Un tempo nuovo – Sull’Ottobre italiano - Marco Revelli
Ci sono giornate che spaccano il tempo. Lo dividono in due come uno spartiacque perché segnano l’irrompere di un tempo nuovo, qualcosa di impensabile fino a poco prima, d’invisibile, che d’improvviso emerge alla superficie e rivela un cambiamento di orizzonte nel modo di guardare le cose, e di sentire ciò che accade, e di percepire il nostro posto nel mondo. La giornata del 3 di ottobre – i due milioni nelle cento piazze – ma anche del 4 – un milione tondo tondo nelle strade di Roma – e pure del 22 settembre, la prima epifania di quel sommovimento -, sono di questo tipo: con i loro mutamenti tellurici nel costume, nella morale condivisa, nel comportamento finiscono per travolgere, a volerli interpretare per quello che sono, tutti i modi consolidati di considerare i fatti politici e sociali, rendendo inutili – o se si preferisce “obsolete” – le vecchie forme del discorso e dello stesso scontro politico.
Pensavamo di
vivere in un Paese anestetizzato, dal senso morale atrofizzato e dalla
coscienza civile disseccata, ognuno per sé e nessuno per tutti, convinti di
aver già visto tutto e che nulla serva, e di colpo, una mattina di primo
autunno, ci siamo trovati nel pieno di un’eruzione vulcanica, travolti da
un’infinità di corpi, di voci, di canti e di suoni che parlavano da bocche di
ogni età, e comunicavano tutti lo stresso sentimento, semplice, semplicissimo,
direi “elementare” come sono appunto le cose che contano: che non se ne può più
di assistere passivamente all’orrore che quotidianamente si consuma sotto i nostri
occhi. Che se si vuole mantenere un barlume di rispetto di sé bisogna uscire
dai propri anfratti privati e mettersi in marcia. Mescolarsi. Partecipare.
Per questo,
per questa loro origine interiore e sotterranea, sommovimento degli strati
profondi della coscienza collettiva, le mobilitazioni di quei giorni hanno
avuto il carattere del novum. Del “mai ancora visto”. Dello “stato
di eccezione”. Per la loro dimensione, certo, sconfinata nel senso letterale
della parola, tale da forzare tutti i limiti spaziali delle città perché quella
marea non riusciva a essere contenuta nelle piazze e nelle strade, per ampie
che fossero, ma tendeva a straripare, disperdersi nella rete urbana, sulle
tangenziali, nelle stazioni, negli aeroporti, ovunque un qualche “nodo”
segnasse un’intersezione s’infilava come una marea che riempie ogni vuoto che
si trova davanti. Ho sentito un commentatore di uno dei cortei milanesi dire al
microfono della sua radio che “ci siamo auto-bloccati, perché c’è tanta gente
che non si riesce a muoversi”. Ho visto ragazzini perdersi nel proprio stesso
quartiere perché la massa liquida che gli stava intorno ne cambiava i punti di
riferimento. Ho parlato con amici stremati che mi hanno raccontato di essere
stati trasportati per ore da un flusso di persone senza percepire bene la
direzione. Dunque, lo spazio urbano trasformato in massa umana. Ma non
solo per la quantità, l’estensione. Anche per la profondità, e l’intensità
questa mobilitazione è incomparabile con le manifestazioni politiche (e anche
sociali) a cui eravamo abituati. Porta in sé appunto il carattere di un “tempo
nuovo” perché davvero quella moltitudine era irriducibile alle tradizionali
appartenenze, ai contenitori organizzativi, alle molteplici leadership
(peraltro estenuate). Rispondeva a un richiamo più interiore, una sorta di
appello morale – pre-politico? post-politico? meta-politico? – che si era
accumulato nel tempo, come una molla che si carica e che di colpo deve
scattare.
La
spontaneità è stata la chiave della mobilitazione. Quello che ha portato in
piazza decine forse centinaia di migliaia di giovanissimi – la “generazione
Gaza” è stata chiamata -, che neppure hanno l’età per votare, ma quella di
pensare sì, e di condividere. E con loro tante e tanti, che magari non votano più.
