giovedì 31 luglio 2025

L’Europa abbandona Big Tech? - Antonio Piemontese

 

 

Per conformarsi a un ordine esecutivo del presidente americano Donald Trump, nei mesi scorsi Microsoft ha sospeso l’account email di Karim Khan, procuratore della Corte penale internazionale che stava investigando su Israele per crimini di guerra. Per anni, scrive il New York Times, Microsoft ha fornito servizi email al tribunale con sede a L’Aja, riconosciuto da 125 paesi tra cui l’Italia (ma non da Stati Uniti, Israele, Cina, Russia e altri). 

All’improvviso, il colosso di Redmond ha staccato la spina al magistrato per via dell’ordine esecutivo firmato da Trump che impedisce alle aziende americane di fornirgli servizi: secondo il successore di Biden, le azioni della Corte contro Netanyahu “costituiscono una inusuale e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”.  Così, di punto in bianco, il procuratore non ha più potuto comunicare con i colleghi. 

C’è stata una mediazione, ricostruisce il New York Times: dopo una riunione tra Redmond e i vertici della Corte si è deciso che la Cpi avrebbe potuto continuare a utilizzare i servizi di Microsoft. Anche perché l’azienda, secondo la ricostruzione del quotidiano, sarebbe stata fondamentale per la cybersecurity dell’organizzazione, finita nel mirino degli hacker russi dopo l’inchiesta per i crimini di guerra in Ucraina. 

Il discorso, però, non vale per Khan, il cui account resta bloccato: cittadini e aziende statunitensi rischiano conseguenze serie – multe e persino l’arresto – se forniscono “supporto finanziario, materiale e tecnologico” a chi viene identificato come pericoloso per la sicurezza nazionale (spesso sulla base di ragionamenti dal sapore politico). Insomma, in una paradossale inversione di ruoli, il procuratore è diventato un criminale, trattato alla stregua di un nemico pubblico. 

Le conseguenze non si sono fatte attendere. Tre dipendenti con contezza della situazione hanno rivelato al quotidiano newyorchese che alcuni membri dello staff della Corte si sarebbero rivolti all’azienda svizzera Protonmail per poter continuare a lavorare in sicurezza. Il giornale non chiarisce il perché della decisione, né se tra essi vi sia lo stesso Khan. Una conferma al riguardo arriva dall’agenzia Associated Press. Protonmail, contattata da Guerre di Rete, non ha commentato, spiegando di non rivelare informazioni personali sui clienti per questioni di privacy e di sicurezza.


Uno choc per le cancellerie

Quello che conta è che la situazione ha scioccato le cancellerie europee: quasi tutte – e  il quasi è un mero ossequio al dubbio giornalistico – impiegano software, servizi e infrastrutture statunitensi per le proprie normali attività. Ma nel clima pesante di questi mesi sono saltate le classiche e paludate convenzioni della diplomazia: Trump negozia nelle cancellerie come farebbe con i colleghi palazzinari, senza andare troppo per il sottile. Non è possibile, non lo è per nessuno, prevedere la prossima mossa. Il punto è che correre ai ripari non è semplice: sia perché  uscire dalla “gabbia” creata dalle aziende, il cosiddetto “vendor lock in”, richiede tempo, formazione, strategia; sia perché esistono contratti in essere e la questione può diventare spinosa dal punto di vista giuridico. Ma anche perché – ed è una questione centrale – al momento le alternative, quando esistono, sono poco visibili.

La situazione è seria. Per dare un’idea, l’Irish Council for Civil Liberties ha rivelato che il parlamento europeo ha un contratto di fornitura di servizi cloud con Amazon. L’accordo imporrebbe di utilizzare solo modelli linguistici di grandi dimensioni “ospitati” su Amazon Web Services. Somo, ong olandese che si occupa da cinquant’anni di monitorare l’attività delle multinazionali, ha rivelato in un recente rapporto gli accordi capestro che le società di intelligenza artificiale hanno dovuto sottoscrivere con Big Tech per sostenere i costi di sviluppo dell’AI (comprese società europee come Mistral e Aleph Alpha).  E tutte le aziende di riferimento, da Microsoft ad Amazon a Oracle a Google a Intel, sono statunitensi e possono quindi potenzialmente ricadere tra i destinatari degli ordini esecutivi di Trump. 


La difesa di Microsoft

Per riguadagnare fiducia e mercato – i clienti governativi spostano cifre importanti anche per una Big Tech – nei mesi scorsi Microsoft ha cercato di rassicurare i propri utenti europei. 

Il presidente Brad Smith a fine aprile ha schierato l’azienda a fianco di Bruxelles: “Oggi ci impegniamo solennemente”, ha detto in una conferenza del think tank Atlantic Council. “Se in futuro un qualsiasi governo, in qualsiasi parte del mondo, dovesse emettere un ordine che intenda obbligare Microsoft a sospendere o cessare le operazioni e l’assistenza per l’Europa, faremo ricorso al tribunale. Percorreremo ogni via legale per opporci a un simile ordine”. Non solo: se le cause fossero, alla fine, perse, “i nostri partner europei avrebbero accesso al nostro codice sorgente di cui conserviamo una copia in un repository sicuro in Svizzera, paese neutrale per antonomasia. 


Chi sta già lasciando le Big Tech

Ma c’è qualcuno che, nonostante tutto, sta già lasciando le Big Tech?

Due città danesi (Copenhagen e Aarhus) starebbero abbandonando Microsoft per il timore di finire tra le braccia di un monopolista. Il parlamento olandese, dal canto proprio, nelle scorse settimane ha approvato alcune mozioni per spingere il governo a non fare più affidamento sulla tecnologia cloud statunitense. Il timore è il cosiddetto vendor lock in, cioè la politica commerciale alla base della creazione degli ecosistemi in stile Apple: tutto griffato, tutto dello stesso brand, o dentro o fuori. Chi usa un certo elaboratore di testi avrà, così, la strada spianata se sceglierà di impiegare anche il foglio di calcolo e l’applicazione di videoconferenze della stessa società; andrà, invece, incontro a parecchie (e strategicamente posizionate) difficoltà nel caso dovesse decidere di avvalersi dei servizi di un’azienda concorrente. Ricordate i tempi in cui cambiare operatore di cellulare richiedeva di accollarsi il rischio di restare settimane senza telefono? Funziona esattamente allo stesso modo: uscire non è facile, perché l’obiettivo è proprio complicare la vita a chi decide di farlo. 

Ma in questo caso la posta in gioco è molto più alta, perché non parliamo di singoli, per quanto importanti come i giudici di una corte internazionale, ma di intere amministrazioni. Lo US CLOUD Act firmato da Trump nel corso del primo mandato consente alle forze dell’ordine di imporre alle società tech di fornire accesso ai dati custoditi nella “nuvola” per investigare crimini particolarmente gravi: difficile mettersi al riparo. 

Dall’altra parte, a un esame anche basilare di cybersecurity molti politici sarebbero bocciati: un’indagine della Corte dei conti olandese ha scoperto che molti ministri del governo hanno usato cloud di Google, Microsoft, Amazon senza essere consapevoli dei rischi potenziali. E non c’è ragione per pensare che altrove vada meglio. Italia compresa. 

 

Qualcosa sta cambiando?

Guerre di rete ha chiesto ad alcuni soggetti direttamente coinvolti se la copertura mediatica degli ultimi anni abbia alzato il livello di consapevolezza del pubblico e delle aziende sul tema. 

“Negli ultimi dieci anni aziende e consumatori hanno cominciato a cambiare”, afferma al telefono Alexander Sander, policy consultant della Free software foundation. “Il problema è sbarazzarsi del vendor lock in, che significa essere ostaggio dell’ecosistema del fornitore: oggi è difficile passare da un prodotto all’altro, tutto funziona bene e facilmente solo se si utilizzano servizi di una sola azienda. Lo si è visto chiaramente nel periodo pandemico, quando la gente cercava disperatamente servizi di videoconferenza e tendeva a scegliere quelli dell’azienda con cui già lavorava: oggi vale anche per l’intelligenza artificiale, che devi pagare anche se non ti interessa, non ne hai bisogno o semplicemente preferisci usare quella di un’altra società”. Questo, prosegue l’esperto, “significa che alla fine costruisci una relazione con un solo marchio: migrare è complicato e costoso. Non solo: molti dei servizi commercializzati in Europa, lo vediamo, non rispettano le norme continentali dal punto di vista della privacy e della cybersecurity: il Patriot Act non rispecchia le nostre normative, e quindi – nel caso di un’azienda Usa che vende servizi in Europa – i servizi segreti possono avere accesso ai file”. 

