martedì 21 ottobre 2025

Un tempo nuovo

Un tempo nuovo – Sull’Ottobre italiano - Marco Revelli

Ci sono giornate che spaccano il tempo. Lo dividono in due come uno spartiacque perché segnano l’irrompere di un tempo nuovo, qualcosa di impensabile fino a poco prima, d’invisibile, che d’improvviso emerge alla superficie e rivela un cambiamento di orizzonte nel modo di guardare le cose, e di sentire ciò che accade, e di percepire il nostro posto nel mondo. La giornata del 3 di ottobre – i due milioni nelle cento piazze – ma anche del 4 – un milione tondo tondo nelle strade di Roma – e pure del 22 settembre, la prima epifania di quel sommovimento -, sono di questo tipo: con i loro mutamenti tellurici nel costume, nella morale condivisa, nel comportamento finiscono per travolgere, a volerli interpretare per quello che sono, tutti i modi consolidati di considerare i fatti politici e sociali, rendendo inutili – o se si preferisce “obsolete” – le vecchie forme del discorso e dello stesso scontro politico.

Pensavamo di vivere in un Paese anestetizzato, dal senso morale atrofizzato e dalla coscienza civile disseccata, ognuno per sé e nessuno per tutti, convinti di aver già visto tutto e che nulla serva, e di colpo, una mattina di primo autunno, ci siamo trovati nel pieno di un’eruzione vulcanica, travolti da un’infinità di corpi, di voci, di canti e di suoni che parlavano da bocche di ogni età, e comunicavano tutti lo stresso sentimento, semplice, semplicissimo, direi “elementare” come sono appunto le cose che contano: che non se ne può più di assistere passivamente all’orrore che quotidianamente si consuma sotto i nostri occhi. Che se si vuole mantenere un barlume di rispetto di sé bisogna uscire dai propri anfratti privati e mettersi in marcia. Mescolarsi. Partecipare.

Per questo, per questa loro origine interiore e sotterranea, sommovimento degli strati profondi della coscienza collettiva, le mobilitazioni di quei giorni hanno avuto il carattere del novum. Del “mai ancora visto”. Dello “stato di eccezione”. Per la loro dimensione, certo, sconfinata nel senso letterale della parola, tale da forzare tutti i limiti spaziali delle città perché quella marea non riusciva a essere contenuta nelle piazze e nelle strade, per ampie che fossero, ma tendeva a straripare, disperdersi nella rete urbana, sulle tangenziali, nelle stazioni, negli aeroporti, ovunque un qualche “nodo” segnasse un’intersezione s’infilava come una marea che riempie ogni vuoto che si trova davanti. Ho sentito un commentatore di uno dei cortei milanesi dire al microfono della sua radio che “ci siamo auto-bloccati, perché c’è tanta gente che non si riesce a muoversi”. Ho visto ragazzini perdersi nel proprio stesso quartiere perché la massa liquida che gli stava intorno ne cambiava i punti di riferimento. Ho parlato con amici stremati che mi hanno raccontato di essere stati trasportati per ore da un flusso di persone senza percepire bene la direzione. Dunque, lo spazio urbano trasformato in massa umana.  Ma non solo per la quantità, l’estensione. Anche per la profondità, e l’intensità questa mobilitazione è incomparabile con le manifestazioni politiche (e anche sociali) a cui eravamo abituati. Porta in sé appunto il carattere di un “tempo nuovo” perché davvero quella moltitudine era irriducibile alle tradizionali appartenenze, ai contenitori organizzativi, alle molteplici leadership (peraltro estenuate). Rispondeva a un richiamo più interiore, una sorta di appello morale – pre-politico? post-politico? meta-politico? – che si era accumulato nel tempo, come una molla che si carica e che di colpo deve scattare.

