Nella cornice del New Public Management trova fertile humus la
richiesta dell’autonomia differenziata da parte di alcune regioni italiane che
rivendicano il governo diretto di diversi ambiti della vita pubblica. Sono
regioni fra le più ricche d’Italia che mirano a stabilire legami diretti con le
altre regioni più avanzate d’Europa e ritengono di poterlo fare con maggiore
successo, se svincolate dal quadro istituzionale nazionale e dagli obblighi
-fiscali in primo luogo, ma non solo- che esso comporta. Hanno in
primo luogo bisogno di controllare settori strategici e, fra questi, uno dei
più importanti è rappresentato dalla scuola. Non è un caso che sulla scia delle
più note Emilia, Lombardia e Veneto, anche Marche e Umbria abbiano avviato un
percorso in comune di autonomia differenziata limitato a poche discipline e che
riguarda proprio l’istruzione e la formazione tecnica e professionale, nonché
l’università. La posta in gioco è appetitosa: la riorganizzazione
dell’istruzione in senso regionale comporta non solo la gestione del personale,
ma la possibilità di intervenire sul curricolo degli studenti
e sull’Alternanza Scuola-Lavoro. La regionalizzazione del sistema
scolastico (o di parte di esso) punta a costruire in tempi brevi quella
sinergia tra istruzione ed impresa invocata dagli organismi europei e dalle
associazioni di categoria degli industriali e chiamata a fare della scuola il luogo
dell’addestramento delle giovani generazioni alle competenze richieste dalle
aziende del territorio.
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso comincia ad imporsi una corrente
di pensiero, destinata ad influire profondamente sulle dinamiche socio-politiche
e culturali del nostro tempo, che propone di importare le regole di
funzionamento del mercato concorrenziale nel settore pubblico. I principi
ispiratori del new management e della public
governance affondano le loro radici nell’elaborazione del concetto di
“società imprenditoriale”. Peter Drucker, teorico del management, riprendendo
certi aspetti dell’imprenditore schumpteriano- l’uomo della “distruzione
creatrice”- propugna la costruzione di una nuova società di imprenditori, il
cui spirito deve diffondersi in tutta la società.
L’obiettivo dichiarato è quello di trasformare gli USA in una società
imprenditoriale, caratterizzata da adattabilità e cambiamento
incessante. Il nuovo spirito imprenditoriale deve penetrare in tutti gli ambiti
del vivere sociale, in particolare nei servizi pubblici. Questa elaborazione
fornisce i fondamentali alla grande controffensiva liberista, messa a punto
proprio in quegli anni, mirata non tanto ad un progressivo ritiro dello Stato,
quanto ad “una trasformazione dell’azione pubblica” capace di fare dello Stato
stesso “una sfera regolata anch’essa da regole di concorrenza”[1]. La posta in gioco, dunque, è quella di
riuscire ad imporre al centro di tale azione pubblica principi, modalità e
meccanismi dell’impresa privata, in modo da riconfigurare una nuova pratica di
governo che sarà progressivamente adottata, a partire dagli anni ’80, dai Paesi
dell’OCSE.
In tale contesto, il management tende ad accreditarsi come
una tecnica gestionale valida per qualsiasi settore della vita collettiva (e
non solo, se pensiamo alla diffusione anche in campo educativo della concezione
dell’individuo come “imprenditore di se stesso), in quanto portatore dei valori
di efficienza, innovazione, flessibilità e competizione e delle modalità
organizzative necessarie per tradurli in pratica effettiva di governo. Lo Stato
è dunque spinto a strutturare il suo intervento secondo la logica del mercato ,
impresa in un mondo di imprese, regolato dalla legge della concorrenza, mentre
il cittadino , già soggetto di diritti sociali, si avvia a divenire un
consumatore al quale erogare beni e servizi, fra i quali egli potrà scegliere
il più conveniente in rapporto alle sue possibilità e aspettative.
