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Le cause della guerra
Da quando è
arrivato Trump la gestione della guerra è mutata. Le notizie si rincorrono in
un alternarsi di stop and go nella direzione, apparentemente, di una soluzione
del conflitto, di un armistizio o di un suo rilancio.
In realtà,
seguendo la cronaca giorno per giorno si percepisce un senso di smarrimento,
non si capisce bene effettivamente dove si stia andando. Lo smarrimento è il
frutto di una non comprensione delle ragioni, delle cause del conflitto. Il
primo punto che vorrei chiarire è proprio questo. Lo faccio riferendomi ad un
articolo uscito recentemente sul New York Times, di cui si è parlato molto per
un attimo e su cui è poi caduto il silenzio. Il titolo è già molto esplicativo: L’alleanza.
Storia segreta della guerra in Ucraina. Il ruolo nascosto degli Usa nelle
operazioni militari ucraine contro la Russia. Si tratta di un dossier
frutto i di più di trecento interviste a uomini e donne della Nato a cura di
Adam Entous e pubblicato il 29 marzo del 2025.
L’importanza
dell’articolo è semplice: l’autore riconosce, con dovizia di particolari, la
natura di guerra per procura dell’Ucraina alla Russia, guerra per conto degli
USA. Una guerra preparata dalle amministrazioni democratiche e repubblicane
negli ultimi trent’anni. Non è chiaramente una notizia bomba. Molti studiosi
dal febbraio del 2022 hanno sostenuto questa tesi. La novità è il fatto che il
giornale dell’amministrazione democratica, il giornale di sistema più
prestigioso degli Usa lo abbia dichiarato senza infingimenti di sorta. Il
motivo era chiaro: la guerra non è stata vinta anzi è stata proprio persa. Per
quali ragioni? Da una parte la responsabilità è stata attribuita agli Ucraini.
Malgrado tutto il sostegno Usa e della Nato gli Ucraini hanno continuato a
condurre la guerra in modo autonomo, non hanno ascoltato a sufficienza gli alti
comandi statunitensi. Quando hanno obbedito si sono visti i successi, come
nell’estate autunno del 2022. Quando hanno fatto di testa loro, difesa ostinata
e senza motivo di Bacmuth/Artemovsk o ancora peggio, sfondamento delle linee
russe nel distretto di Kursk nell’estate del 2024, le operazioni sono state un
disastro di tali proporzioni da compromettere l’intera campagna militare. Il
tono è chiaro: si accetta la sconfitta ma si scaricano le responsabilità sulle
truppe ucraine, sull’alleato borioso e corrotto. L’articolo che sembra un “mea
culpa” è in realtà una classica autoassoluzione. L’amministrazione Biden ha
fatto tutto per bene, dosando mese dopo mese l’escalation, scegliendo i tempi
per allentare la tensione e quelli per alzarla. L’arrivo di Trump è stata la
goccia che ha fatto traboccare il vaso. L’insipienza della politica di guerra
ucraina e la propaganda di Trump hanno rotto il giocattolo perfetto della
guerra, “non provocata e brutale” del dittatore Putin. Per quello che ci
riguarda l’importanza dell’articolo è solo nell’ammissione, oramai manifesta,
della guerra per procura e dell’impossibilità di vincerla sul campo.
Perché allora
la guerra per procura? Semplicemente perché essa si inserisce nella strategia
di lungo periodo, democratica e repubblicana, elaborata dal movimento dei
neoconservatori, per creare una salda egemonia Usa anche per il XXI secolo. La
guerra in altri termini ha una natura squisitamente imperialistica che soltanto
il disarmo concettuale della sinistra politica di classe ha reso possibile il
fraintendimento.
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Le cause profonde della guerra
Qualcosa però
è andato storto. E’ dunque necessario un chiarimento sulla portata della guerra
e sulla sua natura profonda. Nel progetto Usa, la guerra serviva a risolvere
tanti problemi. Schiacciare l’Europa (questione Brezinski), disintegrare la
Russia in una serie di stati dipendenti dagli Usa e in second’ordine dagli
alleati (qualcosa si deve pur dare ai cornuti europei che fanno la guerra
contro i loro interessi) riavviare un ciclo di accumulazione impossessandosi
delle enorme ricchezze russe, in prospettiva impartire alla Cina una dura
lezione: è con noi che devi trattare, non ti azzardare a competere con la
nostra industria militare e high tech. In sostanza, dopo la crisi del 2008 gli
Usa hanno percepito una crescente debolezza del loro ruolo di dominus della
globalizzazione. La loro risposta è stata un’accelerazione nella riorganizzazione
del sistema delle relazioni internazionali prima che diventasse troppo tardi.
Il problema è che è diventato troppo tardi. Come ogni impero della storia, a un
certo punto i costi per esercitare il proprio dominio imperiale sono superiori
ai vantaggi. Il momento per una ritirata sensata dell’impero è stata la
presidenza Obama: ci si aspettava la chiusura dell’insensata guerra in
Afghanistan ed invece c’è stato il rilancio con le primavere arabe e la guerra
in Siria. Nel 2008, quindi possiamo rintracciare l’anno di svolta per la storia
Usa, della globalizzazione e anche del traballante sistema internazionale.
Arriviamo
quindi al punto essenziale, che si riconnette alla questione dell’imperialismo.