O che forse lo fanno ancora, ma stancamente, distrattamente, come cosa che li
tocca poco, e che, chissà?, potrebbero anche distribuirsi trasversalmente,
anche se non in misura uguale, lungo l’asse destra/sinistra… Tutti messi in
movimento non da un appello di partito, o di organizzazione – lo sciopero
indetto dalla CGIL e prima ancora dai Sindacati di base è stato tutt’al più
l’innesco, ha fornito l’occasione per ritrovarsi, ma non ha costituito la
sostanza dell’evento – bensì dal bisogno individuale e insieme collettivo di
“esserci”, ognuno a modo suo, e tutti insieme. L’ha espresso bene, questo
concetto, Francesca Fornario, quando ha scritto: “Grazie a chi ha tentato di
rompere l’assedio, grazie a chi ha scioperato, grazie a chi ha bloccato le navi
cariche di materiale per fabbricare esplosivi in partenza per Israele, grazie a
chi ha digiunato, protestato, spiegato agli studenti, studiato, pregato,
boicottato, vegliato, occupato, pianto…” E ha aggiunto: “C’è un prima e un dopo
questo genocidio. C’è un solco che separerà per sempre non solo le vittime dai
carnefici ma anche quelli che si saranno battuti con ogni mezzo da quelli che
avranno fatto finta di niente o avranno negato, minimizzato, parlato d’altro,
parlato troppo poco o troppo tardi. Un solco che separerà per sempre chi avrà
fatto di tutto per far uscire le notizie e chi no; chi avrà fatto di tutto per
fermare lo sterminio e chi avrà lasciato correre finendo per ritrovarsi dalla
stessa parte dei complici”. Meglio non si poteva.
Questa la grandezza di quanto è accaduto sotto i nostri occhi. Poi c’è la miseria, anzi le miserie, di quanti pur avendo visto non hanno capito. O non hanno voluto capire. Giorgia Meloni in primis, con le sue trivialità sul “weekend lungo”, le paranoie vittimistiche sui “nemici del mio governo”, la miserabile richiesta dei “costi dello sciopero per Gaza”, ma insieme tutti quelli che come lei di fronte alle maree montanti si rifugiano dietro ai piccoli episodi di disordine, strepitano per uno slogan inopportuno, o mettono in piedi infime fabbriche del fango per denigrare quei pochi “capitani coraggiosi” della Flottiglia che con il loro atto hanno riscattato il vuoto morale dei propri governanti. A cui possiamo aggiungere quanti, e sono tanti, di fronte all’enormità di ciò che hanno sotto gli occhi, si chiedono se gioverà o meno a Elly Schlein in vista delle prossime scadenze elettorali. O se servirà a Maurizio Landini per ricuperare un ruolo al proprio sindacato, messo all’angolo dalla scomposizione del mondo del lavoro degli ultimi decenni.
La risposta,
spiace dirlo, è no. Quanto succede negli strati profondi della coscienza del
Paese difficilmente si rifletterà sulla sua superficie. Sul piano della
politica politicante. Tanto distanti sono le richieste etiche degli uni e le
risposte pratiche degli altri (“gli Ideali e la rozza materia”, direbbe
Norberto Bobbio). Ma detto questo, possiamo esser certi che nulla sarà più come
prima, se quel risveglio che si è manifestato continuerà. Se quei giovani che
fino a ieri avevamo creduto sonnambolici e muti continueranno a far crescere la
propria volontà di una resa dei conti vera con chi gli sta rubando il futuro.
In fondo non succede spesso nella storia un sommovimento di questo tipo, che
cambia lo sguardo con cui milioni di persone guardano alla condizione del mondo
e insieme a se stessi. È successo alla fine degli anni Sessanta, sotto la
spinta dello scandalo della guerra del Viet-nam. È successo alla fine degli
anni Novanta, col crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS.
Succede oggi, di fronte allo “spettacolo dell’inumano” che si compie in
Palestina e all’ignavia di tutti i poteri, alla dissoluzione dei principii
elementari del diritto internazionale, alla logica della forza come unica
misura del mondo. Se l’inedita “furia del dileguare” del sistema mediatico
alimentato dalle tecnologie dell’istantaneità non eroderà sul nascere la spinta
propulsiva di questo moto, e la rapida dissoluzione dei nostri sistemi politici
non consegnerà al vuoto del nichilismo compiuto la domanda di cambiamento
radicale che sale dal profondo; se, come cantava Giorgio Gaber in
un’altra era geologica, sapremo “trasformare in coraggio la rabbia che è dentro
di noi” – coraggio di pensare un’alterità fino a ieri impensabile -, allora
davvero, nel punto più basso del pericolo, si potrà sperare che nasca ciò che
salva.
Il futuro arriva in barca - Alberto Poggio(*)
Qualche decina di barche a vela e qualche centinaio di persone, armati solo di
coraggio, libertà e giustizia, stanno disvelando la connivenza dei cosiddetti
“grandi” stati con la pulizia etnica che il Sionismo sta sistematicamente
attuando in Palestina dal 1947 a oggi.
