Il 7 ottobre secondo mio padre - Karim Metref
Oggi è il 7 ottobre 2025.
Sono passati due anni da quel tristemente celebre 7 ottobre del 2023.
Dopo due anni di massacri a senso unico, ci sono ancora persone che pongono la
condanna di ciò che accadde in quel giorno come condizione imprescindibile per
qualsiasi discussione sulla situazione in Palestina.
Sentendo le
polemiche sterili — tra chi vuole festeggiarlo come fosse stata una grande
vittoria e chi invece lo condanna come il più grande crimine contro esseri
umani mai commesso su questa terra — torno, come spesso mi accade, alle parole
di mio padre.
Morire o scalciare?
Mio padre fu
un giovane militante del Fronte di Liberazione Nazionale durante la guerra
d’Algeria.
Un giorno, da bambino, mentre guardavamo in TV l’ennesima replica del
capolavoro La battaglia di Algeri, gli chiesi: “Papà, non ti
sembra brutto mettere bombe in caffè e locali dove ci sono solo civili?”...
La memoria
del pogrom del 7 ottobre seppellita sotto 70mila corpi - Marco Bascetta
Perfino i governi europei più vicini a Tel Aviv hanno
dovuto prendere qualche distanza. Il disegno egemonico ed espansivo israeliano
non ha più nulla a che fare con il 7 ottobre
Che fine ha fatto il 7 ottobre, la memoria di quel
sanguinoso pogrom che i miliziani di Gaza scatenarono due anni fa contro inermi
cittadini israeliani? La risposta più diretta e immediata è che è finito
sepolto sotto decine di migliaia di morti e una montagna di rovine.
All’indomani della strage del 7 ottobre Israele fu oggetto di una estesa
solidarietà. Tuttavia non mancarono in diversi paesi esponenti e militanti
della sinistra che accecati da fanatismo antisraeliano salutarono il massacro
come un atto di liberazione. Dall’altra parte anche il più timido accenno,
privo di ogni intento giustificatorio, al contesto di oppressione e sofferenza
in cui quell’attacco era maturato fu subito tacciato di antisemitismo
filoterrorista. Comprensibilmente, le modalità raccapriccianti dell’incursione
dei miliziani non lasciavano spazio a divagazioni storico-politiche.
Ma cosa è cambiato due anni dopo nell’opinione
pubblica mondiale e nei rapporti tra Israele e i suoi alleati? Quasi tutto.
Perfino i governi europei più vicini a Tel Aviv, hanno dovuto alla fine far
ricorso a un’espressione, che più ipocrita e viscida non poteva essere, come
«reazione sproporzionata», per nominare eufemisticamente il massacro di 70mila
persone e l’immane devastazione della striscia di Gaza da parte dell’Idf.
Insomma Netanyahu avrebbe semplicemente esagerato. Ma in questa «esagerazione»
c’è una logica. Vi è infatti qualcosa che il governo di Israele voleva ad ogni
costo seppellire attraverso un’azione smisuratamente devastatrice. Non certo la
memoria dei suoi morti e delle violenze subite, ma quella del suo fallimento,
del mito infranto di una intelligence infallibile e dell’esercito più
efficiente e tempestivo del mondo, garante di una protezione ermetica dei
cittadini israeliani. A questo scopo, per riscattare la classe dirigente e
ristabilire il prestigio del suprematismo militare israelita e degli inafferrabili
007 infiltrati per ogni dove, nonché restituire consistenza alle sue minacce,
lo stato ebraico ha deciso di colpire indiscriminatamente e ovunque, di radere
al suolo città, villaggi, quartieri e palazzi, non solo a Gaza e in
Cisgiordania, ma dalla Siria allo Yemen, dal Libano all’Iran al Qatar. Di porsi
al di fuori e al di sopra di ogni regola del diritto internazionale e di ogni
ragionevole moderazione.