Sander suggerisce di usare software open source, “il cui codice sorgente è pubblico e in cui si possono anche cercare eventuali backdoor: se le individui puoi sistemarle tu stesso, o incaricare qualcun altro di fare le modifiche del caso. Con il software delle grandi multinazionali del tech, invece, devi scrivere all’azienda, che a propria volta ti risponderà se può o meno mettere mano al codice”. E, come visto, oltre alle decisioni di business conta anche il clima politico. 

C’è un altro tema, rimarca Sander: “Un conto è negoziare con un paese come l’Italia o la Spagna, un conto è quando al tavolo si siede una piccola azienda”. In questo caso le tutele sono rasenti lo zero.  C’è un’azienda che fa peggio delle altre, chiediamo, in termini di rispetto dei diritti digitali? “In realtà, credo sia più un problema di modello di business. Dobbiamo crearci delle alternative. E penso che Stati e governi dovrebbero avere un ruolo nello stimolare i mercati in questo senso. L’Europa si è mossa bene con il Digital markets act: qui non ci mancano tanto le idee, quanto l’implementazione. E poi bisogna educare cittadini e consumatori a comprendere come funzionano certi modelli di business”. 

Qualche passo in avanti si comincia a vedere: in Francia c’è il progetto La Suite numerique, che offre una serie completa di servizi digitali sotto la bandiera del governo di Parigi. In Germania c’è Open Desk di ZenDis, il Centro per la sovranità digitale di Berlino fondato nel 2022 come società a responsabilità limitata di proprietà del governo federale. Anche qui, c’è tutto il necessario per una pubblica amministrazione. La strada, però, è ancora lunga.


La versione di Protonmail

E poi ci sono i privati. Protonmail (lo abbiamo già incontrato poco sopra) è un servizio email sicuro nato nel 2014 da scienziati che si sono incontrati al Cern di Ginevra. “Lo abbiamo creato per fornire una risposta alla crescente domanda di sicurezza e privacy nella posta elettronica, e anche perché ci siamo resi conto che internet non stava più lavorando nell’interesse degli utenti”, dice a Guerre di Rete Anant Vijay Singh, head of product della società elvetica. “L’email non rappresenta solo uno strumento di comunicazione importante, ma anche la nostra identità online. Noi assicuriamo all’utente di avere il pieno controllo sui  propri dati: li criptiamo, per cui nemmeno noi possiamo analizzare, monetizzare o accedere a informazioni personali. È così che siamo diventati attraenti per chi è stanco di società che sfruttano i dati personali per farci soldi, spesso senza il consenso degli utenti”.  Singh afferma che l’azienda si basa solo sugli abbonamenti: il servizio di base è gratuito, gli upgrade a pagamento. “Il maggiore azionista è la Proton Foundation, che è una non profit, il che significa che quando pensiamo a un prodotto mettiamo davanti le persone, e non i soldi. E questo in definitiva porta a un’esperienza utente migliore”. 

Il manager conferma che qualcosa si muove. “Negli anni scorsi abbiamo visto che la gente ha cominciato a rifiutare il capitalismo della sorveglianza e a cercare alternative più sicure e rispettose della privacy: nel 2023 abbiamo superato i 100 milioni di account, e questa tendenza ha accelerato negli ultimi mesi su entrambe le sponde dell’Atlantico”. 

Proton, assicura Singh, opera sotto la legge svizzera, “che sulla privacy è tra le più stringenti al mondo. Ma le normative cambiano, e se non bastassero c’è sempre la matematica [cioè la crittografia, ndr] a difendere gli utenti”. “Inoltre tutti i nostri prodotti sono open source e sottoposti a regolari verifiche sulla sicurezza da terze parti indipendenti”. I dati sono conservati in Svizzera, ma alcune porzioni, prosegue, anche in Germania e Norvegia. Singh non nasconde che la Rete ha tradito le aspettative dei creatori. “Per anni i giganti del web l’hanno plasmata sulla base dei propri interessi e la natura centralizzata di molti servizi ha esacerbato i problemi: grandi società controllano enormi quantità di dati. Anche la sorveglianza governativa ha giocato un ruolo nell’erodere la fiducia: le rivelazioni sui programmi di sorveglianza di massa hanno mostrato quanto sia grande il potere degli esecutivi nel monitorare le attività online”. Ma la gente “è sempre più consapevole che alternative esistono, e vuole acquistare ‘europeo’, perché conscia della eccessiva dipendenza da servizi americani”. 

 

L’alternativa elvetica a WeTransfer

C’è un altro servizio, sempre basato in Svizzera, che sta spopolando da qualche tempo e tra i clienti vanta molti grossi nomi corporate. Si chiama Swiss Transfer ed è l’alternativa al notissimo WeTransfer, nato olandese e recentemente comprato dall’italiana Bending Spoons. Infomaniak è la società madre. “Abbiamo creato Swiss Transfer innanzitutto per testare su larga scala la nostra infrastruttura basata su OpenStack Swift”, dice a Guerre di Rete Thomas Jacobsen, a capo della comunicazione e del marketing. “Offrire un servizio free e utile al pubblico è  un modo per dimostrare l’affidabilità e la robustezza delle nostre soluzioni. Ma, al di là dell’aspetto tecnico, è anche un modo per aumentare la consapevolezza di cosa sia Infomaniak senza fare affidamento sui tradizionali canali promozionali, come Facebook, Instagram, Google e Linkedin, che richiedono grossi budget per acquisire visibilità. Abbiamo preferito creare un tool che parla da sé, rispetta la privacy, non traccia e offre un valore quotidiano all’utente. E funziona. Milioni di persone usano Swiss Transfer, spesso senza sapere che dietro ci siamo noi. Direi, anzi, che è ironico: in alcuni paesi il brand è più conosciuto della società che ci sta dietro. Ma lo consideriamo un successo”. 

Le informazioni, spiega Jacobsen, sono custodite in data center proprietari in Svizzera, protetti dalla legge elvetica. “E dal momento che lavoriamo con l’Europa, ci conformiamo al Gdpr”. 

Il modello di business è particolare. “Infomaniak è una società svizzera indipendente, posseduta dai propri stessi dipendenti: oggi gli azionisti sono circa trenta. Questa autonomia assicura indipendenza, e il rispetto dei nostri valori: protezione della privacy, sostenibilità ambientale e supporto per l’economia locale. Tutto è prodotto e sviluppato in Svizzera: i nostri team sono qui, sia quello di sviluppo che il customer care, il che ci dà il controllo totale su tutta la catena del valore, senza intermediari. Significa trasparenza, massima reattività e alta confidenzialità dei dati del cliente, che non verranno mai usati per altri fini se non quello di fornire i servizi richiesti”.  

Chiediamo: ma siete davvero sicuri di essere in grado di sostituire i prodotti delle grandi multinazionali? “Sì. È sbagliato pensare che solo le Big Tech possano soddisfare le esigenze di grandi organizzazioni: lavoriamo già con oltre tremila media company tra cui radio e televisioni, ma anche banche centrali, università, governi locali e anche infrastrutture critiche”.

Jacobsen sa che uno dei colli di bottiglia è la paura delle difficoltà nella migrazione, e parla di supporto personalizzato 24/7 . “La nostra filosofia è semplice: ci guadagnamo da vivere solo con i nostri clienti, non con i loro dati. Non li vendiamo e i servizi gratuiti sono interamente finanziati da quelli a pagamento: può sembrare strano, ma paghiamo tutti i nostri stipendi in Svizzera, e nonostante ciò  spesso riusciamo a offrire prezzi più competitivi. E funziona da trent’anni”. I dipendenti sono trecento, in crescita: “Ma siamo per la biodiversità digitale: il mondo ha bisogno di alternative locali dovunque”. Jacobsen va oltre: “I dati sono le materie prime dell’intelligenza artificiale e un asset strategico, ma l’Europa continua a spendere milioni di euro di soldi pubblici in soluzioni proprietarie come quelle di Microsoft, Amazon o Google senza reali benefici locali [sul tema lavora anche la campagna Public money, public code, ndr]. Queste piattaforme portano i profitti in America, creano posti di lavoro lì e aumentano la nostra dipendenza. Ma c’è di più: Big Tech investe un sacco di soldi per portare via i nostri migliori ingegneri e ricercatori, spesso formati con denaro pubblico. Per esempio, Meta ha recentemente assunto tre ricercatori dell’ufficio di Zurigo di OpenAI con offerte che a quanto pare hanno raggiunto i cento milioni di dollari. Nel frattempo, quando si presenta una necessità tecnologica negli Stati Uniti, il governo federale non esita ad aprire linee di credito eccezionali per supportare i player locali con contratti da miliardi di dollari, come nel caso di Palantir, OpenAI o cloud provider come Oracle. E l’Europa? Che sta facendo? Firma contratti con società straniere, anche se esistono alternative forti vicino a casa: noi in Svizzera, ma anche Scaleway  e OvhCloud in Francia, Aruba in Italia o Hetzner in Germania”. 

