venerdì 31 maggio 2019

Una notte al pronto soccorso - Francesco Giorgioni




Ho già scritto questo post. E sempre ne scriverò uno, ogni volta che mi capiterà di passare una notte intera al pronto soccorso.
Forse non lo avrei scritto, se dopo un paio d’ore d’attesa non mi si fosse avvicinato uno sconosciuto per chiedermi se anche a me sembrava che medici e infermieri fossero “da arrestare”, poiché da troppo tempo ai pazienti che suonavano all’ingresso non rispondeva nessuno.
Neppure io ho risposto al signore fuori di sé. Erano appena arrivate tre ambulanze e avevano scaricato i feriti coinvolti in altrettanti incidenti stradali.
Ho provato a mettermi nei panni di medici e infermieri, ad interpretare i loro dubbi professionali e di coscienza nello stabilire le priorità delle decine di casi, assegnando magari la precedenza a chi era arrivato un minuto prima su una barella, a discapito di chi invece aspettava il suo turno da tre ore.
Io stesso aspettavo da ore il mio turno, dopo essere stato disarcionato dalla mia bicicletta ed essere ricaduto pesantemente sulla schiena. Avevo dolori ovunque, ma ero stato visitato e sapevo che non ci avrei lasciato la pelle.
Medici e infermieri di un pronto soccorso sono eroi civili. Eppure subissati ogni giorno di bestemmie, insulti, minacce e maledizioni, confusi con le inefficienze di un sistema mai abbastanza preparato per fare fronte a tutte le emergenze.
Alla grandezza di vigili del fuoco, carabinieri e poliziotti si dedicano inni. Ai medici di un pronto soccorso esposti e denunce in Procura.
Sono arrivato al pronto soccorso del nuovo ospedale di Olbia alle sette del pomeriggio di martedì 21 maggio, ne sono uscito alle quattro del mattino seguente.
Sarei dovuto andarmene via schiumando rabbia e inveendo contro la malasanità, i politici, il governo.
Invece me ne sono tornato a casa con, negli occhi e nelle orecchie, immagini e parole registrate in quelle lunghe ore ad aspettare, in parte dentro una stanza dove riposavano pazienti appena ricoverati ed altri in attesa degli esami, in parte tra gli ambulatori al pianterreno e i corridoi.
L’essenza di ciò che è rimasto in me, dopo la notte, potrebbe risolversi nella parola “gratitudine”.
Alle dieci il medico di turno mi ha tastato la spalla e la schiena, dopo avermi chiesto dettagli sull’incidente. Un infermiere mi ha porto una pillola: “La tenga sotto la lingua per venti secondi, poi deglutisca”.
Sono stato accompagnato nella stanza accanto, in attesa dei raggi.
L’ho condivisa con:
immobile su una lettiga, un giovanotto con la barba da hipster vittima di un tamponamento in un cantiere stradale della nuova strada per Sassari, il collo stretto in un collare ortopedico, così stretto da sentirsene soffocato;
Un tassista, abbandonato su una sedia, l’ago della flebo conficcato nel braccio, cui dopo qualche minuto una giovane infermiera con indispensabile senso dell’umorismo ha annunciato: “Lei ha vinto un letto!”;
Un altro giovanotto, magro e pensieroso, allarmato da forti ed insistenti dolori al petto;
Un novantaduenne arrivato da un paese della bassa Gallura, assistito da una badante di Olbia;
Un signore di mezza età, addormentato su un fianco nel letto in fondo alla stanza e che per tutto il tempo ha dormito profondamente.
Alla compagnia, nel cuore della notte, si è aggiunto un ragazzo vestito di tutto punto, anch’egli irrigidito su una lettiga metallica, anch’egli provvisto di collare ortopedico, anch’egli coinvolto in un incidente stradale avvenuto in una vicina località turistica.
Mi era più facile convivere con i miei dolori stando dritto in piedi, anziché seduto. Allora mi sono alzato e ho iniziato a passeggiare per il corridoio.
In una nicchia ricavata lungo questa corsia, su tre letti affiancati, due signori parlavano in inglese.
In mezzo a loro, infagottato nelle coperte, stava un vecchio rinsecchito, piccolo come un bambino. Il volto, aggrinzito da rughe profonde come solchi, coperto dal respiratore per l’ossigeno.
Gli teneva la mano un signore dai capelli bianchi, che mi sono convinto essere il figlio.
Mi sono fermato proprio davanti a loro, accanto alla porta del medico.
Mi fissavano, cercando forse un cenno di conforto che io non sono stato capace di regalare. Manco quando dagli occhi del figlio hanno iniziato a cadere lacrime silenziose.
Gli altri due signori erano olandesi, ammaccati nell’incidente stradale avvenuto nella località turistica assieme al ragazzo della stanza.
In tutto questo tempo, medici e infermieri non si sono fermati per un solo momento.
Governare la disperazione di un pronto soccorso credo sia molto più difficile che amministrare la speranza e la rassegnazione di un reparto.