Nel nostro Paese l’importazione delle regole e modalità di funzionamento
del mercato nel settore pubblico trova una significativa espressione giuridica
nella Legge n. 59 del 15 marzo 1997, voluta da Franco Bassanini, ministro per
la funzione pubblica e per gli Affari regionali nel governo Prodi. L’articolo
21 sancisce l’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti
educativi (posti sullo stesso piano ), nell’ambito di un processo di riorganizzazione
dell’intero sistema formativo. In particolare, il comma 8 stabilisce che
“l’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità,
della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio
scolastico, all’ integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle
strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il
contesto territoriale. Essa si esplica liberamente anche mediante il
superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione,
dell’unitarietà del gruppo classe e della modalità di organizzazione e impiego
dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane,
finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali, fermo restando i giorni di
attività annuale previsti a livello nazionale”[2], nonché il rispetto degli obblighi
annuali di servizio dei docenti previsti dai contratti collettivi.
Sono, qui, declinate tutte le voci che concorrono a definire le “ buone
pratiche” di governance secondo i dettami del management, dalla
flessibilità , all’efficienza gestionale, all’ottimizzazione del cosiddetto
capitale umano , a discapito della specificità scolastica , che ha come
corollario la consapevolezza della radicale differenza qualitativa (fondamenti,
contenuti e fini ) tra scuola e impresa, implicante, anche sul piano
organizzativo, soluzioni rispettose di tale specificità.
La riforma scolastica dell’autonomia, conosciuta come riforma Berlinguer
dal nome del ministro che la promosse in quello stesso periodo, si è incaricata
di rendere operante all’interno del sistema scolastico le linee guida stabilite
dall’articolo 21 , aprendo la strada all’aziendalizzazione della scuola. La
creazione della figura del Dirigente Scolastico cui si attribuiscono compiti di
tipo manageriale, l’introduzione del Piano dell’Offerta Formativa in ogni
scuola, l’insistenza sulla necessità di rispondere alle “attese espresse dalle
famiglie, dagli enti locali, dai contesti sociali, culturali ed economici del
territorio”,[3] la premialità per docenti coinvolti
in attività di tipo organizzativo o in base ad un “merito” valutabile
attraverso test (il famoso “quizzone” che costò al ministro l’incarico) fanno
penetrare nella scuola forme elementari di marketing , con
l’invadente ed inevitabile bagaglio di una neolingua ammiccante a debiti,
crediti, successo formativo, performance, obiettivo, risultato, servizio
all’utenza, open day. E spalancano le porte alla
concorrenza, appena temperata dal rituale richiamo alla libertà d’insegnamento
garantita dalla Costituzione: concorrenza tra docenti all’interno della stessa
scuola , attraverso meccanismi premiali a disposizione degli insegnanti con
funzioni organizzative o progettuali (e conseguente svalorizzazione
dell’attività in classe) e concorrenza tra i diversi Istituti che, a
suon di POF e progetti multiformi, allettano gli studenti-clienti, strappandoli
alle altre scuole.
Le successive riforme (se ne contano ben tre: Moratti, Gelmini e buona
scuola), pur con sfumature diverse, hanno accolto pienamente tale
impostazione, radicalizzandola nel senso della Scuola delle Tre I – Impresa,
Inglese, Internet- , della scuola dell’Invalsi, ostaggio del pensiero
quantitativo, e della scuola leggera del saper fare, fino alla
fornitura gratuita di manodopera alle aziende con l’Alternanza scuola-lavoro.