La spontaneità è stata la chiave della mobilitazione. Quello che ha portato in piazza decine forse centinaia di migliaia di giovanissimi – la “generazione Gaza” è stata chiamata -, che neppure hanno l’età per votare, ma quella di pensare sì, e di condividere. E con loro tante e tanti, che magari non votano più. O che forse lo fanno ancora, ma stancamente, distrattamente, come cosa che li tocca poco, e che, chissà?, potrebbero anche distribuirsi trasversalmente, anche se non in misura uguale, lungo l’asse destra/sinistra… Tutti messi in movimento non da un appello di partito, o di organizzazione – lo sciopero indetto dalla CGIL e prima ancora dai Sindacati di base è stato tutt’al più l’innesco, ha fornito l’occasione per ritrovarsi, ma non ha costituito la sostanza dell’evento – bensì dal bisogno individuale e insieme collettivo di “esserci”, ognuno a modo suo, e tutti insieme. L’ha espresso bene, questo concetto, Francesca Fornario, quando ha scritto: “Grazie a chi ha tentato di rompere l’assedio, grazie a chi ha scioperato, grazie a chi ha bloccato le navi cariche di materiale per fabbricare esplosivi in partenza per Israele, grazie a chi ha digiunato, protestato, spiegato agli studenti, studiato, pregato, boicottato, vegliato, occupato, pianto…” E ha aggiunto: “C’è un prima e un dopo questo genocidio. C’è un solco che separerà per sempre non solo le vittime dai carnefici ma anche quelli che si saranno battuti con ogni mezzo da quelli che avranno fatto finta di niente o avranno negato, minimizzato, parlato d’altro, parlato troppo poco o troppo tardi. Un solco che separerà per sempre chi avrà fatto di tutto per far uscire le notizie e chi no; chi avrà fatto di tutto per fermare lo sterminio e chi avrà lasciato correre finendo per ritrovarsi dalla stessa parte dei complici”. Meglio non si poteva.

Questa la grandezza di quanto è accaduto sotto i nostri occhi. Poi c’è la miseria, anzi le miserie, di quanti pur avendo visto non hanno capito. O non hanno voluto capire. Giorgia Meloni in primis, con le sue trivialità sul “weekend lungo”, le paranoie vittimistiche sui “nemici del mio governo”, la miserabile richiesta dei “costi dello sciopero per Gaza”, ma insieme tutti quelli che come lei di fronte alle maree montanti si rifugiano dietro ai piccoli episodi di disordine, strepitano per  uno slogan inopportuno, o mettono in piedi infime fabbriche del fango per denigrare quei pochi “capitani coraggiosi” della Flottiglia che con il loro atto hanno riscattato il vuoto morale dei propri governanti. A cui possiamo aggiungere quanti, e sono tanti, di fronte all’enormità di ciò che hanno sotto gli occhi, si chiedono se gioverà o meno a Elly Schlein in vista delle prossime scadenze elettorali. O se servirà a Maurizio Landini per ricuperare un ruolo al proprio sindacato, messo all’angolo dalla scomposizione del mondo del lavoro degli ultimi decenni.

La risposta, spiace dirlo, è no. Quanto succede negli strati profondi della coscienza del Paese difficilmente si rifletterà sulla sua superficie. Sul piano della politica politicante. Tanto distanti sono le richieste etiche degli uni e le risposte pratiche degli altri (“gli Ideali e la rozza materia”, direbbe Norberto Bobbio). Ma detto questo, possiamo esser certi che nulla sarà più come prima, se quel risveglio che si è manifestato continuerà. Se quei giovani che fino a ieri avevamo creduto sonnambolici e muti continueranno a far crescere la propria volontà di una resa dei conti vera con chi gli sta rubando il futuro. In fondo non succede spesso nella storia un sommovimento di questo tipo, che cambia lo sguardo con cui milioni di persone guardano alla condizione del mondo e insieme a se stessi. È successo alla fine degli anni Sessanta, sotto la spinta dello scandalo della guerra del Viet-nam. È successo alla fine degli anni Novanta, col crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS. Succede oggi, di fronte allo “spettacolo dell’inumano” che si compie in Palestina e all’ignavia di tutti i poteri, alla dissoluzione dei principii elementari del diritto internazionale, alla logica della forza come unica misura del mondo. Se l’inedita “furia del dileguare” del sistema mediatico alimentato dalle tecnologie dell’istantaneità non eroderà sul nascere la spinta propulsiva di questo moto, e la rapida dissoluzione dei nostri sistemi politici non consegnerà al vuoto del nichilismo compiuto la domanda di cambiamento radicale che sale dal profondo; se, come  cantava Giorgio Gaber in un’altra era geologica, sapremo “trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi” – coraggio di pensare un’alterità fino a ieri impensabile -, allora davvero, nel punto più basso del pericolo, si potrà sperare che nasca ciò che salva.

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Il futuro arriva in barca - Alberto Poggio(*)

Qualche decina di barche a vela e qualche centinaio di persone, armati solo di coraggio, libertà e giustizia, stanno disvelando la connivenza dei cosiddetti “grandi” stati con la pulizia etnica che il Sionismo sta sistematicamente attuando in Palestina dal 1947 a oggi.

