Lo scorso febbraio SeSaMO, la Società Italiana di Studi
sul Medio Oriente, ha risposto all’appello del mondo accademico palestinese: il
rifiuto a riconoscere l’Università della colonia israeliana di Ariel.
Nata nel 1995 a Firenze, SeSaMo riunisce
studiosi e studiose di diverse discipline e lavora alla promozione della
ricerca su Medio Oriente, Nord Africa e Corno d’Africa. Durante l’ultima
assemblea annuale, due mesi
fa, alla presidentessa Daniela Melfa è
stato chiesto di inviare una lettera al ministro dell’Istruzione, per invitarlo
a «non accreditare o riconoscere in alcun modo l’Università di Ariel e
le altre istituzioni di educazione universitaria situate negli insediamenti
illegali israeliani».
A fine marzo
nel sito di SeSaMo è stata pubblicata la lettera indirizzata al ministro
Bussetti, in cui si sottolinea come per
il diritto internazionale «il trasferimento della popolazione civile e la
costruzione di migliaia di insediamenti all’interno di territori occupati
militarmente» sono considerati «crimini di guerra». Con quella
lettera per la prima volta una società di accademici italiani ha chiesto
ufficialmente la sospensione delle relazioni con un’università coloniale
israeliana.
In ebraico
Ariel significa “leone di Dio”. Fondata
nel 1978, a 11 anni dall’occupazione militare israeliana della Cisgiordania,
Ariel è tra le quattro più grandi colonie nei territori occupati. Ventimila
residenti, 15mila km quadrati di estensione, entra prepotentemente in
Cisgiordania, a metà strada tra la Linea Verde del 1948 e il confine con
la Giordania. «Tra 15 anni sarà una città da 100mila abitanti», prometteva un
anno fa il sindaco Eli Shaviro. A marzo, in pieno clima elettorale, il premier
Netanyahu ne annunciava l’ampliamento, 840 nuove case come “risposta”
all’assassinio del soldato Gal Keidan e del rabbino Achiad Ettinger per mano di
un 18enne palestinese, Omar Abu Leila.
Ariel è in effetti una
città, l’opposto dell’immagine che può avere di una colonia chi non ha mai
visto la Cisgiordania. Palazzine identiche tra loro, ospedali, centri
commerciali, una zona industriale con 45 fabbriche occupano un terzo dell’area
di giurisdizione del comune, assegnata da Tel Aviv in violazione del
diritto internazionale. All’inizio
ha accolto la classe media, gli impiegati delle due più grandi compagnie
militari israeliane, l’allora Israel Aircraft Industries e la Israel
Military Industries.
Negli anni ’90 è stata ricettacolo dell’immigrazione
dall’ex Urss: arrivarono
in Israele oltre un milione di russi cristiani (tutti chiusero un occhio, c’era
da far crescere la popolazione israeliana). E
infine l’ultima “migrazione”: a metà anni 2000 qui vennero trasferiti i coloni
di Gaza, religiosi che hanno in parte modificato la natura laica
dell’insediamento, distante dai movimenti religiosi che si ingrossavano
nel resto della Cisgiordania occupata.
Nella
narrazione israeliana, si legge nel sito del comune, Ariel è «una città nel
cuore di Israele». Sparisce l’occupazione. Sparisce nella “normalità” della sua
zona industriale e nella “normalità” della sua università. Fondata nel 1982 come filiale della
Bar-Ilan University di Tel Aviv, dal 2004 è ateneo indipendente. Appena un anno
fa una legge ad hoc l’ha posta sotto il ministero dell’Istruzione di Tel Aviv.
Conta 15mila
studenti, 450 accademici e le facoltà di architettura, ingegneria, scienze
naturali, scienze sociali, medicina: «L’Università di Ariel presenta una
prospettiva nuova del sionismo contemporaneo e si batte per rivitalizzare i
valori della costruzione dello Stato attraverso l’eccellenza nelle scienze e la
ricerca – si legge nel sito – Rappresenta l’intero spettro della società
israeliana: ebrei e arabi, laici e osservanti, nuovi immigrati e israeliani
nativi».
Ma a renderla un
polo di attrazione sono i 20 centri di ricerca, dalla cura del cancro
all’innovazione cyber, dall’archeologia alla sicurezza nazionale. Ora
sogna un’espansione esplosiva grazie ai 20 milioni di dollari donati dal
miliardario Usa Sheldon Adelson.
Ma c’è chi
non intende partecipare. A
lanciare l’appello al boicottaggio è la campagna palestinese No Academic Business
as usual with Ariel University (ministero dell’Educazione
palestinese, Consiglio dei rettori, Federazione dei sindacati dei professori e
Palestinian Human Rights Organization Council) che fa appello a istituzioni,
governi e singoli accademici perché non riconoscano la legittimità di Ariel,
definita «istituzione illegale e complice del sistema israeliano di oppressione
che nega i diritti basilari dei palestinesi».
Un
boicottaggio in diverse forme: rifiuto
a partecipare a progetti congiunti e conferenze e a non pubblicare lavori
dell’ateneo a meno che non si indichi la provenienza, “Territori palestinesi
occupati”; e l’impegno a promuovere mozioni per il non riconoscimento
dell’istituzione. E a denunciare quanto avviene su base quotidiana: il
diniego israeliano di visti di ingresso a chi collabora con università
palestinesi, il divieto di uscita da Gaza di studenti con borse di studio
all’estero, gli ostacoli al diritto all’educazione dovuti ai checkpoint.
C’è chi ha
risposto: oltre mille accademici israeliani, l’Associazione degli Antropologi
israeliani e la Società israeliana di Sociologia, il Politecnico della
Danimarca, l’Associazione europea degli antropologi sociali, la Kasersart
University di Bangkok, la Exeter University. E ora SeSaMo.
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