Questo sistema, in cui l’Italia si è trovata ad adottare politiche
scolastiche già in atto in diversi paesi sin dagli anni Novanta, crea nei fatti
un mercato dell’istruzione e della formazione, la cui conseguenza più visibile
è la frammentazione dei sistemi educativi e la differenziazione dei luoghi e
delle modalità di scolarizzazione secondo varianti sociali o/e geografiche e
rappresenta un caso emblematico della costruzione di una situazione di mercato
in un ambito ad esso estraneo per natura. Non è certo casuale che diversi e
importanti esponenti del pensiero neoliberista abbiano sempre guardato con
grande interesse all’istruzione, a partire da Milton Friedman che, già nel
1955, aveva proposto di istituire un sistema di concorrenza fra gli istituti
scolastici, fondato sull’assegno educativo, corrispondente al costo medio della
scolarità, da versare ad ogni famiglia, la quale avrebbe, poi, deciso in quale
scuola utilizzarlo.[4]
Due sono i principi da cui scaturisce tale proposta: le famiglie sono
considerate alla stregua di “consumatori”, liberi di scegliere “il prodotto”
più confacente alle loro aspettative, e gli Istituti sono spinti ad entrare in
concorrenza gli uni con gli altri , ciò che dovrebbe comportare un
miglioramento del loro livello, conformemente all’ideologia neoliberista per
cui la competizione produce , di per sé, beni e servizi di qualità superiore ,
a maggior profitto di tutti, secondo l’ottica del win win (tutti
vincenti). Non solo la realtà degli ultimi decenni si è incaricata di smentire
ferocemente tale rosea previsione, ma è doveroso sottolineare che questa idea
si fonda sul più che discutibile presupposto che educazione e cultura siano
merci , la cui produzione e distribuzione non risponde a criteri
sostanzialmente diversi da quelli di mercato. Presuppone altresì il passaggio
dalla figura del cittadino in possesso di diritti sociali e politici, maturati
nel corso di una lunga e complessa storia collettiva, a quella del consumatore,
la cui libertà si esplica entro lo spettro delimitato dalla possibilità di
scegliere i prodotti più rispondenti alle sue esigenze. E’ la norma della
concorrenza generalizzata che informa e plasma le relazioni sociali ai diversi
livelli e alla quale devono sottomettersi tutti i campi in cui si esercita
l’attività umana, pubblica e privata.
In questo quadro distopico – messo a punto dal pensiero neoliberista già a
partire dal convegno Walter Lippmnann del 1938 – gli Stati, dietro le
molteplici pressioni di organismi sovragovernativi (FMI,Banca Mondiale, Gatt in
primis) e privati, non solo si sono adeguati al modello gestionale
dell’impresa, ma hanno finito per cambiare il proprio ruolo, promuovendo
politiche volte ad adattare la società tutta ai vincoli della competizione
mondiale. Contestualmente, il settore pubblico- istruzione, sanità,
amministrazione, previdenza- è stato trasformato in produttore di servizi
forniti ad un cliente, in concorrenza con altre agenzie fornitrici.
In questa cornice – ideologica e politica – trova fertile humus la
richiesta dell’autonomia differenziata da parte di alcune regioni italiane, le
quali rivendicano il governo diretto di diversi e significativi ambiti della
vita pubblica in base alla loro maggiore competitività – in termini economici,
finanziari, gestionali- sia rispetto ad altre regioni del Paese, sia rispetto
allo Stato centrale. Sono regioni fra le più ricche d’Italia che, lungi dal
volere ritrovare una mitica identità locale all’insegna dei bei tempi andati
che esse per prime hanno distrutto con l’industrializzazione selvaggia che ne
ha devastato il territorio e sconvolto la coesione sociale, mirano a stabilire
legami diretti – di carattere economico innanzitutto- con le altre regioni più
avanzate d’Europa e ritengono di poterlo fare con maggiore successo, se
svincolate dal quadro istituzionale nazionale e dagli obblighi -fiscali in
primo luogo, ma non solo- che esso comporta. Per potersi misurare
proficuamente sul terreno economico e commerciale , hanno bisogno di
controllare settori strategici e, fra questi, uno dei più importanti è
rappresentato dalla scuola. Non a caso, le regioni Marche e Umbria che, sulla
scia delle più note Emilia, Lombardia e Veneto , hanno avviato anch’esse un
percorso in comune di autonomia differenziata, limitano le loro richieste a
poche discipline ed una di queste riguarda proprio l’istruzione e la formazione
tecnica e professionale, nonché l’università. La posta in gioco è,
infatti, piuttosto appetitosa , perché la riorganizzazione dell’istruzione in
senso regionale comporta non solo la gestione del personale, ma la possibilità
di intervenire sul curricolo degli studenti e sui “percorsi
per le competenze trasversali e l’orientamento”, ovvero sull’Alternanza
Scuola-Lavoro, così ribattezzata dal nuovo ministro nel vano tentativo di dare
una verniciatura didattica ad un dispositivo di descolarizzazione, sfruttamento
e manipolazione ideologica del quale questo sito già si è occupato[5] . La regionalizzazione del sistema
scolastico ( o di parte di esso) punta, infatti, a costruire in tempi brevi
quella sinergia tra istruzione ed impresa invocata dagli organismi europei e
dalle associazioni di categoria degli industriali e chiamata a fare della
scuola il luogo dell’addestramento delle giovani generazioni alle competenze
via via richieste dalle aziende del territorio. Sarebbe, questo, un percorso
particolarmente propizio alla messa in discussione del valore legale del titolo
di studio, la cui soppressione aprirebbe agevolmente la porta a soluzioni
tarate sul modello della “tessera personale delle competenze”, proposta già sul
finire del secolo scorso dal commissario europeo per la scienza, la ricerca e
la tecnologia Edith Cresson nel suo Libro bianco[6]:una
certificazione aggiornata in tempo reale lungo l’intero arco della vita , con
il concorso di settori professionali e imprese.
