Povera Giorgia! Viva il vittimismo, malattia infantile del melonismo - Alessandro Robecchi
“Chiagni e fotti” è una vecchia massima, anche un po’ consunta e abusata, per dire che lamentarsi è sempre una buona copertura per il potere: non c’è azione, prepotenza, abuso che non sia giustificabile con una precedente ingiustizia subita, spesso immaginaria: una faccenda talmente nota e risaputa che si è installata da secoli nei proverbi e nella saggezza popolare. In tempi di trumpismo-melonismo, malattie infantili del vittimismo, la teoria è diventata pratica e metodo scientifico, come se un manuale ne suggerisse l’uso corretto per ogni situazione, le varianti e le sfumature tattiche. Il presidente americano ha costruito le sue fortune sul sapiente dosaggio del fare la vittima. Prima la vittoria mutilata (gli hanno rubato le elezioni, dice), poi la sindrome di accerchiamento costante: molto vittima e quindi molti nemici, e quindi al momento della salita (risalita) al potere, molte vendette e ritorsioni. La questione del free speech sembra un caso di scuola: per anni la destra mondiale ha berciato e frignato che “non si può dire più niente”, combattendo ogni forma di pulizia etica del linguaggio, il famoso politicamente corretto, finché, preso il potere, ha rivelato la sua concezione di free speech: censura per chi dissente, pressioni sui media, ricatti e minacce a chi non si adegua. C’è qualcosa di straordinariamente grottesco nel potente, armato di autorità e manganello, che ama farsi dire “poverino!”.
Giorgia
Meloni sa raffinare la pratica in modo quasi perfetto: il mondo ce l’ha con
lei, e questo dovrebbe far scattare una sorta di simpatia nei suoi confronti.
L’elenco è infinito, ogni cosa che succede nel mondo sembra architettata e
messa in campo per farle uno sgarbo, un atteggiamento che è diventato una
tecnica e poi un’ossessione, fino al grottesco. Fino a dire, per esempio, che
la missione della Gaza Sumud Flotilla (militanti e navi da 44 paesi del mondo)
fosse organizzata per dare fastidio a lei, proprio a lei, dall’Australia alla
Malesia. Anche meno, Giorgia: quando il vittimismo diventa mitomania, il ridicolo
è in agguato.
Così, basta
una scritta su un muro o uno slogan contrario, ed ecco scattare la Giorgia di
Pavlov: la odiano, e lei non se lo merita, e giù l’elenco infinito, dai
magistrati agli avversari politici, dai sindacati ai manifestanti, tutto intercambiabile,
tutto sullo stesso piano, tutto spostato dal terreno politico a quello
personale. Tutto già visibile e decrittabile senza sforzi fin dalla prima
esternazione pubblica in veste di Presidente del Consiglio, quando si descrisse
come povera e umile underdog nonostante avesse fatto il ministro all’età di
trent’anni. Naturalmente il vittimismo come pratica politica ha molti
vantaggi – ce lo insegnò benissimo Berlusconi buon’anima (“Povero Silvio!”) –
consente e giustifica una certa aggressività e al tempo stesso mette al riparo
dalle critiche, perché ogni opposizione sembrerà un complotto. In più, il
vittimismo compatta la tua parte, la discussione si sposta non sul fatto di cui
si dibatte, ma se e quanto chi sostiene una tesi sia mosso da aggressività nei
confronti di Giorgia, e oplà, dell’argomento non si parla più, e si parla
invece di chi che l’ha con lei. “Lu piagne è mezza partita”, dice un proverbio
marchigiano (ancora la saggezza popolare), cui si aggiunge il dna, che non
mente, dato che il vittimismo dei fascisti è un dato storico innegabile,
rintracciabile su qualunque libro di storia che però, naturalmente – e come ti
sbagli – sicuramente ce l’ha con lei.