Il signore novantenne aveva, nel tono e nei discorsi, il profilo di un benestante abituato agli agi di una vita comoda. Ma era disorientato, perso in un presente confuso.
Non voleva credere di essere in ospedale, non ricordava ce lo avessero portato. E ad un certo punto si è ribellato, ordinando di essere riportato a casa.
Cercava di alzarsi e di strapparsi il catetere, nonostante le rassicurazioni della badante. E così medici ed infermieri hanno dovuto dedicare parte del loro tempo a tranquillizzarlo, ora con parole gentili ed altre volte con avvertimenti severi.
Ma lui nulla, voleva andarsene.
Quando ha capito che non era aria, ha iniziato a raccontare la storia della sua lunga e ricca vita, screziandola con nitidi dettagli sulla sua istruzione, sulle sue tante attività di imprenditore e sulle auto che, a partire dagli anni quaranta, aveva posseduto.
Il racconto durava un quarto d’ora. Poi ricominciava daccapo. E così per un numero che non saprei dire di volte.
I due signori olandesi avevano altre parenti ricoverati in reparto, così ho capito. Ad un certo punto anche loro sono stati colti da un gran bisogno di parlare, chiedere informazioni, chiacchierare.
Medici e infermieri hanno risposto in un inglese fluente, comunicando senza impedimenti con loro.
Medici e infermieri, difficile distinguere gli uni dagli altri. Ricordo una giovane dottoressa che faceva avanti e indietro spingendo per il corridoio i pazienti stesi sui lettini con le rotelle, un lavoro che forse non le sarebbe spettato. I ruoli si confondono e si mescolano, le gerarchie soccombono allo stato di necessità.
All’una mi hanno portato a fare le lastre.
Dall’altra parte del vetro erano in due.
In piedi, spalle appoggiate al macchinario, braccio alzato, braccio piegato, di fronte e di profilo come un detenuto pronto alla cella.
Mi è sembrato un lavoro scrupoloso, svolto con attenzione.
In quel mentre sono arrivati i carabinieri. Pensavo li avessero chiamati per sedare un signore trasandato, in evidente stato di agitazione, che si aggirava in sala d’attesa poco dopo il mio arrivo.
Invece i due militari cercavano dichiarazioni dalle persone coinvolte in uno degli incidenti. Il personale ha dovuto collaborare anche al lavoro di indagine, rispondendo a domande e richieste di documenti, in aggiunta al lavoro della notte.
Quando sono tornato nella stanza, il vecchio aveva interrotto il racconto della sua vita e ripreso a protestare, lui in ospedale non voleva assolutamente restarci.
Una dottoressa e un infermiere hanno mollato tutto per calmarlo. Improvvisamente si è addormentato.
La sua badante, conquistata la quiete, mi ha chiesto se sapessi nulla di un incidente accaduto nei pressi di Arzachena, di cui aveva letto su Facebook. No, non ne sapevo nulla. E lei: “Sa, non c’è sempre da fidarsi di quel che si legge su Facebook”.
Il giovanotto irrigidito sulla barella di metallo, stretto nel suo collare ortopedico, ha alzato un braccio: “C’è stato, l’incidente, c’è stato. Dentro una delle macchine c’ero io”.
Verso le due il medico mi ha anticipato che mi ero fratturato tre costole, rimandandomi ad un colloquio più approfondito qualche minuto più tardi.
Subito dopo, il giovanotto con i dolori al petto è stato sottoposto ad un nuovo elettrocardiogramma e, infine, dimesso.
Ha salutato tutti col sorriso e l’ho visto scomparire in fondo al corridoio, assieme alla sua signora.
Alle tre il medico mi ha ricevuto nel suo studio per le conclusioni: le fratture alle costole erano quattro, proprio all’inserzione della colonna vertebrale.
Un mese di riposo, antibiotici e toradol, nuovo controllo tra venti giorni.
Ho riletto il pezzo. Non sono riuscito a trasmettere fino in fondo la concitazione della notte, il misto di speranza e angoscia, il moto perpetuo di quel gruppo di donne e uomini in camice col compito di salvare vite in mezzo agli insulti e alle brutture di questo mondo nevrotico e irriconoscente.
Nessuno tra loro si è mai fermato, in quella notte. Ognuno, da quanto ho visto, ha speso tutte le sue energie. Nessuno ha detto una parola fuori posto per rispondere alle provocazioni. Tutti hanno sempre avuto un sorriso per tutti.
Mentre mia moglie mi riportava a casa, all’alba, pensavo a quale grande conquista sia la sanità pubblica e gratuita.
Certo, la paghiamo con le nostre tasse, ma c’è qualcosa di migliore per cui valga la pena contribuire?
E poi ho pensato a quel signore che voleva far arrestare i medici del pronto soccorso. Avrà certamente avuto i suoi motivi per essere esasperato.
Ma risolvere il problema arrestando i salvatori mi è sembrata, da subito, una rappresentazione cosmica delle ingiustizie umane, come ne accadono da duemila anni a questa parte

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