(Tratto da Altreconomia 215 — Maggio 2019)
La prima zona rossa fu istituita a Genova, nel luglio 2001. Il centro storico della città venne recintato, chiuso con reti metalliche e altri supporti, l’accesso proibito a chiunque non vi abitasse. I residenti erano obbligati a transitare per appositi checkpoint. La libera circolazione delle persone sul suolo pubblico era sospesa per “motivi di ordine pubblico”. È cosa nota: la città ospitava il cosiddetto G8, il vertice fra i leader dei Paesi più industrializzati del mondo, e capi di Stato e di governo andavano protetti da ogni insidia, separando loro dal resto della società e il centro di storico di Genova dal resto della città.
Ci fu,
all’epoca, chi invocò la natura incostituzionale del provvedimento, ma
l’obiezione fu respinta e la zona rossa svolse il suo compito sia pratico sia
simbolico: per la prima volta si metteva in scena la separazione fisica fra il
mondo dei potenti e il mondo dei comuni; una separazione fisica, giustificata
da ragioni di sicurezza, che segnava anche un confine etico, morale, politico.
La città di Genova, nelle giornate del G8, fu una rappresentazione visiva della
natura della globalizzazione neoliberale.
Oggi le zone
rosse tornano, come i vecchi amori che non tramontano. Cambia però lo scenario.
Non si tratta più di separare otto uomini di potere da tutto il resto, ma si intende
marcare un ulteriore confine fra noi e loro, fra la gente perbene e la gente
permale. L’obiettivo anche stavolta è duplice: pratico (ma è il meno
importante) e simbolico (il vero motivo della scelta).
A
Calolziocorte, in provincia di Lecco, il consiglio comunale a guida leghista ha
approvato un regolamento che istituisce zone rosse e zone blu pensate per
tenere lontano certe persone -in questo caso cittadini stranieri ospiti di un
eventuale centro di accoglienza per profughi- dal resto della popolazione. Le
zone rosse sono state tracciate attorno a luoghi definiti “sensibili” -150
metri dalla stazione e dalle scuole- precluse ad eventuali centri di
accoglienza; nelle zone blu (in realtà zone rosse aggiuntive), che circondano
oratori e biblioteche, l’accoglienza è possibile solo dopo apposito nulla osta.
Lo spirito del regolamento è chiaro: separare i profughi dagli altri, tenerli
lontani dai luoghi di aggregazione, insinuare nella gente l’idea che la
presenza di quelle persone sia una minaccia.
Dalla Lega
intesa come partito a Laura Lega, intesa come prefetta di Firenze, il quadro è
simile. La prefetta ha disposto il divieto d’accesso a 17 fra strade, piazze,
giardini, parchi (incluse aree enormi come le Cascine, la Fortezza da Basso, la
zona della stazione Santa Maria Novella) per chiunque sia stato denunciato
dalle forze di polizia (denunciato, non condannato) per spaccio, reati contro
la persona, danneggiamento, commercio abusivo.
La prefetta,
con l’appoggio del sindaco Dario Nardella, ha messo in pratica il cosiddetto
“Daspo urbano” previsto dalla legge Minniti e così Firenze avrà una zona rossa
a macchia di leopardo. L’ordinanza promette insomma di scacciare e mandare
altrove -verso le periferie, probabilmente- varie categorie di indesiderati, a
protezione dei cittadini “perbene” e degli affari legati all’asfissiante
turismo fiorentino. Le zone rosse prolungano dunque l’interminabile
stagione dei sindaci-sceriffo e confermano la scelta di governare con la paura.
Il messaggio è forte e chiaro. Anche stavolta c’è chi solleva forti dubbi di
costituzionalità, ma intanto prosegue la notte delle nostre democrazie.
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