Se davvero conquisteremo la biodiversità digitale, lo scopriremo nei prossimi anni. Certo, per cambiare rotta, ci vuole coraggio. E, come dice ancora Sanders, tempo. “C’è un movimento verso il software libero più o meno in tutti i paesi. Dieci anni fa era molto più difficile. Oggi governi e amministrazioni stanno cercando di cambiare passo dopo passo per uscire da questo vendor lock in, e non solo per i pc desktop: si stanno rendendo conto che si tratta anche delle infrastrutture, come i server.Il processo  non è immediato, un’amministrazione non dice all’improvviso: voglio passare al software libero. Ma piuttosto, quando si pone la necessità di acquistare un servizio, comincia a considerare le alternative”. Del resto, se ci sono voluti trent’anni per arrivare fin qui, è difficile immaginare che si possa invertire la rotta dall’oggi al domani.

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Lo sguardo del leone - Maaza Mengiste

prima del gran bel libro che è Il re ombra, Maaza Mengiste aveva scritto un grande e dolente romanzo ambientato ad Addis Abeba.

protagonista è una famiglia (all'interno della Storia dell'Etiopia), quando viene deposto Hailè Selassiè e inizia una dittatura (comunista) sanguinosa e terribile, nessuno sarà al riparo dalla violenza.

il padre, medico in ospedale, viene incarcerato per aver fatto il suo lavoro in maniera integerrima, un figlio entra nella Resistenza e in clandestinità.

il romanzo è avvincente e quando arriva la fine non ti sei annoiato neanche un momento.

cercalo e leggilo, saranno ore ben spese.




 

Una condizione che smaschera la natura umana in tutta la sua criticità e vulnerabilità. E infatti, è una storia senza eroi. Per quanto alcune figure vi si avvicinino, come quella di Dawit, non c’è in realtà nessun assolto. Ogni figura, compresa quella dell’imperatore spodestato, è intrinsecamente vera proprio nel suo essere contraddittoria e sfaccettata. 

Come tutti i grandi romanzi che trattano di un momento storico segnato dalla violenza, Sotto lo sguardo del leone è disturbante perché apre uno scenario sulle conseguenze totalizzanti di un certo tipo di potere e ricorda quanto l’esistenza sia connessa in modo intrinseco alla Storia, talvolta momentaneamente accantonata, che incombe sulla testa di ognuno come una spada di Damocle, pronta a spazzare via tutto.

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…La narrazione di Maaza Mengiste non chiede clemenza a nessuno, neanche alla scrittura. Il suo stile asciutto, distante dalla retorica, attento a non superare la soglia del facilmente impressionabile, pone l'accento sulla storia, solo sulla storia, senza discussioni. Il ruolo della violenza imprescindibile dall'accadimento degli eventi narrati, la tortura inflitta ai corpi increduli, l'abbandono dei cadaveri per le strade, l'escalation delle violenze l'indomani di un attentato, è spaventosamente calibrato e tangibile. E il leone è una costante, lasciando trasparire che lo sguardo del leone è forse lo sguardo di chi tenta di rialzarsi dopo un duro attacco, dopo le scariche elettriche, i pugni, i calci e le infamie, ma nonostante questo non cede.

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Un medico di ospedale, la sua famiglia e i vicini di quartiere nella morsa degli anni tremendi tra il '74 e il '77 che videro la caduta di Hailè Selassiè e l'istallarsi della dittatura di Menghistu, e poi il primo costituirsi della resistenza al “Colonnello”.

Sono questi gli ingredienti di un avvincente romanzo, scritto in un linguaggio crudo e diretto che non risparmia nessuno. Ogni personaggio è frugato in tutte le sue sfaccettature, donando al lettore pagine di emozioni ed ansie come solo  i buoni scrittori sanno dare.

Ma la crudezza di certe scene, relative a pestaggi, torture, massacri individuali e di massa si unisce al poetico uso dei sogni, delle fantasie e dei deliri dei personaggi sotto la pressione di situazioni particolari.

A partire dal simbolo del leone che ritorna costante in molti punti della storia. È il Leone di Giuda della bandiera a cui pensa nella prigionia l'ottantenne imperatore, ormai impotente, a cui si stringe il cuore nel sentire il ruggito del suo leone preferito in gabbia e solo come lui. Travolto da un destino che sente più grande di lui, sente e vede solo gli angeli che lo salveranno da una situazione per lui dolorosamente intollerabile:la fine di una dinastia, discendente dal re Salomone, con più di tremila anni di storia, affossata da militari zotici e incolti, che non ne riconoscono più la sacralità…

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Lo sguardo del leone dell’etiope Maaza Mengiste racconta una storia incastrata ineluttabilmente nella Storia: una vicenda ambientata nella bellissima e sfortunata Addis Abeba, una città – e una nazione – uscita da una occupazione coloniale e che nel 1974 è incendiata dalle proteste che intendono portare alla rimozione del dittatore Hailé Selassié. E come è mille molte accaduto nel continente africano durante la Guerra Fredda, le cronache ricordano il più classico “dalla padella alla brace”: in Etiopia si instaura un regime comunista guidato dal Derg, una sorta di consiglio rivoluzionario che darà una delle migliori prove di tragicità unita a mancanza del senso del ridicolo degli ultimi cent’anni. 

Lo sguardo del leone racconta di Hailu, medico che lavora presso l’ospedale pubblico di Addis Abeba, della moglie Sara (personaggio pazzesco!) e dei loro figli: il primo professore universitario e il secondo studente ribelle affascinato dai rivoluzionari. Nel raccontare la saga della famiglia la Mengiste ci racconta la Storia del suo paese: il secondogenito sconvolto dalla piega che hanno preso i suoi ideali rivoluzionari (e che quindi passa nuovamente all’opposizione), il medico che riceve in ospedale una donna torturata dal regime in quella che sarà la scena cardine e decisiva del romanzo (a cui non accenno minimamente ma che mi ha costretto ad un groppo alla gola che levati).

Oppressi che diventano oppressori, uomini miti che scoprono un coraggio inimmaginabile, un’altra vita che è sempre possibile: Lo sguardo del Leone avvince, commuove, fa riflettere.

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Sotto lo sguardo del leone si apre con un’intollerabile violenza, mostrando il sangue di un giovane ragazzo nel punto dove è stato colpito da un proiettile. Alla violenza viene associata la passione della rivoluzione e la potenza della lotta per i valori di parità e giustizia. È la violenza che accompagna i cambiamenti, considerati da alcuni personaggi inevitabili dato il governo corrotto e autoritario precedente. Ma la violenza penetra nella rivoluzione e continua anche dopo la deposizione dell’imperatore Hailé Selassié, il 12 settembre 1974. La si può percepire nella crudeltà del maggiore Guddu che divide il mondo in buoni e cattivi e considera tutti i membri della famiglia reale come traditori, spingendo Mickey, amico e quasi fratello di Dawit, a compiere il suo dovere: ucciderli tutti senza pietà senza processo. Per chi credeva nella rivoluzione, questo esito è deludente e sconvolgente. Il futuro del Derg comunista inizia come una dittatura più spietata del governo dell’imperatore Hailé Selassié, insinuando il dubbio che non sempre si cambia per migliorare. Tuttavia, il canto di resistenza e coraggio posto al termine del romanzo dona la speranza in una forza di lottare che non si è spezzata.

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mercoledì 30 luglio 2025

Le elites europee governanti hanno svenduto l’Europa alle multinazionali statunitensi. Chiediamo il ritiro della firma dall’accordo sui dazi! - Paolo Ferrero

 

L’accordo siglato tra Unione Europea e USA sui dazi è un disastro e costituisce un punto di passaggio periodizzante. Ci ricorderemo a lungo del campo da golf scozzese come del teatro di un atto di sottomissione che cambia la storia dell’Europa.