Anziché usare la loro ostentata
potenza per fermare il genocidio che lo stato criminale e razzista di Israele
sta perpetrando, i “grandi” stati tacciono e continuano ad alimentarne la
macchina omicida e a giustificarne la narrazione tossica.
Complici e silenti i governi presuntamene democratici. La missione della Global
Sumud Flottiglia squarcia il velo sull’apartheid e sull’illegalità praticate
dall’ “unica democrazia in Medio Oriente”, menzogna ripetuta a pappagallo da
pletore di utili idioti nella politica, nella cultura e nel giornalismo.
Complici i governi apertamente neofascisti saliti al potere, i cui leader di
cartone ora starnazzano come oche isteriche. La missione della flottiglia manda
in frantumi tutte le loro chiacchiere nazionaliste sulla forza. Davanti alle
minacce di uno stato criminale loro alleato girano i tacchi e si nascondono,
codardi come solo i fascisti sanno essere.
Su quelle barche naviga il futuro che dobbiamo costruire insieme. E’ il futuro
che abbiamo già intravisto, sistematicamente negato con la violenza. Avevano e
hanno ragione i giovani che mesi fa occupavano le università del mondo.
Denunciavano il genocidio e il potere, a tutti i livelli, lì ha ignorati,
isolati e scacciati. Avevano e hanno ragione i giovani che da anni manifestano
nelle strade del mondo. Chiedono un cambiamento della società e dell’economia
per contrastare la crisi climatica e ambientale globale. Il potere fossile li
ha prima blanditi, poi derisi e infine gli ha contrapposto sovranismi e autarchie
neofasciste che stanno rullando tamburi di guerra in mezzo mondo. Avevano e
hanno ragione i giovani che decenni fa manifestavano per la giustizia sociale
ed economica nel mondo, forzando blocchi e zone rosse ai raduni dei “grandi”
stati, come nel 2001 al G8 di Genova. Il potere turbocapitalista ha tentato di
soffocarne le idee a suon di manganelli.
Per decenni abbiamo vissuto anestetizzati nella bolla fatata del cosiddetto
“Occidente”. Ci siamo girati dall’altra parte mentre i nostri poteri politici,
economici e militari depredavano il resto del mondo esportando ingiustizia.
Oligarchie economiche, fossili e tecnologiche occidentali hanno iniquamente
accumulato ricchezze enormi , a discapito dell’allargarsi della forbice delle
diseguaglianze e dello sfondamento dei limiti planetari, che oggi hanno il
terrore di perdere. Eccole quindi a spargere ovunque i germi
dell’autoritarismo, scommettendo sul consenso imbelle degli occidentali.
Oggi questa bolla è scoppiata, la maschera del cosiddetto “capitalismo compassionevole”
è caduta decretando la fine dell’era dei principi superiori e del
“politicamente corretto”. Non ci sono più remore o schermi, le oligarchie
mirano al dominio totale. L’orrore di Gaza è anche questo, un test di future
pratiche criminali di ingegneria politica: chi è superfluo e d’intralcio per la
dittatura del mercato deve semplicemente andarsene o sarà schiacciato nel
silenzio di tutte e tutti. Questo è quello che dice la destra sionista
all’unisono con il presidente pro-tempore degli Stati Uniti e con il coro muto
dell’Europa, mentre annunciano la speculazione immobiliare fondata sugli
scheletri di un massacro, travestita da accordo di pace. Questo è quello che
dice il presidente pro-tempore degli Stati Uniti agli attoniti vertici
militari, indicando loro gli oppositori politici e culturali come nemico
interno a cui muovere guerra con ogni mezzo. Questo è quello che dice il
Decreto ungherese che equipara l’antifascismo al terrorismo. Questo è quello
che dice il Decreto Sicurezza italiano, arma di repressione di massa contro chi
azzarda a opporsi.
In questo momento la Global Sumud Flottiglia ha già forzato il blocco illegale
e sta per essere assaltata. I popoli e i giovani in lotta nel mondo ci indicano
la strada. Una strada di scelte radicali e dal basso, l’opposto del falso
riformismo di élite in cui ci siamo impantanati per decenni. Il momento del
futuro è ora, costruirlo è compito di tutte e tutti.
(*) Alberto Poggio, ingegnere e
ricercatore universitario. Per lavoro si occupa di valutazioni ambientali e
pianificazione territoriale di impianti e infrastrutture industriali ed
energetiche. È membro della Commissione Tecnica nominata dall’Unione Montana
dei comuni della Valle di Susa per studiare l’evoluzione del progetto di Nuova
Linea ferroviaria Torino-Lione.
