figlio putativo del sopracitato
Zolla, ispirandosi a un saggio del marito intitolato Culianu e
contenuto in Filosofia perenne e mente naturale (Marsilio Editori,
2013), nel suo racconto dal titolo emblematico La sequenza
segreta (Il rotolo diafano, Elliot Edizioni, 2010), torna alla
carica: «Gli altri capitoli dello stesso libro(vale a dire gli
altri intelletti affaccendati sulla medesima trama) possono essere stati
scritti (o non scritti) in qualsivoglia momento dalla ballerina di un bordello
di Aleppo, da un teppista con tre file di denti, da un uomo delle caverne».
La «medesima trama» di cui parla Culianu, o le idee di
Bernhard che potrebbero essere affiorate nella mente di un altro, o uno stesso
libro che appartiene a due librerie diverse sono esempi che raccontano di un
bacino identico, di un’immagine celata tanto quanto quella del puzzle, perché,
direbbe la Simone Weil di Attesa
di Dio (Adelphi, 2013), «la frase è la stessa» da
leggere, «scritta più volte ora in rosso ora in blu, stampata ora in certi
caratteri ora in altri» (184).
Un dubbio lecito rispetto ai libri e alla loro capacità di far parte, prima
o poi, di percorsi di lettura disparati riguarda le influenze e i rimandi,
anche insondabili, che un autore potrebbe inserire nei propri testi, facendo
leva sulla comunanza, sul terreno sommerso a cui rimandano. Per ovviare a
questa ambiguità legata alla figura dello scrittore, in una sorta di prova del
nove, il lettore è un’altra volta la chiave: l’approccio e l’occhio chiamati in
causa nel riconoscimento del puzzle sono quelli dell’interprete, le cui
competenze e conoscenze sono ignote allo scrittore, soprattutto se è
abbandonato il bagaglio di metri usuali che ordinano i libri sugli
scaffali. L’autore scrive senza sapere cosa totalmente sarà
letto, non avendo un’idea completa del quando né del dove né del chi
prenderà in mano il suo lavoro. Il fatto che l’autore pensi o faccia
riferimento a conoscenze proprie non limita che ci siano altre conoscenze
analoghe capaci di risuonare con quanto scrive. Il che equivale a dire che non
è altresì cosciente totalmente di cosa sta scrivendo; non
agisce in piena luce.
A questo proposito, in Memorie di un cieco (Abscondita,
2003), Jacques Derridascrive: «il punto di vista sarà il mio tema»,
frase che sciolta ed esplicitata potrebbe diventare: “il mio punto di vista in
questo testo sarà la cecità, in quanto ciò che verrà messo in luce sarà
l’invisibile”. Derrida fa un’apologia della cecità intesa come
manifestazione di una possibilità che la vista fisica oscura, cioè come
simulacro dell’invisibile. Dopo poche pagine dall’inizio, si legge: «mi accade
di scrivere senza vedere» e poi, qualche riga più sotto, di nuovo: «che accade
quando si scrive senza vedere?» (13). Frasi che si infilano una dopo l’altra
dichiarative di come la scrittura – e con essa, a contraltare, la lettura –
poggi su qualcosa di celato, su un’incertezza.