Riassumendo brevemente le merci europee pagheranno per entrare negli USA dazi dal 15% al 50%. Viceversa le merci USA non pagheranno praticamente nulla: scenderanno sotto allo 0,9%. In aggiunta l’Unione Europa si impegna a comprare in tre anni (entro la fine del mandato di Trump) dagli USA 750 miliardi di dollari di gas (ad un prezzo di 5 volte superiore a quello che veniva pagato alla Russia), centinaia di miliardi di armamenti ed a fare 600 miliardi di investimenti negli USA.

Non sappiamo ancora cosa prevede l’intesa nel dettaglio ed in particolare in merito agli “ostacoli non tariffari al commercio”. Gli USA hanno infatti sempre chiesto una modifica radicale dei regolamenti europei che aprisse il mercato europeo agli USA sul terreno bancario, assicurativo, dell’esportazione di carne (estrogeni, etc), di prodotti agricoli (OGM etc.), del riconoscimento dei farmaci (senza applicare il principio di precauzione) e così via.

Conosciamo quindi le linee generali di un disastro su più piani.

In primo luogo sul piano simbolico: la trattativa si è tenuta in un campo da golf scozzese di proprietà di Trump e l’accordo è stato firmato nella sala da ballo che il proprietario – Donald Trump – ha intitolato a se stesso. Questo quadretto, di cui tutto il mondo sta ridendo, esprime in forma plastica la completa e servile subordinazione della UE agli USA, dice chi comanda e chi ubbidisce scodinzolando.

In secondo luogo per la sua arbitrarietà che nuovamente parla della subordinazione europea: La narrazione che ha preceduto la trattativa ha descritto i rapporti economici tra gli USA e l’Unione Europea come completamente squilibrati, in cui l’Europa inonda di merci gli USA che si debbono difendere.

Si tratta di colossale mistificazione: Nei rapporti tra USA e UE infatti gli USA hanno un disavanzo di 213 miliardi per quanto riguarda le merci ma hanno un avanzo di 156 miliardi per quanto riguarda i servizi e di 52 miliardi per quanto riguarda i capitali.

In pratica una situazione che vede un disavanzo economico-finanziario reale tra USA e UE è di 5 (cinque) miliardi, è stata presentata come un enorme squilibrio e questa narrazione tossica è stata accettata dall’Unione Europea.

Che cosa succede invece per i servizi (Google, Microsoft, Amazon,etc etc.) in cui sono gli USA che invadono la UE? Nulla, nel senso che questi erano sostanzialmente detassati e tali rimangono: le grandi aziende tecnologiche statunitensi hanno nell’Europa – attraverso la porta irlandese – un gigantesco paradiso fiscale in cui non pagano le tasse, altro che i dazi!

In una situazione di equilibrio negli scambi economici l’Unione Europea ha quindi accettato di mettere i dazi sulle proprie esportazioni di merci mentre tutte le esportazioni di merci e servizi degli USA sono esentasse, come ovviamente è esentasse il flusso di capitali dall’Europa agli USA.

In terzo luogo per l’effetto distruttivo dell’apparato produttivo: i dazi e gli acquisti obbligati di gas determineranno un peggioramento netto della competitività delle imprese europee non solo rispetto alle imprese USA ma rispetto a quelle di tutto il mondo. Questo accordo infatti seppellisce qualsiasi possibilità di riaprire l’acquisto di gas a basso costo dalla Russia – e da altri paesi – obbligandoci a comprarlo dagli USA ad un prezzo esorbitante. Dopo decenni di attacchi al movimento operaio italiano ed europeo per ridurre il costo del lavoro, qui si accetta di peggiorare strutturalmente la competitività dell’industria europea, di impedire la crescita di aziende di servizi europei e probabilmente di mettere in discussione la tenuta delle strutture bancarie ed assicurative europee. Difficile trovare le parole per descrivere questo livello di sudditanza.

In quarto luogo non ci vuole un mago per capire che l’accettazione dei dazi porterà con se la richiesta di tagliare ulteriormente i salari al fine di mantenere la competitività internazionale e nel contempo di foraggiare le aziende colpite dai dazi con sovvenzioni statali, cioè con i soldi derivanti dalla tasse della classe lavoratrice e dei pensionati (che sono gli unici che pagano le tasse). Questo accordo sarà cioè lo scusa per un ulteriore attacco al salario diretto e indiretto della classe lavoratrice.

In quinto luogo porterà alla distruzione del welfare e alla sua sostituzione con un sistema assicurativo privato gestito dai fondi statunitensi. Non sfugge a nessuno il rapporto tra l’accordo sui dazi e la decisione della NATO di portare le spese militari europee al 5% del PIL in dieci anni. In una situazione in cui l’economia reale peggiora e in cui i salari reali sono destinati a diminuire, la scelta di porre in essere un piano di riarmo enorme – per l’Italia 6,4 miliardi di aumento della spesa militare ogni anno per i prossimi dieci anni – significa necessariamente tagliare la spesa sociale di un ammontare corrispondente. Quindi è il sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, delle autonomie locali che verrà distrutto da questa scelta che – oltre al danno la beffa – non produrrà nemmeno un aumento di posti di lavoro in Europa perché la gran parte delle armi verranno prodotte negli USA (magari da aziende europee che delocalizzeranno).

In sesto luogo questo accordo segue di pochi giorni il pieno fallimento del vertice tra UE e Cina. In questo modo la dirigenza UE, avendo rotto le relazioni con la Russia e la Cina – e quindi con il grosso dei BRICS – in un mondo che vede la crisi verticale della globalizzazione, si è consegnata mani e piedi ad avere come unico mercato di sbocco per i propri prodotti quello statunitense. Il combinato disposto tra l’esito del vertice con la Cina e l’accordo sui dazi determina quindi una dipendenza sistemica dell’Europa dagli USA come non si era mai visto.

L’Unione Europea è diventata una colonia

L’accordo sui dazi è quindi destinato ad essere il punto di passaggio che sancisce la fine di una fase dell’Unione Europa e la sua consacrazione a colonia statunitense sul piano strutturale, non solo politico. L’accordo infatti non ha un carattere sovrastrutturale ma interviene a modificare i rapporti di forza tra gli apparati produttivi di merci e servizi ed a accentuare all’inverosimile elementi di dipendenza sistemica.

Questo accordo è stato fatto in nome della stabilità per rendere irreversibile il rapporto di dipendenza dell’Europa dagli USA. Questo dipendenza è vista dalle classi dominanti europee come l’unica via possibile per salvaguardare i propri interessi.

Questo accordo è stato fatto quindi per salvaguardare la posizione di privilegio subalterno da parte delle classi dominanti europee a scapito degli interessi dei popoli europei. E’ la genuflessione dei feudatari – di fronte all’imperatore e alla sua corte – che accettano di far morire di fame i propri sudditi pur di non perdere i propri privilegi e magari sostituiti.

Sono tutti responsabili

Questo disastro è così grande e sarà così visibile nei prossimi mesi, che tutti i governanti europei fanno a gara a criticare l’accordo per non assumersene la responsabilità.

Moltissimi membri dell’establishment europeo sostengono che la colpa è tutta della von der Leyen, che sta diventando il capro espiatorio della vicenda.

Ora, che la Presidente della commissione sia un personaggio squallido e immorale, venduta alle multinazionali e disposta a piegarsi al miglior offerente, è del tutto evidente. Il fatto che tutti critichino il risultato ma nessuno chieda di togliere la firma e di far saltare l’accordo però la dice lunga sulla malafede delle critiche.

L’accordo firmato dalla von der Leyen è in realtà il frutto delle politiche liberiste e di subalternità agli USA che la dirigenza dell’Unione europea sta seguendo da decenni e di cui sono stati protagonisti i Draghi, i Monti, i Macron le Meloni e così via. E’ con gli accordi di Maastricht ed in particolare con quelli di Lisbona, con il Fiscal compact e tutte le criminali scelte fatte da Draghi, dalla Merkel e soci nel 2012 che sono state poste le premesse per questo risultato. La scelta folle è stata di puntare tutto su un modello finanziarizzato che aveva al centro gli USA e su un modello produttivo finalizzato unicamente alla compressione dei costi e all’esportazione, scegliendo come unico mercato di sbocco di grande rilevanza gli USA. Questa scelta è stata fatta da decenni e la von der Leyen non è nulla più che la criminale esecutrice testamentaria di un disegno costruito negli anni dalle classi dominanti europee che sono state bravissime a distruggere il movimento operaio europeo ma hanno sacrificato a questa prospettiva il destino complessivo dell’Europa. Mai come oggi risulta evidente che gli interessi delle classi dominanti europee – occultati e infiocchettati dal complesso dei media europei e dai principali schieramenti politici – sono in contrasto radicale con gli interessi dei popoli europei.