La natura storica del capitalismo è stata quella di esercitare un dominio,
equivalente a sfruttamento del lavoro ed estrazione di risorse naturali
praticamente senza pagare costi che non fossero quelli dell’organizzazione
delle catene del valore e dello sfruttamento, nei confronti delle società e
degli stati del sud del mondo. Ora è questo vantaggio competitivo che
caratterizza il capitalismo come estrazione di surplus sostanzialmente
infinita. La fase attuale è quella del raggiungimento del limite. Un limite
ambientale (le risorse scarse inducono una crisi che assume i tratti del
collasso) un limite politico: la globalizzazione ha ribaltato i rapporti di
forza, le fabbriche del mondo delocalizzate nel sud globale hanno risalito la
scala del Valore e competono su tutti i piani con la potenza egemonica:
tecnologia, esercito, finanza.
La natura del
ribaltamento di forze spiega la politica altrimenti incomprensibile della nuova
amministrazione Trump. I dazi, il tentativo di separare Russia e Cina, lo
sganciamento dalla guerra in Ucraina. Ma come dicevo, è un pò troppo tardi.
Uscire dal processo della finanziarizzazione dell’economia è sostanzialmente
impensabile. I capitali non hanno bandiera. All’annuncio dei dazi i capitali si
sono ritirati dalla borsa e NON HANNO PRESO LA STRADA DEL BENE RIFUGIO PER
ECCELLENZA, IL DOLLARO. La fuga di capitali annuncia il limite invalicabile
alle politiche di reindustrializzazione, almeno così mal concepite dal gruppo
di governo Usa.
Cosa significa
tutto ciò? In termini pratici, la classe dominante Usa è divisa e incerta sul
da farsi: la ritirata sembra impossibile come la fuga in avanti nella guerra.
Questa situazione determina l’indebolimento sempre più rapido della potenza
egemone e la minaccia sempre più forte di un caos globale, di una guerra
generale per stabilire la nuova egemonia
.
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Navigare nel caos
Il senso di
smarrimento, di sgretolamento dell’ordine, è evidente, percepito e diffuso a
tutti i livelli, in quello che si chiama pomposamente Occidente.
Si abbozzano
tentativi per frenare la caduta, anche diversi, come la linea Trump e quella
europea sulla questione Ucraina, ma su un punto la consegna è chiara: bisogna
impedire a tutti costi il ritorno in campo del mondo del lavoro, dell’idea di
un controllo politico sul capitale. Questa tendenza spiega molto bene come i
neoliberali siano pronti e disponibili ad allearsi con le forze profasciste: si
tratta di prendere tempo, il populismo di destra assorbe il malcontento
generato dalla degenerazione del modello neoliberale, ma alla fine i signori
del capitale sono convinti di avere loro il controllo del vapore. Nel caso di
Meloni, Orban, le Pen le cose stanno effettivamente così. Ma nel caso di un
precipitare della crisi, il quadro potrebbe drasticamente mutare e un controllo
militare sul lavoro potrebbe tornare all’ordine del giorno. Per ora censura,
manipolazione legale, svuotamento dei sistemi elettorali sono sufficienti per
continuare la navigazione a vista nel caos.
4
Fermare la guerra è possibile
In Europa, il
tentativo di rilegittimare attraverso la guerra una classe politica che ha condotto
il continente, con il progetto neoliberale di Unione, ad un fallimento storico
è, se lo si vuole, facilmente contendibile.
Il partito
della guerra non fa breccia tra le masse popolari perché la minaccia della
conquista europea della Russia fa ridere i polli e ad essa non ci crede
nessuno. Il riarmo è dunque vissuto come un vero e proprio sopruso che suscita
repulsione e disprezzo. Oggi la strada segnata è quella di organizzare
politicamente un partito della pace che sia anche, e credibilmente, un partito
capace di rivoluzionare, di capovolgere i pilastri del vecchio ordine che sta
cadendo. Un partito, inteso come una forza trainante, che sappia dire poche
cose ma chiare.
No al riarmo e
si alla diplomazia per risolvere le crisi.
Tassazione
patrimoniale sui super ricchi.
Nazionalizzazioni
e intervento diretto dello stato in economia.
Transizione
ecologica a favore dei lavoratori e non contro i lavoratori.
Liberazione
della scuola e delle università dalla rete di norme che puntano a
privatizzazione, finta meritocrazia, competizione tra individui.
Rilancio dei
consumi pubblici e riduzione dei consumi privati, non più sostenibili.
Ferrea
opposizione alla politica guerrafondaia e genocida dell’Europa, anche pronti ad
uscire da questa Europa che ha tradito tutti i suoi ideali.
Una nuova
cultura della tolleranza, del riconoscimento reciproco, contro settarismi,
deliri identitari, fughe in avanti frutto di una cultura del consumismo
narcisistico.
Questo ultimo
punto è particolarmente importante perché ha infettato a tutti i livelli quella
che era una volta la sinistra. Soltanto praticando la cultura del
riconoscimento e dell’emancipazione (non solo a chiacchiere) è possibile
costruire quel partito rivoluzionario della pace di cui c’è urgenza assoluta. I
nemici di classe sono confusi e indecisi. Ma anche noi lo siamo. Abbiamo
davanti un tempo limitato. E’ possibile che ai proclami bellicisti si dia
seguito concreto. Il riarmo è il primo passo. La guerra il secondo. Cerchiamo
l’unità e la chiarezza prima dei nostri avversari e potremo imprimere una
svolta al nostro destino.
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