Il processo di mercatizzazione dell’istruzione, innescato dalle riforme
degli ultimi vent’anni, troverebbe un coerente e più completo sbocco
nell’ambito di una riorganizzazione su base regionale, capace di darsi gli
strumenti più efficaci per realizzare l’auspicata integrazione fra realtà
produttive locali e formazione e di vincere, grazie alla frammentazione del sistema,
le resistenze che il mondo della scuola ancora esprime in merito. Il compito si
trova ad essere facilitato dai profondi mutamenti che già hanno portato la
scuola sulla via dell’aziendalizzazione e non servono provvedimenti di
eclatante rottura che potrebbero suscitare allarme sotto il profilo giuridico:
l’autonomia scolastica fornisce un quadro normativo improntato a flessibilità e
significativa attenzione sia alle esigenze territoriali, sia alla possibilità
di opzione da parte delle famiglie.
E’ rilevante che un importante esponente di una rete di istituti privati di
orientamento cattolico, intervistato circa la regionalizzazione, affermi che
essa rappresenta un passo avanti (presumibilmente, verso il pieno
riconoscimento degli Istituti paritari), “se si tratta di un modo per garantire
più autonomia e libertà di scelta ai singoli Istituti”[7]. Si invoca, non casualmente, quella
libertà di scelta che per Milton Friedman riassumeva tutte le qualità del
capitalismo concorrenziale e che muove dal principio che la concorrenza va
creata anche dove non esiste, introducendo una serie di incentivi di mercato. E
tali sembrano essere quelli che il governatore del Veneto fa balenare dalle
pagine dello stesso periodico: promette, infatti, aumenti ai docenti in base al
merito, nonché una modifica in senso territoriale dei contratti collettivi.
Pura operazione di marketing, probabilmente, se non fosse che tali
proposte toccano un tasto particolarmente sensibile del dibattito pubblico.
Pressioni in questa direzione- di fuoriuscita dai contratti collettivi
nazionali- vengono, infatti, avanzate ormai da anni da diversi attori sociali e
politici, in nome dello svecchiamento dell’inquadramento contrattuale
professionale, dipinto come una sorta di gabbia obsoleta, nemica
dell’efficienza e , naturalmente, del merito. Ora, al di là del possibile esito
dei negoziati intrapresi da diverse Regioni per ottenere l’autonomia
differenziata ( che non potrà non misurarsi con le contraddizioni dell’attuale
scenario politico, con i vincoli costituzionali e, sperabilmente, con
un’opposizione agguerrita in tutto il Paese), il paradigma ispiratore e le
proposte che sono via via emerse rischiano, comunque vadano le cose, di
legittimare idee e pratiche in aperto conflitto con I principi fondanti della
Costituzione, a partire dall’articolo 3. Non è inutile ricordare
che le diverse “riforme” che , dagli anni ’80 del Novecento, hanno
deregolamentato il lavoro, privatizzato i servizi pubblici, aperto al mercato
scuole ed ospedali, delimitato l’azione budgetaria dei governi, si sono spesso
realizzate per progressivi aggiustamenti, sostenuti da pervasive campagne
ideologiche affidate ai media e normati, poi, entro una
cornice legale.
[1]cfr.
P.Dardot,C.Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità
neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2016, in particolare pp.366-413)
[3]Cfr. Il regolamento in
materia di autonomia scolastica e, in particolare, il curricolo
dell’autonomia in https://archivio.pubblica.istruzione.it/didattica_museale/dpr275_1999.pdf
[4] Cfr M.
Friedman, The role of Government in education , disponibile in
rete: https://la.utexas.edu/users/hcleaver/330T/350kPEEFriedmanRoleOfGovttable.pdf
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