Si possono modificare la cultura politica e l’atteggiamento concreto verso
la popolazione delle forze armate e della polizia? Alla luce della recente
esperienza in Uruguay e Brasile, la risposta è negativa. Dopo trentacinque anni di democrazia e più di
un decennio di governi di sinistra, gli apparati repressivi riaffermano il loro
ruolo tradizionale e non sono disposti a modificarlo.
Mi riferisco in particolare alle forze armate, perché hanno una certa
specificità rispetto alle forze di polizia. In Uruguay si è appena registrata
una crisi tra il governo di Tabaré Vázquez e l’alto comando militare (a
causa della copertura da parte dei comandi di torturatori e assassini), che si
è conclusa con sostituzioni al Ministero della Difesa e nella cupola militare.
Tuttavia, i problemi a cui mi
riferisco non riguardano l’una o l’altra persona. Sono strutturali.
Il nuovo ministro della Difesa, José Bayardi, ha concesso un’intervista nella
quale spiega l’immobilismo con l’endogamia della famiglia militare. “I rapporti
degli studenti militari, i cadetti e gli ufficiali si verificano in contesti
familiari che provengono dalla stessa professione”, spiega.
Augusto Pinochet ai tempi del Plan Cóndor
A suo avviso, questo chiarisce “l’enorme peso dei militari in pensione
sugli ufficiali più giovani in relazione a un racconto costruito e diffuso
negli ambienti quotidiani degli ufficiali. È impossibile o molto difficile
rompere con il racconto costruito sui fatti della dittatura, senza rompere nel
contempo con i legami dei rapporti familiari”.
La sinistra, al governo dal 2005, ha sostenuto la
necessità di modificare l’istruzione nelle scuole militari, cosa che non ha poi
messo in pratica.
In Brasile succede qualcosa di simile. I militari
giustificano la dittatura, la negano o la minimizzano. Non solo quelli in
pensione che sono nel governo di Jair Bolsonaro, e che sono coloro che possono fare
dichiarazioni pubbliche, bensì le
stesse forze armate come istituzione. Hanno giocato un ruolo
decisivo nel rovesciamento di Dilma Rousseff e nell’incarcerazione di Lula, per
mano del precedente comandante in capo dell’Esercito, generale
Villas Bôas.
Com’è giusto che sia, la sinistra brasiliana critica con durezza Bolsonaro
e il giudice Sergio Moro, adesso ministro. Però non parla della comunicazionedel
generale, il giorno prima del processo a Lula, il 3 aprile 2018: “Assicuro alla
nazione che l’Esercito brasiliano condivide il desiderio e la voglia di tutti i
cittadini per bene di ripudio dell’impunità e di rispetto alla
Costituzione, la pace sociale e la democrazia”. È stata un’indebita
pressione sulla giustizia, ma rappresentava l’opinione delle forze armate.
Evo Morales con i generali boliviani
Mi interessa constatare due questioni centrali: che gli apparati armati dello Stato non sono
cambiati e non hanno né l’intenzione né la possibilità di farlo, e che la sinistra non sta discutendo su cosa fare
al riguardo.
Sulla prima questione, non possiamo ingannarci, perché il ruolo dei militari nella società (lo
stesso vale se parliamo delle forze di polizia) non dipende da questo o
quell’ufficiale, nemmeno dal governo di turno, perché risponde a una questione
strutturale. Le forze
armate possono accettare la democrazia e perfino le regole delle
istituzioni democratiche, ma non cambieranno i loro modi e faranno tutto il
possibile per neutralizzare qualsiasi atteggiamento del potere politico che
leda i loro interessi.
Sono d’accordo con le affermazioni del ministro Bayardi sul senso della
“endogamia” come parte della spiegazione della continuità militare rispetto
alle dittature. In Brasile la dittatura è terminata nel 1985 (quasi 35 anni di
democrazia) e il PT ha governato tra il 2003 e il 2006. In Uruguay la dittatura
è terminata nel 1984 e il Frente Amplio governa dal 2005. Adesso si riconosce
l’ovvio, che non ci sono stati cambiamenti né nella mentalità né
nell’atteggiamento dei militari, malgrado che entrambi i governi abbiano
concesso importanti benefici materiali, sia negli stipendi sia come budget per
la modernizzazione delle forze.
La seconda questione è la sinistra. Il problema è
che non discutiamo sulle forze armate, forse perché dovremmo in tal caso
discutere sulle continuità nella cultura del potere giudiziario, della polizia,
del parlamento, insomma, di tutti gli organi di potere che compongono la
società. E per ultimo, finiremmo discutendo sui militanti di sinistra.
La cosa più grave, secondo me, è che non solo non discutiamo sulle forze
armate ma non sappiamo neppure cosa fare. I tempi trascorsi in democrazia e
sotto i governi di sinistra sono sufficienti per fare il punto. La realtà di questi due paesi è la stessa di
quella di tutto il continente, al di là del colore dei governi.
Possiamo continuare a restare distratti, fino a che la mancanza di una
posizione non ci si ritorcerà contro. Il problema delle forze armate, la loro
persistenza nel ruolo repressivo contro i popoli e le popolazioni, ci
parla dei limiti dell’amministrare lo Stato.
(Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Militares, policías y
democracia. Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo)
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