La «dismisura» diveniva il cuore della politica
israeliana. Al servizio di un disegno egemonico ed espansivo che col 7 ottobre
e la sicurezza del paese non aveva da tempo più nulla a che fare.
Man mano che le operazioni militari si allargavano e
approfondivano, pure la loro narrazione cambiava di tono. Sparivano, anche
perché smentite dall’evidenza dei fatti, le celebrazioni delle qualità etiche e
democratiche dell’Idf, le finte inchieste sulle sopraffazioni e le violenze
gratuite da parte dei soldati israeliani, i bombardamenti chirurgici e
l’attenzione per l’incolumità dei civili, fino ad arrivare al tiro al bersaglio
sulle persone in attesa di cibo. L’esercito «più morale del mondo» lasciava
volutamente la scena a quello più spietato, vendicativo e indiscriminato
nell’uso della forza. Ogni palestinese un terrorista o un suo complice, ogni
edificio una «infrastruttura di Hamas».
Con questo sfacciato cambio di tono in gran parte
dell’Europa diveniva praticamente impossibile mettere a tacere il moltiplicarsi
delle denunce dei crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano,
reprimere le manifestazioni sempre più partecipate a favore della Palestina,
assimilare al terrorismo simboli e slogan, come avveniva durante il primo anno
di guerra, soprattutto in Italia e Germania. Anche l’accusa di antisemitismo,
rivolta in una prima fase contro ogni critica indirizzata all’azione politica e
militare di Israele, che aveva esercitato una certa deterrenza soprattutto a
sinistra, è stata talmente abusata, stravolta e strumentalizzata, da perdere di
forza e significato. Se si denuncia l’intera Onu, come covo di antisemiti, non
si può pretendere di essere presi sul serio. Nonostante si registri
effettivamente una ripresa di vecchi e nuovi sentimenti antisemiti in Europa
anche tra quelli che stigmatizzano la guerra di Netanyahu, però sulla base di
torbidi presupposti antiebraici.
Ma intanto l’immagine e la credibilità di Israele
hanno subito altri colpi micidiali: l’entusiastica condivisione della grottesca
idea trumpiana di trasformare Gaza, una volta sterminati e deportati i suoi
abitanti, in una riviera di lusso fonte di lucrosi affari immobiliari è già
apparsa abbastanza ripugnante.
Si aggiungono poi le ripetute esternazioni dei due
ministri dell’estrema destra nazionalista che tengono in piedi il governo di
Netanyahu e che nessuno stato anche solo formalmente democratico potrebbe mai
tollerare. Fino ad oggi i governi europei hanno cercato di ignorarle per non
essere obbligati a troncare i rapporti con un governo che annovera tra i suoi
ministri fautori della superiorità razziale ebraica e del diritto divino allo
sterminio dei nemici. Personaggi che non hanno nulla da invidiare ai tagliagole
dell’Isis o ai Talebani e che sfoggiano orgogliosamente la propria ferocia.
Di pari passo con le difficoltà dei governi europei
nel salvaguardare i rapporti politici e affaristici con questa Israele, cresce
in tutta Europa un imponente movimento di solidarietà con i palestinesi che
incrocia però anche diverse altre linee di conflitto: dall’erosione degli spazi
democratici al riarmo, dal nazionalismo xenofobo alle diseguaglianze e all’avanzata
dei nuovi fascismi. Per dimensioni e partecipazione questo grande movimento
filopalestinese ha un precedente: l’imponente ondata di manifestazioni e
proteste in tutta la Germania dopo il convegno dell’estrema destra a Potsdam
intento a pianificare la «remigrazione», ossia la deportazione di massa degli
stranieri. A ben vedere c’è più di una affinità tra questi due movimenti
europei nello spirito antifascista e antisuprematista in lotta contro
quell’idea di purezza, omogeneità sociale e proprietà etnica del suolo, che
accomuna gli Smotrich e i Ben Gvir ai neonazisti europei.
* Fonte/autore: Marco Bascetta, il manifesto
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