Togliere la firma dall’accordo

Il nodo politico è quindi uno solo: l’accordo deve essere mantenuto o deve essere fatto saltare? E’ evidente che deve essere fatto saltare.

Tutte le critiche, anche le più dure se non chiedono di ritirare la firma e di azzerare l’accordo sono aria fritta, fumo negli occhi. Per evitare oltre al danno la beffa dobbiamo costruire una movimento di massa per chiedere le dimissioni della von der Leyen – e della Meloni – il ritiro della firma e la proclamazione della nullità dell’accordo.

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Oltre il diritto, contro l'ordine: Gaza è il volto della verità - Pasquale Liguori

Siamo alla carestia. Non è una metafora. È una condanna a morte pronunciata per fame. Dopo oltre venti mesi di bombardamenti incessanti, di intere città rase al suolo, di ospedali distrutti e campi profughi trasformati in fosse comuni, a Gaza non resta più nulla da annientare se non la carne viva dei sopravvissuti. Ed è quella che oggi si vuole distruggere: con l’assedio, con il calcolo lucido dello sterminio per denutrizione.

Chi ha un briciolo di lucidità morale non può non vedere che siamo di fronte allo stadio estremo della strategia genocida. La fame non è un effetto collaterale: è un’arma. Ed è stata concessa, favorita, accettata da tutte le potenze che in questi mesi hanno predicato la diplomazia, il negoziato, i riti giuridico-amministrativi. Gli stessi che per mesi hanno recitato l’inetta illusione dei “due popoli, due stati”, mentre uno dei due – privato dei propri territori e della possibilità di autodeterminazione - veniva sistematicamente fatto a pezzi con il pieno contributo delle capitali occidentali. La fame è oggi il volto più atroce della menzogna liberale.

Eppure, c'è chi ancora si appella al diritto, come se potesse redimere ciò che ha strutturalmente reso possibile. Chi ha dichiarato “condanniamo il 7 ottobre senza se e senza ma” ha inaugurato, molto spesso consapevolmente, il terreno morale su cui si è costruita la legittimazione del genocidio. Ha separato il gesto dalla sua storia, la resistenza dal contesto, la politica dall’orrore, applicando una sensibilità selettiva alle vittime: tanto assoluta e totalizzante per quel preciso giorno - sempre richiamato come formula imprescindibile a premessa di qualsiasi enunciato – quanto anestetizzata, resa tollerabile nei venti mesi successivi di genocidio dei palestinesi. È questa ipocrisia ad aver fornito carburante alla ferocia, al disumano. Condannare “senza se e senza ma” un atto di rivolta e poi restare muti, moderati, di fronte all’ecatombe sistemica quotidiana, è il crimine morale da cui tutto è partito.

E non è nemmeno più sufficiente denunciare quest’ipocrisia. Occorre disarticolarne la struttura, rifiutarne i presupposti. Il genocidio in corso a Gaza non è un’anomalia del sistema internazionale: ne è l’espressione più coerente. È il risultato di un ordine giuridico-politico fondato sul potere, sulla riproduzione dei rapporti di forza, non sull’universalità della giustizia.

Tutti coloro che oggi parlano di “giustizia futura”, di “tribunali internazionali”, di “una nuova Norimberga” - persino quelli animati da sincera indignazione - continuano a muoversi dentro la gabbia ideologica di un ordine che ha già fallito. È proprio tale ordine che ha reso possibile lo sterminio del popolo palestinese. È lo stesso diritto internazionale, agito con doppi e tripli standard, che ha permesso a Israele di godere da sempre dell’impunità strutturale, garantita nonostante crimini sistematici, documentati, reiterati. È questo sistema multilaterale che, con le sue assemblee, i suoi consigli, le sue commissioni, i suoi organismi indipendenti, le sue risoluzioni ignorate, ha coperto l’assedio, la colonizzazione, l’apartheid.

Non ci sarà nessuna giustizia futura, se continuiamo a concepirla nei termini di questo paradigma. In definitiva, non ci sarà nessuna Norimberga per Gaza, perché Gaza non è stata generata dalla rottura dell’ordine internazionale, ma dal suo funzionamento ordinario. Norimberga fu possibile perché, dopo la disfatta totale del nazismo, chi vinse volle legittimare un nuovo ordine mondiale. Oggi, invece, questa “nuova Norimberga” sarebbe presieduta da alleati, finanziatori, complici dell’accusato. Seduti sul banco dei giudici - o appostati alle loro spalle - troveremmo gli stessi che hanno reso materialmente possibile, e politicamente sostenibile, il genocidio. Gaza non è una falla della civiltà giuridica liberale, è la sua verità nuda, esibita al mondo.

È tempo di prendere atto che l’intero edificio della legalità liberale - con la sua retorica dei diritti, dei trattati, della propagandata imparzialità - è parte integrante della macchina di guerra occidentale. Un dispositivo che non garantisce protezione ai popoli aggrediti, ma solo legittimità agli aggressori. Che non previene i genocidi, ma li istituzionalizza. Che non condanna, ma dilaziona. Del resto, lo scriveva con lucidità lo stesso Walter Benjamin: non si può criticare il diritto senza smascherare la violenza che lo istituisce. E quella violenza, oggi, ha un nome preciso: Israele, insieme all’apparato globale che lo protegge e lo legittima.

La raccolta di firme, gli atti dimostrativi effimeri, le petizioni, i premi per la pace - spiace dirlo, ma occorre farlo - sono il vezzo di una società corrotta che ha trasformato il dissenso in performance e la solidarietà in happening. La nostra indignazione è stata neutralizzata da decenni di rituali “democratici” senza conseguenze. Non c’è nulla da firmare, nulla da attendere, nulla da commemorare. C’è solo da disobbedire.

Questa tragedia non appartiene a una futura storiografia: è la soglia davanti alla quale si misura la possibilità stessa della politica, oggi. O si è contro questo ordine globale, contro i suoi codici morali, giuridici ed economici, o si è suoi complici.

La lezione che ci arriva da Gaza non è solo una lezione di resistenza. È una chiamata all’insurrezione etica e intellettuale contro ogni forma di pacificazione retorica. È una verità che squarcia la menzogna fondativa dell’Occidente: l’idea che possa esser sufficiente un sistema di norme e tribunali per garantire la giustizia e che l’umanità possa convivere con il crimine se sufficientemente legalizzato, negoziato.

Dunque, Gaza non chiede solidarietà farlocca. Chiede verità. E verità, oggi, significa dire che l’unica posizione moralmente e politicamente legittima è il rovesciamento di questo ordine imperiale. Senza se. Senza ma.

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martedì 29 luglio 2025

La strategia dell'Unione europea spiegata da Pino e gli Anticorpi, anni fa




fra i modelli trumpiani, oltre a Jeffrey Epstein, poteva mancare Al Capone?

"Vogliono rimanere al 2%, penso sia terribile. E sai, stanno andando molto bene. L’economia va molto bene, e potrebbe essere spazzata via se succedesse qualcosa di brutto", ha riferito Trump durante una conferenza stampa a L'Aia. E poco dopo ha svelato in cosa consiste la sua minaccia: "Sapete, che faremo? Negozieremo con la Spagna un accordo commerciale, faremo pagare loro il doppio. E sono davvero serio al riguardo. Faremo in modo che la Spagna paghi". Il tycoon ha quindi aggiunto che gestirà il dossier in prima persona: "Negozierò direttamente con la Spagna. Lo farò io stesso. Pagheranno. Pagheranno di più in questo modo. Dovreste dire loro di tornare indietro e pagare. Sei un giornalista. Digli di tornare indietro", ha affermato rivolgendosi a un giornalista spagnolo.
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La lotta accademica per il diritto al ritorno - Ilan Pappé

Coloro di noi che hanno lavorato come storici professionisti su quella che Nur Masalha chiamava la “Politica della Negazione”, per decenni hanno denunciato che la negazione ha accompagnato l’attuale politica israeliana di espropriazione. I due, negazione ed espropriazione, ovviamente, sono interconnessiChi espropria è abbastanza potente da cancellare i propri crimini dalle proprie narrazioni ufficiali e da quelle altrui. Allo stesso modo, lo sviluppo e i cambiamenti nella storiografia dei rifugiati e nelle politiche contro di loro, in particolare la negazione del loro Diritto al Ritorno, vanno di pari passo.