La nuova politica nascerà
fuori dalla politica - Matteo Masi
C’è un
errore ricorrente che molti commettono ad ogni giro di elezioni, soprattutto
amministrative, in Italia. Errore commesso da chi ha a cuore la nascita di una
nuova politica che vada a scardinare il maledetto bipolarismo in cui ormai
siamo già ri-scivolati dopo il tradimento dei 5 stelle. L’errore è quello di
guardare alle elezioni con una prospettiva tatticista, da “mestierante”
politico (che non è un male di per se), come se la nascita di un ipotetico
“terzo polo populista” si possa pensare in termini di tattica, di liste, di
coalizioni e di percentuali elettorali. Ma se davvero vogliamo dare vita a
qualcosa di nuovo, questa logica non basta — anzi, è proprio ciò che dobbiamo
superare.
Oggi non
esiste ancora un vero spazio politico alternativo: manca una base, un’area, un
immaginario collettivo in cui competenze tecniche di organizzazione elettorale
possano essere utili. Applicarle ora significherebbe solo adattarsi alle
strutture esistenti, finendo inevitabilmente per assomigliare a ciò che si dice
di voler superare.
Il punto è
che il nuovo progetto — quello che molti chiamano, con un termine forse ancora
provvisorio, “terzo polo” — non può nascere dentro le dinamiche della sinistra
radicale o del riformismo tradizionale, né tantomeno guardando a destra. Non
deve porsi il problema di allearsi con “chi c’è”, ma di costruire qualcosa che
ancora non c’è. E questo implica, almeno all’inizio, una scelta netta: nessuna
alleanza, nessuna scorciatoia elettorale. Come accadde ai primi 5 Stelle, la
forza dovrà venire da un voto di opinione, da una fiducia riposta in un
progetto autenticamente nuovo e riconoscibile.
Solo in un
secondo momento, quando il movimento avrà radici solide e consenso reale, potrà
eventualmente aprirsi a chi vorrà aderire come “socio di minoranza”, non come
partner paritario. L’obiettivo non è entrare nel gioco politico esistente, ma
riscriverne le regole.
Dalla
politica alla cultura, e oltre
L’errore più
profondo, però, non è solo tattico: è culturale. Chi ragiona ancora in termini
puramente “politicisti” — come se bastasse aggiungere un tocco di populismo a
un discorso già stanco — non ha compreso la portata del cambiamento necessario.
Il nuovo
soggetto, se mai nascerà, dovrà partire da un ripensamento radicale che tocchi
la cultura, l’antropologia, la spiritualità. Non basta un nuovo linguaggio
politico: serve un nuovo modo di guardare l’uomo, la comunità, il senso stesso
della convivenza. È un passaggio che alcuni, come il nostro direttore Nello Preterossi o Gabriele Guzzi sulle nostre pagine o con il suo movimento, indicano da tempo:
occorre spostare l’asse dalla politica alla cultura e, ancora più in
profondità, allo spirito.
Non si
tratta di religione, ma di visione. Anche chi non condivide la prospettiva
spirituale di Guzzi non può negarne il valore: la capacità di guardare le cose
da un punto di vista altro, di introdurre nel discorso politico una dimensione
simbolica, etica, interiore che oggi manca del tutto.
Il
fallimento dei 5 Stelle è stato anche questo: aver intercettato una rabbia
politica, ma non averla trasformata in un percorso culturale e umano. Hanno
dato voce a un disagio reale, ma non l’hanno trascinato oltre la soglia del
“vaffanculo”. Oggi quella spinta non si può più riattivare: serve qualcosa di
più profondo, di più trasformativo.
Un progetto
che nasce altrove
Per questo
il nuovo soggetto politico — se vuole davvero essere tale — non può nascere nei
vecchi circoli o nelle sigle della sinistra residuale o della destra
(cosiddetta) sociale. Deve nascere altrove: tra chi oggi non fa politica, ma
sente che qualcosa si è spezzato nel legame tra cittadini, istituzioni e
significati.
Il compito
non è “rimettere insieme una coalizione”, ma reimmaginare la comunità.
Non è aggiungere un nuovo partito, ma rifondare la politica a partire
da ciò che è fuori la politica stessa.
Solo a
partire da questa rifondazione culturale e spirituale potrà esistere un terzo
polo che non sia la fotocopia degli altri due, ma una vera alternativa. E,
forse, la prima vera occasione di rigenerazione per l’Italia intera come
nazione.
Nessun commento:
Posta un commento