Molti che vengono a trovarci, qui a Trieste, dove ogni giorno con Linea
d’ombra incontriamo i migranti che arrivano dalla cosiddetta rotta Balcanica, e
spesso ci dicono che nella piazza del Mondo di Trieste si fa esperienza. Ma che
cosa vuol dire questa parola comune e quindi dal significato sfuggente? Per definire il
concetto di esperienza possiamo fare riferimento a Walter Benjamin. Da quasi un
secolo, Benjamin ci offre una meditazione pregnante sulla possibilità e quindi
sulla capacità di fare esperienza, partendo dalle ricadute sociali degli
effetti della Prima guerra mondiale. Fra queste ricadute, fondamentale è stata,
appunto, l’incapacità di fare esperienza:
“… l’arte di narrare si avvia al tramonto […] È come se fossimo privati di
una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa, la più sicura di tutte: la
capacità di scambiare esperienze”. “Non si era visto, alla fine della guerra,
che la gente tornava ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza
comunicabile? […] Una generazione che era ancora andata a scuola con il tram a
cavalli, si trovava sotto il cielo aperto, in un paesaggio di cui nulla era
rimasto immutato, tranne le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di
correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo”1.
Oggi l’incapacità di fare esperienza ha raggiunto un culmine mai toccato
prima nei confronti di ciò che è letteralmente inesperibile, indicibile: la
distruzione quotidiana di una popolazione inerme di fronte a tutto il mondo, offerta o imposta
ogni giorno e ogni notte dall’invasiva potenza elettronica della produzione di
immagini su dispositivi di uso quotidiano, come i cellulari, ormai
capillarmente diffusi.
E questo accade in un contesto già gravemente segnato da un altro dato
fondamentale di lunga durata, meno visibile forse ma anche più grave, se
possibile: l’alterazione, che ormai appare inarrestabile, dell’equilibrio
ambientale della vita sulla terra, dovuta all’attività umana, anzi per essere
doverosamente più preciso: di una parte minoritaria degli umani.
Se “storia” implica narrazione – lo stabilirsi di un nesso comunicativo fra
le generazioni che si succedono nel corso del tempo, fra chi viene al mondo e
chi se ne va, fra chi nasce e chi muore -, questi due passaggi epocali
confluenti ci mettono di fronte a una frattura storica mai avvenuta prima.
In tale contesto, in cui ci troviamo tuffati come in un mare senza sponde,
come è possibile fare esperienza?
Io credevo di aver avuto questo privilegio. Mi era stato offerto in un
gesto comunicativo originario e radicale, che agisce alla base della vita: il
gesto di cura per mano di donna che, scalzando un piede ferito da un lungo
cammino, ha cominciato, di fronte a una lingua sconosciuta, a curarlo, entrando
quindi con lui in un radicale rapporto. Questo gesto si è inserito, peraltro,
in un contesto culturale di pensiero femminista, che mi era noto. Ma un conto è
la conoscenza intellettuale, un altro – appunto – l’esperienza.
Fare esperienza oggi è un privilegio, come avere una bussola per chi è
sperduto in mezzo al mare. Salvo illusioni, di cui bisogna sempre
tener conto come orizzonte di riserva per un pensiero critico attivo che ha
conosciuto la potenza delle illusioni. La potenza dell’illusione, infatti,
nasconde spesso l’incapacità di fare esperienza, nutrendosi di emozioni
rivestite di immagini e di parole, non di pensieri: oggi più che mai prima, con
l’in-flusso soffocante dell’informazione elettronica. Nella piazza del Mondo di
Trieste si fa dunque esperienza.
Si fa anche esperienza di un altro confine, oltre a quello che scatta
contro i migranti, che meglio si chiamerebbe frontiera. Si fa esperienza del
confine fra loro e noi che è stato chiamato da un sociologo e attivista la
“differenza abissale” e che, per rimanere in tema, possiamo chiamare il confine
abissale: il confine non facilmente superabile fra “culture” molto diverse e
condizioni di vita radicalmente diverse dalla nostra, come sono quelle di chi
viene da paesi in cui sopravvivere è difficile, rischiando molte volte la vita
per arrivare dove noi lo incontriamo, tentando di accoglierlo.
Ma si fa esperienza anche di un altro confine, in apparenza molto meno
drammatico, in realtà molto legato al dramma, anzi alla tragedia, di cui sopra,
che riguarda noi stessi direttamente, anzi intimamente. Intendo dire
che facciamo esperienza del confine tra umanitarismo e politica. Si tratta di
una differenza fondamentale nell’agire sociale che deriva dal confine tra due
forme di vita che chiamerò vita privata (privata dunque di qualcosa…) e vita
comunitaria.
Con “vita privata” intendo la vita normale (ovvero che risponde a
norme) nelle nostre società rette dalla cultura dell’economia di mercato in cui
l’essere umano si rappresenta nella figura dell’individuo, separato e
contrapposto agli altri, sulla base di un’ontologia sociale della concorrenza e
della proprietà, in cui rientra la cerchia insulare degli “affetti”.