Il Bolaño di 2666 (Adelphi, 2008), in una
manciata di pagine della Parte di Arcimboldi che hanno i toni
della confessione, i toni intuitivi e non replicabili di un momento spettrale,
racconta qualcosa a proposito della scrittura e di questo tipo di cecità,
partendo dalla relazione tra capolavori e opere minori; tra autori di
capolavori e autori di opere minori, che scrivono «sotto dettatura»: «ogni
opera minore ha un autore segreto e ogni autore segreto è, per definizione, uno
scrittore di capolavori», dice. In questo modo si attua un «esercizio di
occultamento» (543): le opere minori, moltiplicandosi,
custodiscono – rendono invisibile come uno spirito – i
capolavori. Bolaño passa poi a trasfigurare questo autore segreto,
senza perdere il filo; ne identifica gli occhi con quelli di una figura
lontana, quella di un becchino: «i suoi occhi erano esattamente uguali a quelli
del grande scrittore […], per qualche secondo pensai di essere ammattito» (547)
e «con un brivido di orrore, mi resi conto all’improvviso che gli stavo
parlando come se fosse stato il grande scrittore […]. Non ebbi il minimo
dubbio: erano gli occhi del mio idolo» (548). Un alone rendeva sovrapponibili,
seppur distanti, il becchino e l’autore segreto. Questa terra di mezzo trova un
corrispettivo efficace ne I fratelli Karamàzov. Sul finire
del romanzo c’è una scena, una notte, in cui Ivan dialoga con il proprio
spettro, la parte invisibile e – scopre, suo malgrado – condivisa di sé; una
parte esiliata che rappresenta, in vesti caricaturali, il negativo di cui non
si può fare a meno per vivere, e che Ivan stesso schernisce e desidera
allontanare, sebbene detenga i suoi segreti, persino quelli talmente nascosti
da essere obliati. Mentre la loro conversazione incalza, lo spettro, per
provare a Ivan l’esistenza di entrambi nella realtà, lo guida attraverso il
racconto sia di cose del mondo a Ivan sconosciute; sia di cose che appartengono
a Ivan e di cui entrambi sono coscienti; sia di cose che Ivan ha dimenticato,
facendo appello a una serie di aneddoti che mettono in fila una specie di
futuro ignoto, di presente rivendicato e di passato occulto. Ivan si
confronta con altri sé – che potrebbero avere le sembianze
di una ballerina di un bordello di Aleppo, di un teppista con tre file di denti
o di un uomo delle caverne, prendendo in prestito i tipi di Culianu – grazie
allo spettro, terreno comune. L’episodio ha le sembianze di una mise en
abyme che è un rimando imperfetto, sfocato, eppure calzante; mette di
fronte a una moltitudine. Ancora in un passaggio di Memorie di cieco,
Derrida afferma che «le mani di tutti i personaggi sono tese le une verso le
altre, ma anche verso il centro di una presenza invisibile, la quale orienta
tutti i corpi» (125). Lo spettro, intrinsecamente invisibile, è la guida in un
mondo altrettanto invisibile; Ivan è il cieco di Derrida, l’uomo che
scrive senza vedere (o ricordare), lo scrittore sotto dettatura di Bolaño,
che non sa totalmente cosa sta scrivendo, nel bene e nel male.
Qualche anno fa, leggendo Uscite dal mondo di Elémire
Zolla (Adelphi, 2005), ho incontrato, circa a metà, questa frase: «Esiste
un’oggettività dello spirito e sono sovrapponibili i vari paesaggi visionari».
I riferimenti qui sopra si aggirano nella medesima area semantica, posseggono
un alone simile e, allo stesso tempo, sono formulazioni visionarie spuntate
in persone diverse che condividevano una certa idea comune – probabilmente una
di quelle menzionate da Bernhard –, sincronizzate al di là del modo in cui si
sono formate, del contesto culturale sociale politico e geografico di chi le ha
messe su carta. Sono paesaggi che riferiscono un qualcosa di oggettivo.
Alla base c’è il medesimo mitologema, che emerge
dall’esperienza e congiunge storie differenti tramite l’analogia.
Le librerie si moltiplicano, le idee si specificano e differenziano,
calibrando di volta in volta la posizione del riflettore che le illumina, a
volte un po’ più a destra a volte un po’ più indietro. Sovrapponendo
gli scaffali è possibile che si incastrino, rivelando che in realtà i libri
sono per tutti allo stesso posto e che, in alcuni casi, sono invisibili.
«Esiste una oggettività dello spirito
e sono sovrapponibili i vari paesaggi visionari».
e sono sovrapponibili i vari paesaggi visionari».
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