Anziché usare la loro ostentata potenza per fermare il genocidio che lo stato criminale e razzista di Israele sta perpetrando, i “grandi” stati tacciono e continuano ad alimentarne la macchina omicida e a giustificarne la narrazione tossica.


Complici e silenti i governi presuntamene democratici. La missione della Global Sumud Flottiglia squarcia il velo sull’apartheid e sull’illegalità praticate dall’ “unica democrazia in Medio Oriente”, menzogna ripetuta a pappagallo da pletore di utili idioti nella politica, nella cultura e nel giornalismo. Complici i governi apertamente neofascisti saliti al potere, i cui leader di cartone ora starnazzano come oche isteriche. La missione della flottiglia manda in frantumi tutte le loro chiacchiere nazionaliste sulla forza. Davanti alle minacce di uno stato criminale loro alleato girano i tacchi e si nascondono, codardi come solo i fascisti sanno essere.


Su quelle barche naviga il futuro che dobbiamo costruire insieme. E’ il futuro che abbiamo già intravisto, sistematicamente negato con la violenza. Avevano e hanno ragione i giovani che mesi fa occupavano le università del mondo. Denunciavano il genocidio e il potere, a tutti i livelli, lì ha ignorati, isolati e scacciati. Avevano e hanno ragione i giovani che da anni manifestano nelle strade del mondo. Chiedono un cambiamento della società e dell’economia per contrastare la crisi climatica e ambientale globale. Il potere fossile li ha prima blanditi, poi derisi e infine gli ha contrapposto sovranismi e autarchie neofasciste che stanno rullando tamburi di guerra in mezzo mondo. Avevano e hanno ragione i giovani che decenni fa manifestavano per la giustizia sociale ed economica nel mondo, forzando blocchi e zone rosse ai raduni dei “grandi” stati, come nel 2001 al G8 di Genova. Il potere turbocapitalista ha tentato di soffocarne le idee a suon di manganelli.


Per decenni abbiamo vissuto anestetizzati nella bolla fatata del cosiddetto “Occidente”. Ci siamo girati dall’altra parte mentre i nostri poteri politici, economici e militari depredavano il resto del mondo esportando ingiustizia. Oligarchie economiche, fossili e tecnologiche occidentali hanno iniquamente accumulato ricchezze enormi , a discapito dell’allargarsi della forbice delle diseguaglianze e dello sfondamento dei limiti planetari, che oggi hanno il terrore di perdere. Eccole quindi a spargere ovunque i germi dell’autoritarismo, scommettendo sul consenso imbelle degli occidentali.


Oggi questa bolla è scoppiata, la maschera del cosiddetto “capitalismo compassionevole” è caduta decretando la fine dell’era dei principi superiori e del “politicamente corretto”. Non ci sono più remore o schermi, le oligarchie mirano al dominio totale. L’orrore di Gaza è anche questo, un test di future pratiche criminali di ingegneria politica: chi è superfluo e d’intralcio per la dittatura del mercato deve semplicemente andarsene o sarà schiacciato nel silenzio di tutte e tutti. Questo è quello che dice la destra sionista all’unisono con il presidente pro-tempore degli Stati Uniti e con il coro muto dell’Europa, mentre annunciano la speculazione immobiliare fondata sugli scheletri di un massacro, travestita da accordo di pace. Questo è quello che dice il presidente pro-tempore degli Stati Uniti agli attoniti vertici militari, indicando loro gli oppositori politici e culturali come nemico interno a cui muovere guerra con ogni mezzo. Questo è quello che dice il Decreto ungherese che equipara l’antifascismo al terrorismo. Questo è quello che dice il Decreto Sicurezza italiano, arma di repressione di massa contro chi azzarda a opporsi.


In questo momento la Global Sumud Flottiglia ha già forzato il blocco illegale e sta per essere assaltata. I popoli e i giovani in lotta nel mondo ci indicano la strada. Una strada di scelte radicali e dal basso, l’opposto del falso riformismo di élite in cui ci siamo impantanati per decenni. Il momento del futuro è ora, costruirlo è compito di tutte e tutti.

(*) Alberto Poggio, ingegnere e ricercatore universitario. Per lavoro si occupa di valutazioni ambientali e pianificazione territoriale di impianti e infrastrutture industriali ed energetiche. È membro della Commissione Tecnica nominata dall’Unione Montana dei comuni della Valle di Susa per studiare l’evoluzione del progetto di Nuova Linea ferroviaria Torino-Lione.

