(tratto dal sito di Nena News )
La
negoziatrice e accademica palestinese Hanan Ashrawi ha
fatto sapere ieri che l’è stato negato un visto di viaggio per entrare negli
Usa a causa delle sue dure critiche all’amministrazione statunitense di Donald
Trump e Israele. In una serie di Tweet pubblicati ieri, Ashrawi ha anche accusato Washington di non averle fornito una
ragione ufficiale per il mancato ottenimento del visto. Tuttavia, la
diplomatica ha le idee chiare: la decisione americana, ha affermato, deriva
dalla sua “zero tolleranza nei confronti dell’occupazione israeliana e a tutte
le sue manifestazioni di oppressione, spoliazione e negazione”. “Questa
amministrazione [americana] – ha aggiunto – ha deciso che non merito di mettere
piede negli Usa. Spero che qualcuno lo spiegherà ai miei nipoti e al resto
della mia famiglia che vivono lì”.
Raggiunto
dalla Reuters, un ufficiale del Dipartimento di Stato
americano non ha commentato direttamente il caso Ashrawi, ma si è limitato a
dire che negli Stati Uniti i visti d’ingresso non sono rifiutati in base alle
considerazioni politiche di chi ne fa richiesta fintanto che, ha
però sottolineato, le dichiarazioni politiche o i
punti di vista politici espressi sono “considerati legali”. La
domanda a questo punto nasce spontanea: perché allora viene negato a Ashrawi di
entrare negli Usa? Nell’America di Trump è ancora “legale” criticare Israele e
la Casa Bianca e rivendicare i diritti dei palestinesi? Da questo caso,
sembrerebbe proprio di no.
Pur nella sua gravità, il visto negato ad una figura
così nota del mondo politico palestinese non è una decisione
sorprendente. Da quando è
stato eletto presidente, la politica di The Donald in
Medio Oriente si è dimostrata sfacciatamente filo-israeliana.
Nell’ordine ha tagliato i fondi all’Unrwa (Agenzia dell’Onu per i rifugiati
palestinesi), ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme in barba al
diritto internazionale riconoscendo così la Città Santa come capitale
d’Israele, ha ritirato il sostegno all’Autorità Palestinese e ha riconosciuto
il Golan siriano occupato da Tel Aviv nel 1967 come “parte d’Israele”.
L’ulteriore conferma del sostegno incondizionato americano verso Israele (un
vero e proprio spot per il premier israeliano Netanyahu) dovrebbe avvenire a
breve quando l’Amministrazione Trump rivelerà il suo “accordo del secolo”. Il
piano, progettato dal genero del presidente Jared Kushner, di fatto segnerà la
fine dei sogni palestinesi ad avere un loro stato indipendente e in grado di
autosostenersi (come prevede il diritto internazionale).
Contro i tentativi smaccatamente filo-israeliani degli
americani, il mondo politico palestinese ha duramente protestato. Tra le voci più critiche è
emersa in questi mesi proprio quella di Ashrawi che domenica aveva attaccato su
Twitter Jason Greenblatt, inviato di Trump in Medio Oriente e uno degli
architetti del “piano di pace” per Israele e Palestina. Greenblatt, ha
cinguettato la diplomatica, è “un autoproclamato sostenitore/apologeta
d’Israele”. Proprio l’inviato Usa aveva detto lo scorso febbraio che Ashrawi “è
sempre benvenuta alla Casa Bianca”. Parole che sanno ora di beffa.
Quanto denunciato ieri dall’alta diplomatica
palestinese fai il paio con il recente ingresso negato a Omar Barghuthi,
l’attivista palestinese per i diritti umani nonché fondatore del movimento per
il Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni (Bds) contro Israele. Lo scorso 10 aprile, infatti,
Barghuthi si è visto rifiutare l’ingresso negli Usa nonostante avesse documenti
di viaggio validi. All’aeroporto di Tel Aviv all’attivista fu detto
semplicemente che non avrebbe più viaggiato in America dove avrebbe dovuto partecipare
ad un incontro a Washington fissato per il giorno seguente. Barghouti parlò di
“decisione motivata politicamente e ideologicamente”. Washington non rispose
allora alle sue accuse.
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