La storiografia è diventata una parte importante della lotta contro la negazione del Diritto al Ritorno dei rifugiati. All’inizio degli anni ’60, esistevano già alcuni resoconti storici palestinesi su ciò che accadde realmente nel 1948, che avrebbero dovuto avere un impatto enorme sulla discussione sul destino dei rifugiati palestinesi. Questa prima storiografia indicava già la responsabilità esclusiva di Israele nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi. Tuttavia, la narrazione israeliana dominava il mondo accademico e i media occidentali, e la prospettiva palestinese era considerata “parziale” e inaffidabile.

La prima rappresentazione da parte dei palestinesi della massiccia espulsione avrebbe dovuto portare a un’insistenza internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati, non solo a causa della famosa Risoluzione ONU 194, dell’11 dicembre 1948, che ne richiedeva il ritorno, ma anche perché il nuovo insieme di valori, che plasmò quello che sarebbe diventato il Diritto Internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale, considerava tale diritto sacro. La chiara Natura Criminale della massiccia espulsione, ancor prima che fosse definita Pulizia Etnica, e il chiaro desiderio dei rifugiati di tornare non lasciavano dubbi sulla validità giuridica del Diritto al Ritorno.

Ma questo non si concretizzò. Ciononostante, i falliti tentativi di difendere questo diritto rivelarono l’importanza della ricerca storica per la continua lotta per il Diritto al Ritorno. In altre parole, non era sufficiente basarsi sulla Risoluzione ONU, era importante spiegare come i palestinesi fossero diventati profughi.

La prima volta che Israele prestò attenzione al legame tra la storia del 1948 e la possibile posizione internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati fu all’inizio degli anni ’60. Il motivo fu l’interesse piuttosto sorprendente e inaspettato del presidente J. F. Kennedy per la questione del Diritto al Ritorno. Kennedy stava per dare avvio a un nuovo interesse americano per l’attuazione del Diritto al Ritorno attraverso la delegazione statunitense alle Nazioni Unite, il che causò allarme in Israele, in particolare presso l’ufficio del primo ministro David Ben-Gurion. Ben-Gurion credeva che il governo statunitense sarebbe stato dissuaso dal prendere qualsiasi iniziativa se fosse stato a conoscenza della versione storica “corretta” delle modalità con cui i palestinesi erano diventati profughi.

A tal fine, Ben-Gurion si rivolse alle istituzioni orientaliste in Israele e offrì loro la documentazione, frutto di ricerche commissionate, volta a dimostrare che nel 1948 i rifugiati avevano lasciato volontariamente la Palestina. Un centro di ricerca dell’Università di Tel Aviv assegnò alla missione un giovane studioso, Ronni Gabay, ma le sue conclusioni delusero il primo ministro. Sulla base dei documenti a cui aveva accesso, concluse che la maggior parte dei rifugiati era stata espropriata principalmente con la forza. Deluso, Ben-Gurion chiese che un altro studioso esaminasse il materiale. Trovarono qualcuno che capiva cosa ci si aspettava da lui: ovvero che affermasse che, sulla base dei documenti, i rifugiati erano partiti volontariamente per ordine dei loro leader e dei Paesi arabi confinanti. Prima che l’iniziativa di Kennedy potesse concretizzarsi, tuttavia, fu sventata dal suo assassinio. Fino ad oggi, nessuno dei suoi successori ha perseguito questa politica. Negli anni ’60 e ’70, il Centro di Ricerca dell’OLP di Beirut, nelle sue varie sedi e pubblicazioni, e in seguito l’Istituto per gli studi sulla Palestina, continuarono a produrre ricerche e lavori che fornirono conoscenze e documentazione cruciali che dimostravano i tentativi fatti dalle Nazioni Unite di ribadire la responsabilità dell’organizzazione nella difesa del Diritto al Ritorno dei palestinesi, data la sua posizione sulla Palestina nel 1947.

Questo progresso nella comprensione storiografica delle origini del problema dei rifugiati palestinesi, e la consapevolezza che la politica di eliminazione è stata perpetuata sul campo da Israele da allora, portarono a quello che all’epoca sembrò un cambiamento molto significativo nella posizione e nell’impegno delle Nazioni Unite per il Diritto al Ritorno. Il risultato fu l’istituzione del Comitato per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (CEIRPP). Ricevette il mandato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 3376 il 10 novembre 1975. (Questo comitato diede avvio alla “Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese”, che si tiene ogni anno il 29 novembre).

Un altro organismo importante fu un’unità speciale per i diritti dei palestinesi, creata dall’Assemblea Generale nel 1977. Questa unità in particolare agì anche in veste accademica. Si concentrò sulla preparazione di studi e pubblicazioni relative al Diritto al Ritorno e divenne la “Divisione per i Diritti dei Palestinesi” nel 1979. Il suo lavoro, almeno nell’ambito delle Nazioni Unite, mantenne viva la questione dei rifugiati durante il secolo scorso. Ma l’ONU perse la sua indipendenza già all’inizio degli anni Novanta (quando, ad esempio, gli Stati Uniti riuscirono ad annullare, nel 1991, la famosa risoluzione del 1975 che equiparava il Sionismo al razzismo).

All’inizio degli anni Ottanta, personalità come Edward SaidIbrahim Abu Lughod e Walid Khalidi, tra gli altri, continuarono a produrre lavori accademici e solidi che fornirono le prove necessarie sulle circostanze che portarono alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi nel 1948.

Il loro lavoro fu accentuato da un nuovo fenomeno storiografico noto come “la nuova storia di Israele”. Un piccolo gruppo di storici israeliani professionisti, sfruttando la declassificazione del materiale d’archivio del 1948, suffragò, sulla base di questo patrimonio, le principali affermazioni dei palestinesi sulla nascita del problema dei rifugiati, ovvero che esso fosse il risultato di espulsioni di massa e del rifiuto di qualsiasi rimpatrio.

Molti studiosi palestinesi sono rimasti sgomenti, e a ragione, dal fatto che solo con la pubblicazione della revisione storiografica israeliana si sia manifestata la volontà di ascoltare una narrazione che contrastasse quella inventata da Israele. Tuttavia, quando le vittime di un crimine dichiarano di aver subito un torto, i tribunali non sono sempre inclini a crederci; solo quando i criminali ammettono il crimine il verdetto è chiaro. O, per dirla in altri termini, i palestinesi non avevano bisogno di prove di essere vittime di espulsione intenzionale, ma il mondo sì.

La storiografia della Nakba è diventata ancora più completa quando queste opere sono state integrate da un rinnovato e vigoroso interesse per la storia orale, soprattutto da parte di giovani studiosi palestinesi.

La ricomparsa negli anni ’90 del Modello Coloniale d’Insediamento, che gli studiosi palestinesi avevano già proposto a metà degli anni ’60, ha aggiunto un nuovo livello alla storiografia della Nakba e all’analisi delle motivazioni alla base dell’espropriazione dei palestinesi. Hanno lasciato intendere che ciò avrebbe dovuto avere un impatto sulla decisione politica riguardante il loro futuro.

La caratteristica più importante associata al Progetto Coloniale di Insediamento è la logica dell’eliminazione dei nativi. Ciò ha permesso alla ricerca di includere tutti i rifugiati, compresa l’élite che partì nel gennaio del 1948, desiderosa di rimanere fuori fino alla fine dei combattimenti, ma a cui non fu permesso di tornare, diventando così vittima della politica eliminatrice.

In altre parole, il lavoro accademico sui rifugiati, la loro storia e la realtà contemporanea è cresciuto sia in quantità che in qualità. Eppure, anche in senso inverso, politicamente la questione dei rifugiati è costantemente scivolata in secondo piano, persino nel discorso dell’Autorità Nazionale Palestinese, e sicuramente in ciò che restava dello sforzo diplomatico globale per “risolvere” il “conflitto”.

L’impegno che unisce il lavoro accademico all’attivismo per il Diritto al Ritorno deve proseguire, nonostante la sua incapacità finora di influenzare l’agenda politica dall’alto in Occidente. Ci sono due aree in cui questo sforzo congiunto può essere ampliato. Un primo obiettivo è quello di basarci sul ricco lavoro accademico che già possediamo e di trasmetterlo al grande pubblico attraverso filmteatromostre e altri media simili. Questi luoghi e piattaforme, fisici o virtuali, sono luoghi importanti per ricordare alle persone il Diritto al Ritorno e per immaginare come verrà attuato. Abbiamo già alcuni esempi eccellenti, ma ce ne vogliono di più nei mass media.