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La nuova politica nascerà fuori dalla politica - Matteo Masi

C’è un errore ricorrente che molti commettono ad ogni giro di elezioni, soprattutto amministrative, in Italia. Errore commesso da chi ha a cuore la nascita di una nuova politica che vada a scardinare il maledetto bipolarismo in cui ormai siamo già ri-scivolati dopo il tradimento dei 5 stelle. L’errore è quello di guardare alle elezioni con una prospettiva tatticista, da “mestierante” politico (che non è un male di per se), come se la nascita di un ipotetico “terzo polo populista” si possa pensare in termini di tattica, di liste, di coalizioni e di percentuali elettorali. Ma se davvero vogliamo dare vita a qualcosa di nuovo, questa logica non basta — anzi, è proprio ciò che dobbiamo superare.

Oggi non esiste ancora un vero spazio politico alternativo: manca una base, un’area, un immaginario collettivo in cui competenze tecniche di organizzazione elettorale possano essere utili. Applicarle ora significherebbe solo adattarsi alle strutture esistenti, finendo inevitabilmente per assomigliare a ciò che si dice di voler superare.

Il punto è che il nuovo progetto — quello che molti chiamano, con un termine forse ancora provvisorio, “terzo polo” — non può nascere dentro le dinamiche della sinistra radicale o del riformismo tradizionale, né tantomeno guardando a destra. Non deve porsi il problema di allearsi con “chi c’è”, ma di costruire qualcosa che ancora non c’è. E questo implica, almeno all’inizio, una scelta netta: nessuna alleanza, nessuna scorciatoia elettorale. Come accadde ai primi 5 Stelle, la forza dovrà venire da un voto di opinione, da una fiducia riposta in un progetto autenticamente nuovo e riconoscibile.

Solo in un secondo momento, quando il movimento avrà radici solide e consenso reale, potrà eventualmente aprirsi a chi vorrà aderire come “socio di minoranza”, non come partner paritario. L’obiettivo non è entrare nel gioco politico esistente, ma riscriverne le regole.

Dalla politica alla cultura, e oltre

L’errore più profondo, però, non è solo tattico: è culturale. Chi ragiona ancora in termini puramente “politicisti” — come se bastasse aggiungere un tocco di populismo a un discorso già stanco — non ha compreso la portata del cambiamento necessario.

Il nuovo soggetto, se mai nascerà, dovrà partire da un ripensamento radicale che tocchi la cultura, l’antropologia, la spiritualità. Non basta un nuovo linguaggio politico: serve un nuovo modo di guardare l’uomo, la comunità, il senso stesso della convivenza. È un passaggio che alcuni, come il nostro direttore Nello Preterossi o Gabriele Guzzi sulle nostre pagine o con il suo movimento, indicano da tempo: occorre spostare l’asse dalla politica alla cultura e, ancora più in profondità, allo spirito.

Non si tratta di religione, ma di visione. Anche chi non condivide la prospettiva spirituale di Guzzi non può negarne il valore: la capacità di guardare le cose da un punto di vista altro, di introdurre nel discorso politico una dimensione simbolica, etica, interiore che oggi manca del tutto.

Il fallimento dei 5 Stelle è stato anche questo: aver intercettato una rabbia politica, ma non averla trasformata in un percorso culturale e umano. Hanno dato voce a un disagio reale, ma non l’hanno trascinato oltre la soglia del “vaffanculo”. Oggi quella spinta non si può più riattivare: serve qualcosa di più profondo, di più trasformativo.

Un progetto che nasce altrove

Per questo il nuovo soggetto politico — se vuole davvero essere tale — non può nascere nei vecchi circoli o nelle sigle della sinistra residuale o della destra (cosiddetta) sociale. Deve nascere altrove: tra chi oggi non fa politica, ma sente che qualcosa si è spezzato nel legame tra cittadini, istituzioni e significati.

Il compito non è “rimettere insieme una coalizione”, ma reimmaginare la comunità. Non è aggiungere un nuovo partito, ma rifondare la politica a partire da ciò che è fuori la politica stessa.

Solo a partire da questa rifondazione culturale e spirituale potrà esistere un terzo polo che non sia la fotocopia degli altri due, ma una vera alternativa. E, forse, la prima vera occasione di rigenerazione per l’Italia intera come nazione.

da qui


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