Con “vita comunitaria” intendo il fine intrinseco della politica,
pensata esclusivamente come impegno nel cuore della società volto a rompere
l’individualismo nel tentativo, appunto, di costruire comunità: una vita
sociale composta di relazioni basate sul dato ontologico che la soggettività
nasce dalla relazione e non la precede; nasce dal riconoscimento reciproco fra
singoli, non fra individui che non si possono riconoscere ma soltanto
contrapporsi o comunque relazionarsi estrinsecamente. “Singolo” è la parola con
cui indico il carattere strutturalmente relazionale della soggettività: non c’è
un “io” prima dell’”altro”; il gioco essenziale fra “io” e “sé” nasce dal
riconoscimento dell’altro che poi diventa reciproco. Ciò accade sulla base della
cura, altra nozione essenziale per un pensiero politico, il cui evento
originario è l’esser accolti alla nascita.
Generalmente con “politica” si intende soprattutto il livello
istituzionale: lo Stato, con annessi e connessi, che è gestione del potere in
una società e in stretto necessario legame con il soprastante potere detto
“economico”. Dovremmo invece imparare a riservare il termine politica solo
all’impegno dentro la società, fra la gente, in cui il privato e il pubblico,
almeno tendenzialmente, si dissolvono. In tale contesto non deve esserci
potere che può esser agito solo in situazioni circoscritte e su precisa delega
collettiva sempre temporanea.
Con “umanitarismo” intendo, invece, un impegno nel disagio e nella
sofferenza sociali che resta al di fuori della soglia politica perché non
risale alle cause di quel disagio e di quella sofferenza nel tentativo di
superarle. In tal modo se ne rende complice. In qualunque società infatti una certa
quantità e qualità di cura reciproca è necessaria affinché la società stessa
non si disgreghi. Vi sono innumerevoli forme a tutti i livelli di presenza
della cura nelle società.
Nel cosiddetto Occidente, il potere ha imparato che senza una certa
quantità e qualità di cura la società stessa tende a disgregarsi. In Occidente e
soprattutto in Europa negli anni Sessanta-Settanta c’è stato un notevole
aumento della cura pubblica, anche e soprattutto per effetto di movimenti
sociali. Da qualche decennio è evidente che la cura pubblica sta diminuendo
fortemente.
In molti paesi del mondo la cura è al livello minimo. In altri è al disotto
del livello minimo: sono paesi in disgregazione – penso, ad esempio,
all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria, ad alcuni paesi africani e del Sud Asia
orientale, ma ce ne sono molti.
Oltre alla cura pubblica, cioè di matrice statale, c’è anche una cura da
parte di gruppi sociali che però non si pongono il problema delle cause della
sofferenza, ma si limitano a curare le conseguenze: è appunto la cura
umanitaria, essenziale per sostenere la società, soprattutto oggi che
la cura è in diminuzione ovunque e inoltre viene “privatizzata” nel senso che
diventa una produzione economica per generare valore di scambio.
Tradizionalmente la Chiesa cattolica è la più importante produttrice di cura
umanitaria nel nostro paese.
Oggi, però, ricollegandomi all’incipit di questo scritto, siamo
all’inizio di un tempo storico assolutamente nuovo che cambia tutte le
carte in tavola. Credo, infatti, che quel che avviene a partire dal 7 ottobre
del 2023 in Gaza, ovviamente ricaduto anche in Cisgiordania e su
tutto il popolo palestinese, tutt’altro che concluso con l’esibizione della
finta pax americana – ovvero un genocidio davanti agli occhi del mondo
intero – sia la dichiarazione pubblica fattuale che è
possibile anzi “desiderabile” una società senza cura: una società retta dal
nudo potere del valore di scambio, di cui la diffusione di una cultura
mercantile della guerra è la conseguenza. Questo avvenimento pubblico è tale da
produrre una rottura radicale nella continuità storica del tramandamento e
quindi nella nostra capacità di fare esperienza.
Noi non siamo – non siamo ancora, forse – in grado
di fare esperienza di quel che accade a Gaza.
Ma quel che accade a Gaza reagisce su tutto ciò che facciamo,
anche nella piazza del Mondo di Trieste, che rischia continuamente di venir
riassorbita, quindi, nell’umanitario, sul cui confine oscilliamo sempre.
Peraltro fra questo recente fenomeno migratorio e quel che accade a Gaza
c’è un nesso significativo nel nome del disprezzo razziale della vita, antica e
fondamentale tradizione europea. Questo nesso è la politica di morte
dell’Unione europea che di morti ha riempito il Mediterraneo e in minor misura
anche la rotta che giunge ai Balcani. Una politica di morte che l’Europa, e in
particolare l’Italia, agisce con Libia e Tunisia: anche noi quindi, cittadini
europei e italiani, siamo direttamente coinvolti…
Sta a noi mostrare se la Sumud flottiglia e soprattutto le manifestazioni
in Europa e in varie parti del mondo possono essere, forse, un primo impulso a
un inizio di esperienza e quindi di politica… anche se fare manifestazioni è
molto più facile di un agire costruttivo quotidiano e locale: qui sta il punto.
Dobbiamo costruire la nostra Selva Lacandona: le nostre piccole
selve da unire nella grande… (e qui non posso far punto ma solo puntini…).
1 Walter Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov,
in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Traduzione e cura di
Renato Solmi, Einaudi Torino, seconda edizione 1982, pp. 248 e 247
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