Il secondo obiettivo è quello di proseguire il lavoro accademico con una chiara motivazione morale, in modo che sia rilevante sia per analizzare criticamente l’assenza del Diritto al Ritorno dagli sforzi diplomatici finora compiuti, sia, soprattutto, per capire come possa essere attuato in futuro. Ciò richiede un mix di acume accademico e immaginazione. Abbiamo già ottimi esempi in questo senso: l’incredibile lavoro di Salman Abu Sitta sull’attuazione del Diritto al Ritorno; quello di ONG palestinesi locali come Udna, che ha realizzato modelli 3D di villaggi ricostruiti; e il lavoro di ONG israeliane come Zochrot, che ha avviato un progetto chiamato “Immaginare il Ritorno”. Ma abbiamo bisogno di più, anche se, comprensibilmente, gran parte delle nostre energie oggi è concentrata sul Genocidio a Gaza e sulla Pulizia Etnica in Cisgiordania.

Infine, se il Piano trumpiano sulla Pulizia Etnica dei palestinesi a Gaza dovesse continuare, o se dovesse continuare a essere ampiamente utilizzato dai politici israeliani, non dovrebbe essere semplicemente negato; sarebbe utile sottolineare che l’unica alternativa possibile che la popolazione di Gaza stessa dovrebbe considerare è se il 70% di loro, proveniente dalla Palestina del ’48, sarebbe disposto a tornare alle proprie case d’origine in quello che oggi è Israele. Questo ci ricorda quanto sia rilevante il Diritto al Ritorno per il futuro della Palestina e quanto lavoro ci sia ancora da fare per preparare un piano concreto su come attuarlo.

Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È autore del recente Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic (Lobbisti per il Sionismo su entrambi i Lati dell’Atlantico) di The Physical Cleansing of Palestine, The Modern Middle East (La Pulizia Etnica della Palestina, il Medio Oriente Moderno); Una storia della Palestina moderna: una terra, due popoli (Una Storia Della Palestina Moderna: Una Terra, Due Popoli) e Dieci miti su Israele (Dieci Miti su Israele). Pappé è descritto come uno dei “Nuovi storici” israeliani che, dal rilascio dei pertinenti documenti del governo britannico e israeliano all’inizio degli anni ’80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948.

Traduzione: La Zona Grigia

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lunedì 28 luglio 2025

Questa rapina è chiamata libertà - Carlo Rovelli

 

Nel corso della mia vita, ho visto la parola “libertà” subire una spettacolare traiettoria discendente. È passata da luminoso ideale universale, a ipocrita copertura della difesa di privilegi.

“Libertà” è stata la parola d’ordine della Rivoluzione Francese per liberarsi dal dominio dell’aristocrazia. Della Rivoluzione Americana per liberarsi dal dominio della corona inglese. Delle comunità religiose che volevano liberarsi dal potere corrotto delle gerarchie cattoliche. Delle polis greche che non volevano cadere nelle mani dell’impero persiano. Dei popoli che cercavano di liberarsi da secoli di feroce sfruttamento coloniale. È stata l’ideale della lotta contro fascismo e nazismo che avevano scatenato un’immensa aggressività distruttiva. Libertà è stata la parola magica che aleggiava sulla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sulla dichiarazione d’indipendenza, sulla Rivoluzione Russa e su quella Cinese. Era Galileo libero di difendere l’idea che la Terra gira. Era libertà dai dogmi, era l’idea che il pensiero non debba essere costretti in limiti. Gli esseri umani non debbano essere schiavi, non debbano essere in catene.

Libertà è stata la parola d’ordine della mia generazione, che rifiutava ipocrisie e imposizioni di un mondo dominato da minoranze, e voleva cercare la sua strada. Da ragazzo, percepivo attorno a me un mondo pieno di regole che volevano impormi modi di essere che mi sembravano ingiusti. Volevo essere libero. Libero di seguire i miei sogni, libero di essere me stesso. Libero di amare chi volevo e come volevo. Libero di viaggiare ovunque nel mondo. Libero dai condizionamenti sociali. Dall’autoritarismo della mia scuola. Dai diktat della mia famiglia. Libero di sognare. Libero di pensare con la mia testa. Libero di sperimentare con i miei amici modi nuovi di vivere insieme e di condividere il mondo. Era la più bella delle parole, libertà.

Che tristezza, mezzo secolo più tardi, vedere questa parola luminosa usata come bandiera dai privilegiati per giustificare il diritto di opprimere. Libertà di portare armi, libertà di arricchirsi sulle spalle degli altri. Libertà di fare affari che creano miseria o devastano il pianeta. Libertà di tenersi i propri soldi e non pagare le tasse. Libertà di dominare il mondo, iniziare guerre, sentirsi padroni del mondo. Libertà di mettere basi militari ovunque nel mondo.

Oggi la parola “libertà” svolge una funziona perversa. Serve da giustificazione ideologica per la rapacità: “noi siamo liberi, e quindi dobbiamo dominare quelli che non sono liberi come noi”. A questo si è ridotta, oggi, la parola libertà. Copertura ideologica per giustificare il predominio.

Dalla “Casa delle libertà” di Berlusconi in Italia, alla devozione religiosa degli Stati Uniti per questa parola, “libertà” è usata come una clava contro chiunque abbia a cuore il bene comune più dell’arbitrio dei singoli. Siano questi, stati, individui, multinazionali, o classi sociali. Gli Stati Uniti pretendono di essere liberi e quindi non dover sottostare al giudizio delle corti internazionali o alle raccomandazioni dell’Assemblea di tutti gli Stati del mondo. Le multinazionali prendono di essere libere da regole e limiti che la politica vorrebbe imporre per il bene di tutti. I super ricchi pretendono di essere liberi da tasse sulle loro fantasmagoriche ricchezze. Le classi abbienti pretendono di essere libere dalla tassazione progressiva o dalle tasse sul patrimonio che qualche decennio fa ridistribuivano il reddito. I paesi della Nato pretendono di essere liberi di bombardare la Serbia, devastare la Libia, invadere l’Iraq, invadere l’Afghanistan, usando come scusa che quei paesi “non sono liberi”.

E in cosa si riduce la libertà dei paesi che si considerano liberi? La “libertà di stampa” significa che i grandi gruppi di potere controllano le catene televisive, i grandi giornali, i social online, manipolano facilmente masse di lettori sostengono narrazioni che giustificano le scelte di dei poteri. La libertà di votare si riduce al fatto che siccome le elezioni non si vincono se non con ingenti quantità di denaro, il potere è nelle mani di pochi super ricchi, o delle grandi corporazioni che dispongono di queste somme. La libertà di votare e la libertà di stampa, che nell’Ottocento hanno rappresentato un potente strumento di liberazione dall’oppressione dei regimi antichi, oggi si sono ridotte a strumenti di manipolazione.

La libertà di parola nei paesi occidentali, come ha chiarito Herbert Marcuse sessant’anni fa, è diventata una strategia del potere: per depotenziare la critica, è più efficace lasciare parlare tutti, in una vasta cacofonia, e imporre punti di vista avendo in mano le narrazioni dei media e dei social, piuttosto che reprimere le voci del dissenso. Un magazine clandestino ciclostilato nella Russia Sovietica aveva un potere dirompente: nessuno poteva parlare e chi osava aveva una voce possente. Una rivista pacifista nell’Occidente liberale non ha alcun peso: tutti possono parlare; il potere non ha bisogno di opprimere voci dissenzienti, tanto ha il controllo delle narrazioni che dominano. Quando oggi nelle democrazie liberali assistiamo a grandi divergenze interne, come accade in questi ultimi anni, quello a cui stiamo assistendo è in gran parte solo uno scontro di potere interno in una plutocrazia poco compatta. Dietro a Johnson e Trump ci sono i potenti media di destra, e ora i social nelle mani di colossali poteri finanziari.

L’ipocrita religione occidentale della libertà si giustifica con il ridicolo l’argomento che “in Occidente su sta meglio, perché c’è la libertà”. Poche affermazioni sono altrettanto ipocrite. In Occidente si sta meglio perché l’Occidente è ricco; e l’Occidente è ricco perché ha raccolto l’eredità dello strapotere dell’Europa coloniale ottocentesca sul mondo intero. Uno strapotere che non è certo stata costruito sulla libertà. È stata costruito sulla soppressione della libertà dei popoli colonizzati, sulla razzie delle loro risorse, sulla riduzione in schiavitù di milioni di africani.

Questa rapina è chiamata libertà.

