L’abolizione legale della schiavitù –
una conquista per la dignità umana iniziata nel Medioevo – non ha affatto
eliminato gli schiavi nel mondo. A documentarlo
ci sono i dati e le storie raccolte da Global Slavery Index e
da Delta 8.7 riferite
proprio ai nostri giorni.
Tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite spicca
il punto 8.7, secondo il quale 193 Paesi hanno assunto
l’ambizioso impegno di sradicare la schiavitù e la
tratta degli esseri umani entro il 2025 e il lavoro minorile
entro il 2030.
Qual è la situazione oggi? Non
incoraggiante. Nel 2016, 40.3 milioni di persone si sono trovate a vivere
condizioni di “moderna schiavitù”. Di queste,
circa 15 milioni hanno subito un matrimonio forzato e
25 milioni sono state costrette a lavori forzati. Il
71% dei moderni schiavi è composto da donne, mentre il 29% da uomini. Inoltre,
i bambini che lavorano – per lo più in condizioni disumane – sono 152 milioni.
La schiavitù moderna comprende
tutte quelle situazioni di sfruttamento nelle quali le persone si trovano
intrappolate e non ne possono uscire a causa di minacce,
violenze, coercizioni e abusi di potere subiti costantemente.
Dal lavoro minorile alla manodopera sottopagata in fabbriche clandestine fino
alle prestazioni estenuanti nell’agricoltura o nelle miniere, gli ambiti dove
si trovano gli schiavi del nostro tempo sono molti.
Negazione di libertà, dignità umana,
giustizia e diritti basilari accomunano le storie di uomini, donne, bambini che
sopravvivono nella costrizione. Accanto a queste condizioni, se ne aggiungono
altre riconducibili alla schiavitù come il reclutamento di bambini soldato,
il traffico di persone, lo sfruttamento
delle donne nel mercato sessuale, i matrimoni forzati delle bambine, il trattamento dei migranti.
La classifica dei dieci Paesi con maggiore presenza
di schiavi moderni vede al primo posto la Corea del Nord,
seguita da Eritrea, Burundi, Repubblica Centrafricana, Afghanistan, Mauritania,
Sud Sudan, Pakistan, Cambogia, Iran. Questi Stati si contraddistinguono
soprattutto per instabilità, guerre, povertà, regimi altamente repressivi.
Proprio alcune di queste nazioni – Repubblica Centrafricana, Afghanistan, Sud
Sudan, Pakistan – superano il 90% di vulnerabilità. Sono, quindi, territori con fattori di rischio sistematico, individuale e
ambientale molto elevato.
Inoltre, i tre Paesi che presentano
maggiori situazioni di schiavitù sono quelli dove è lo Stato stesso ad imporre il lavoro forzato ai suoi
cittadini. Corea del Nord, Burundi ed Eritrea, infatti,
adottano incontrastati il reclutamento violento e obbligatorio di persone tra
la popolazione per svolgere mansioni in agricoltura e nell’edilizia pubblica.
Le autorità statali possono anche imporre ai militari lo svolgimento di duri
lavori non militari o ai prigionieri di lavorare in costrizione,
contro la loro volontà.
In questo scenario, la coscrizione
obbligatoria e a vita dei giovani eritrei e l’abuso dei cosiddetti doveri
civici in Burundi (si tratta in generale di lavori comunitari imposti con la
forza e non remunerati) sono soltanto alcuni esempi di trattamento disumano da
parte dei Governi sulle loro popolazioni.
Emblematico è il caso della Corea del Nord. Qui sono
innanzitutto i bambini ad essere coinvolti nei lavori forzati. I piccoli
schiavi vengono prelevati da scuola per mansioni di tipo agricolo (soprattutto
quando arriva il periodo del raccolto). Sono le scuole a ricevere dei compensi
per questo servizio – non i bambini obbligati a lavorare – e, in caso di
rifiuto da parte degli scolari, quest’ultimi sono vittime di punizioni e derisioniall’interno
dell’istituto scolastico.
Gli adolescenti della Corea del Nord
raccontano dell’obbligo di lavoro imposto dallo Stato per la costruzione di
opere pubbliche, come l’autostrada di Pyongyang e dell’impossibilità di
rifiutare qualsiasi mansione ordinata, pena la riduzione della razione
di cibo. Gli adulti, inoltre, sono impiegati per prestazioni di
vario genere sempre sotto l’ordine dello Stato, senza
alcuna retribuzione (o con stipendi pagati solo in parte e dopo
anni). Il lavoro nei campi di fagioli, per esempio, è svolto sotto stretta
sorveglianza, senza la libertà di andare in bagno e con orari estenuanti (dalle
6 del mattino fino alla sera). Lasciare il posto di lavoro o non presentarsi
significa essere catturato, interrogato e spedito in campi di addestramento.