Esserci - Enrico Campofreda
Un
pizzico di Storia, ottocentesca, non del Novecento, quando il nazionalismo
era anche un insieme d’ideali e non solo d’assatanato militarismo, sebbene si
servisse dei bersaglieri di Lamarmora, la Giorgia nazionale in queste ore deve
averla ripassata. Magari una ‘lectio Bignami’ fornita dal fido tuttofare
Fazzolari oppure da un erudito vero come il ministro Giuli. Ed ecco che vuole
esserci alle trattative del dopo conflitto di Gaza, come se fosse il conte
piemontese nella Parigi del 1856. Senza neppure aver spedito truppe. Al più, se
servirà, arriveranno in seguito. Vuole esserci Giorgia Meloni non per fare
l’Italia come Cavour, ma il “made in Italy” che oltre il parmigiano è
merce Fincantieri e Leonardo, le nostre punte di
lancia dell’economia nazionalista. E visti gli sventramenti dell’amico
Netanyahu, nel progetto di ricostruzione ne trarrebbe vantaggio l’impresa
edilizia e ingegneristica. Lo garantisce il “Piano Mattei”… Ormai diventato la
formula passepartout per ogni passetto intercontinentale della
premier che finora vanta precedenti su strategie di contenimento della
migrazione, verso l’Italia, ed energia. Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto,
Etiopia, Kenya, Mozambico, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo le nazioni
inizialmente coinvolte. Eppure, a inizio di quest’anno, queste sono le
considerazioni di Aspenia (rivista che s’occupa dei rapporti
fra Usa, Europa e le implicazioni internazionali): “Il Piano Mattei
presenta alcune debolezze, in particolare la mancanza di risorse economiche
adeguate ai progetti avviati o impostati. Attualmente, il governo italiano ha
messo a disposizione circa 5,5 miliardi di euro, tra crediti, operazioni a dono
e garanzie, di cui circa 3 miliardi dal Fondo Italiano per il clima e 2,5 miliardi
dei fondi della Cooperazione allo sviluppo. È evidente che uno
stanziamento di 5,5 miliardi di euro, distribuiti su sei settori di intervento
e su un minimo di nove Paesi pilota, non può ritenersi sufficiente per
affrontare in maniera efficace le ambiziose sfide che il il piano si propone”…
“I progetti stessi vengono citati in termini generici, senza fornire dettagli
concreti sull’entità delle risorse, sulla loro provenienza né sulle modalità di
erogazione. Tale vaghezza solleva dubbi sulla reale portata dell’impegno e
sulla capacità di tradurre le intenzioni dichiarate in azioni efficaci e
coordinate”.
Allora
cos’ha fatto Palazzo Chigi a inizio 2025? Seguendo la logica del “più
siamo, meglio stiamo”, magari appresa dal barcarolo della domenica durante
una gita al Lido di Ostia, ha imbarcato altri cinque Paesi (Angola,
Ghana, Mauritania, Senegal, Tanzania) appoggiando l’apertura sul Global
Gateway, lanciato nel 2021 dall’Unione Europea, per contrastare la
cinese Via della seta’. Per la cronaca Global s’interessa
di clima, energia, digitale, trasporti, salute, istruzione e ricerca rivolte al
mondo intero, non necessariamente al continente africano. Ancora dubbi nel
luglio scorso sulla programmazione sempre del “Piano Mattei”. Questo scrive la
testata InfoCooperazione: “Molte iniziative del “Piano
Mattei” risultano ancora in fase di definizione o avvio. La trasformazione di
queste in risultati tangibili per le comunità locali è il vero banco di prova
della sua efficacia. Inoltre nulla si dice rispetto agli strumenti di
misurazione dell’impatto che verranno utilizzati per valutare le iniziative…
Nessun progresso sul fronte della trasparenza. Dei progetti si sa poco o nulla
al di là dei titoli e dei comunicati stampa che invece proliferano. Non
esistono documenti di progetto, delibere e atti amministrativi che possano
informare gli stakeholders e l’opinione pubblica sulla destinazione dei fondi.
A due anni dall’avvio del Piano non esiste ancora un sito internet dedicato che
raccolga le innumerevole iniziative”. Ma la premier del fare finta,
poteva mancare all’ennesima vetrina predisposta in questi giorni dalla
cosiddetta Pace trumpiana per Gaza? La risposta è già nella cronaca. La Farnesina
sta disponendo la presenza dl Primo Ministro italiano alla firma dell’Accordo
previsto per lunedì prossimo al Cairo. Il nostro governo annuncia una possibile
entrata della Meloni nell’Ufficio per la ricostruzione predisposto da Tony
Blair “Se ci verrà chiesto un contributo, siamo pronti a stare in prima
linea” dice lei. E gongola, meditando interventi nelle infrastrutture e
magari, eccoli finalmente gli epigoni di Lamarmora, anche la presenza di
truppe. Cosa che ringalluzzisce il ministro Crosetto che mette in preallarme
Esercito e Aeronautica. Vedremo se sarà una scossa agli affari di chi fa già
affari col cemento (WeBuilt, che è sempre Impregilo, Pizzarotti,
Percassi, Fincantieri Infrastrutture ma ce ne sono altri). Bisognerà
anche vedere quale tangente, ops! dazio, prevederà di far pagare la coppia
Kushner-Trump che pilota il business.
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