Ogni libertà è sempre libertà da qualcosa. Un prigioniero riacquista la libertà uscendo dalla prigionia, uno schiavo dalla schiavitù, un popolo oppresso liberandosi dai suoi oppressori, un giovane si libera dal peso di una famiglia opprimente. Un intellettuale si libera da un’idea errata. Quando libertà significa liberarsi da un’ingiustizia, da un’oppressione, da un dogma, dalla fame, dall’ignoranza, dai vincoli che impediscono di essere se stessi, dalle diseguaglianze, la libertà è il più bello degli ideali. Ma quando libertà significa, come significa oggi, sentirsi liberi di ignorare il bene comune, i bisogni degli altri, le sofferenze degli altri, sentirsi liberi di competere e vincere calpestando gli altri, allora la libertà è la più sporca delle parole. Oggi è a questo che serve la parola libertà: a ignorare il bene comune. Un giorno in cui guidavo in una città dove la gente è poco ligia al codice della strada, un’amica mi disse “ci sono persone che si sentono libere di passare quando il semaforo è rosso; considerano il semaforo il loro nemico perché limita la loro libertà. Che sceme, il semaforo è lì per aiutare tutti. È un amico, non un nemico.” Questa è la libertà dell’Occidente. La libertà di inquinare ci sta portando alla catastrofe ecologica. La libertà di armarsi alla catastrofe nucleare. Il libero mercato ci ha già portato disuguaglianze economiche mai viste nella storia. Le libertà politiche ci stanno portando al dominio mondiale dei super ricchi interessati solo a competere fra loro per diventare ancora più ricchi. La libertà di votare ci ha portato una classe politica che invece di occuparsi del bene pubblico si occupa solo di come farsi rieleggere fra qualche mese e non è capace di guardare al futuro lontano.

Per salvare il mondo dalle catastrofi che si avvicinano e da quelle presenti, dal riscaldamento climatico, dalla guerra nucleare sempre più vicina, dalle devastanti guerre in corso, dalla miseria in cui vive ancora gran parte dell’umanità, dalle pandemie che certo troveranno presto, dall’oppressione in cui sono ancora tanti popoli, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è più libertà per l’arroganza dei poteri che ci hanno portato a questo.

Abbiamo bisogno, al contrario, di riconoscere che il bene comune, il bene di tutti noi, deve essere più importante dell’arroganza dei singoli. Abbiamo bisogno di accordarci su regole condivise. Di lavorare insieme, non gli uni contro gli altri. Quando gli oppressi parlano di libertà, il mio cuore è con loro. Quando i ricchi e i potenti del mondo parlano di libertà, hanno tutto il mio disprezzo.

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La frattura - Gian Andrea Franchi

Quello di Gaza è un genocidio esibito, qualcosa che viene reso accettabile. Per questo il tempo che viviamo è il tempo di una frattura: non siamo in grado di immaginare il mondo nel quale i nostri figli e nipoti si dovranno addentrare. Di fronte all’orrore del genocidio ordinario e a questa frattura prevale per lo più l’indifferenza di tantissime persone. Come si fa a contrastarla? È questa forse la prima domanda che dobbiamo porci se vogliamo vivere


Il tempo storico che stiamo vivendo è caratterizzato da una frattura indelebile del percorso storico della vita umana. In termini così profondi, ciò avviene probabilmente per la prima volta nella storia.

Questa frattura riguarda prima di tutto la trasmissione fra le generazioni. Noi non conosciamo e non possiamo immaginare il mondo in cui i nostri figli e nipoti si dovranno addentrare: non è la selva dantesca ma un oscuro deserto, un mondo ignoto sia per gli umani che per le altre forme di vita e l’intero contesto ambientale. Ciò significa, umanamente, rischio di perdita del senso della vita nei suoi passaggi fondamentali: nascere, crescere e morire.

Oggi l’anziano, l’adulto, non può lasciare il suo messaggio di vita a chi verrà dopo di lui. Il senso, il valore umano della vita, riguarda ciò che, nel linguaggio corrente, chiamiamo “interiorità” o “intimità”. L’interiorità più profonda, però, nasce e si sviluppa nel lungo e complesso percorso che ogni essere umano deve affrontare: dal grembo materno al balzo nella fuoriuscita natale, alla lunga e complessa costruzione della soggettività – nelle sue emozioni, nel suo linguaggio, nelle sue capacità trasformative dell’ambiente – per il tramite costitutivo del riconoscimento dagli e degli altri: il tutto nel contesto del tramandamento storico della cultura di una società a sua volta parte di una più vasta storia.

In quanto “europei”, non siamo figli di una cultura la cui trasmissione storica generazionale è caratterizzata da fratture anche molto violente e dolorose, da crisi epocali, devastazioni e guerre, ma lungo un cammino generazionale che non si è mai completamente interrotto: dalla crisi dell’Impero romano attraversata con il filo tenace della cultura cristiana, che procedeva a contenere la crisi dei poteri politici ed economici; alla formazione e al percorso dell’Europa medioevale; fino all’avvento, fra XVI e XVIII secolo, dell’economia di mercato, ovvero del capitalismo, sviluppatosi a macchia in alcune regioni. Con il capitalismo è avvenuta però anche l’invasione del mondo, riconfigurato con estrema violenza in termini di potere economico-politico, nell’ombra velenosa del razzismo.

Oggi, nell’indifferenza di massa e anche con la tormentata consapevolezza di minoranze attive, siamo tutti coinvolti in uno scarto temporale che possiamo definire tragico: non abbiamo, infatti, emozioni e parole in grado di elaborarlo. In verità, lo scarto è stato preceduto e gradualmente preparato da una continua regressione sociale, da una lunga crisi culturale e politica cominciata verso gli anni Ottanta.

Quel che ormai risuona nel nome “Gaza” indica un salto storico unico, una frattura, nella trasmissione fra le generazioni: le ultime generazioni vivranno in un mondo che oggi non possiamo immaginare e rappresentarci. La percezione dello scarto temporale non vuole riferirsi solo al genocidio – giustamente chiamato da uno storico del sionismo “una passione europea”1 (e al cui proposito occorre ricordare, a poche ore di auto dal nostro confine orientale, nel territorio che conosce il cammino delle nuove migrazioni, un nome e una data: Srebreniça 11-22 luglio1995). Il concetto di scarto temporale vuol indicare che è la prima volta che un genocidio è esibito in pubblico come qualcosa di accettabile, di ordinario, anzi di opportuno e anche necessario (almeno fino all’attacco israeliano e statunitense all’Iran, servito anche a mettere in secondo piano ciò che cominciava a suscitare qualche tensione, in giro per il mondo). Il genocidio nel territorio di Gaza, inoltre, con la fondamentale, esibita approvazione e compartecipazione degli Usa, senza di cui Israele non avrebbe potuto agire, ha avuto il pieno appoggio e l’aiuto concreto dell’Unione europea (tranne il parziale dissenso spagnolo). Il comportamento dello Stato d’Israele, quindi, ha distrutto definitivamente in faccia al mondo ogni retorica di diritto internazionale, con ovvie ricadute sui livelli nazionali. Ciò costituisce l’affermazione concreta coram mundo che il valore umano supremo è il denaro, il valore di scambio, tutto il resto, a partire dal valore della vita umana e non umana, viene dopo.

Di certo il valore di scambio ha un rapporto particolare con la guerra, la quale sta diventando la più importante forma di mercato ed è sempre stata centrale, sin dalla Prima guerra mondiale, nello sviluppo tecnologico.

Il tempo che viviamo è anche quello dell’annullamento di fatto della già assai limitata cultura dei diritti umani. A partire dall’attuale governo del nostro paese, che partecipa attivamente al genocidio quotidiano a Gaza inviando armi e materiali per armamenti ad Israele. La faccia interna di questa scelta internazionale è la graduale continua costruzione di un governo autoritario di cui il recente cosiddetto “decreto sicurezza” è un passaggio significativo.

Ma l’aspetto più grave di questa dinamica culturale diffusa è la passività, l’indifferenza di vaste masse di cittadini. Come si fa a contrastarla? È questa forse la prima domanda che dobbiamo porci se vogliamo vivere e non sopravvivere soltanto…

Questa breve riflessione non è puramente individuale: nasce infatti nel contesto di un impegno collettivo a partire dalla piazza del Mondo di Trieste, in cui sventola ogni sera la bandiera palestinese. Questa piazza è diventata, nel corso ormai di cinque anni, un centro d’impegno sociale e politico per portare a tutti – a coloro che vengono, a coloro da cui noi andiamo – il concretissimo messaggio storico inciso nei corpi migranti, proveniente dal passato coloniale e lanciato verso un futuro che ci appare tragico. Cercando insieme anche di trovare le parole per dirlo.


1 Georges Bensoussan, Genocidio. Una passione europea, Marsilio 2009.

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