Le storie degli schiavi del 21°
secolo attraversano tutto il mondo. Nel 2016, le cifre stimate di
persone vittime di varie forme di schiavitù ammontano a più di 9 milioni in
Africa, quasi 2 milioni nelle Americhe, 520.000 negli Stati Arabi, 25 milioni
nella regione Asia e Pacifico e più di 3,5 milioni tra Europa e Asia centrale.
Numeri che parlano di vite umane,
come i minori coinvolti nelle pericolose mansioni delle miniere di cobalto in Congo; gli schiavi della Mauritania che ereditano questa
condizione sociale senza possibilità di riscatto; i lavoratori costretti a dure
mansioni per pagare i debiti in Cambogia; i lavoratori domestici asiatici sfruttati in Giordania; i bambini del Bangladesh che vivono in baraccopoli e
lavorano 64 ore a settimana nelle catene di montaggio.
Anche se, in alcuni casi, bisogna stare
molto attenti nel giudizio e nella valutazione dei fatti. I parametri
utilizzati per valutare condizioni di sfruttamento sono quelli della società e
delle norme del mondo occidentale. Un caso emblematico è la questione dei bambini che sarebbero ceduti ai trafficanti da famiglie
poverissime in Ghana, costretti a lavorare con i pescatori del Lago
Volta. Un caso raccontato con allarme e toni sensazionalistici, ma che invece è
dato dalle particolari condizioni e strutture familiari e sociali
del luogo.
Gli Stati più sviluppati, ricchi e
democraticamente evoluti non sono esenti da situazioni di sconfinamento nella
schiavitù sul proprio territorio. L’Italia, per esempio, ha registrato nel 2016 la
presenza di circa 145.000 persone in condizioni di schiavitù
moderna. Tratta di essere umani, sfruttamento sessuale di donne
soprattutto nigeriane, manutenzione in schiavitù sono alcuni dei reati scoperti
e puniti nel nostro Paese.
A queste situazioni di violenza e
negazione di libertà, si sono aggiunti i casi dei lavoratori migranti
sfruttati. Paghe vergognose (anche 2 euro l’ora), assenza di contratto, negazione del diritto alla salute, confisca di documenti e passaporti, violenze fisiche inflitte dai caporali, orari di lavoro
estenuanti e illegali: queste sono soltanto alcune delle condizioni di
schiavitù scoperte nelle aziende agricole meridionali di raccolta di arance
e pomodori. Dai sudanesi costretti a raccogliere pomodori per lunghe ore sotto
il sole 7 giorni su 7 al caso dei rumeni picchiati e
sfruttati a Ragusa, fino agli indiani schiavizzati nella pianura pontina,
l’Italia ha contribuito alla diffusione di queste inaccettabili pratiche.
La responsabilità dei Paesi più
democratici non riguarda soltanto i casi di schiavitù sul proprio territorio.
Il mondo sviluppato gioca anche un ruolo indiretto nel favorire la permanenza
di schiavi, soprattutto se si considera il lavoro forzato. L’area dei Paesi
G20, per esempio, importa costantemente prodotti e materie prime ad elevato rischio
di schiavitù e i Governi sembrano sforzarsi molto poco per imporre condizioni
di lavoro umane e legali ai propri venditori.
Tutti gli Stati del G20 acquistano
annualmente circa 354 miliardi di dollari di prodotti a rischio
schiavitù. Il caso più evidente è quello della Cina, importatrice di carbone dalla Corea del Nord per
una cifra pari a quasi un miliardo di dollari. Gli articoli maggiormente importati
e implicati nelle storie di costrizione e sfruttamento sono il cotone dell’Asia
centrale, gli indumenti dall’America del Sud e dall’Asia, l’oro della
Repubblica Democratica del Congo, della Corea del Nord, del Perù, il carbone
della Corea del Nord e del Pakistan, i diamanti dell’Angola.
La sfida per l’abolizione della
schiavitù dichiarata nell’obiettivo 8.7 chiama in causa tutti. Paesi
sviluppati, cittadini consumatori, governanti in tutto il mondo: la
responsabilità di queste gravi ingiustizie ricade su ciascuno di noi.
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