sabato 25 ottobre 2025

Ribellarsi facendo, qui e ora - Gian Andrea Franchi


Molti che vengono a trovarci, qui a Trieste, dove ogni giorno con Linea d’ombra incontriamo i migranti che arrivano dalla cosiddetta rotta Balcanica, e spesso ci dicono che nella piazza del Mondo di Trieste si fa esperienza. Ma che cosa vuol dire questa parola comune e quindi dal significato sfuggente? Per definire il concetto di esperienza possiamo fare riferimento a Walter Benjamin. Da quasi un secolo, Benjamin ci offre una meditazione pregnante sulla possibilità e quindi sulla capacità di fare esperienza, partendo dalle ricadute sociali degli effetti della Prima guerra mondiale. Fra queste ricadute, fondamentale è stata, appunto, l’incapacità di fare esperienza:

“… l’arte di narrare si avvia al tramonto […] È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa, la più sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”. “Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? […] Una generazione che era ancora andata a scuola con il tram a cavalli, si trovava sotto il cielo aperto, in un paesaggio di cui nulla era rimasto immutato, tranne le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo”1.

Oggi l’incapacità di fare esperienza ha raggiunto un culmine mai toccato prima nei confronti di ciò che è letteralmente inesperibile, indicibile: la distruzione quotidiana di una popolazione inerme di fronte a tutto il mondo, offerta o imposta ogni giorno e ogni notte dall’invasiva potenza elettronica della produzione di immagini su dispositivi di uso quotidiano, come i cellulari, ormai capillarmente diffusi.

E questo accade in un contesto già gravemente segnato da un altro dato fondamentale di lunga durata, meno visibile forse ma anche più grave, se possibile: l’alterazione, che ormai appare inarrestabile, dell’equilibrio ambientale della vita sulla terra, dovuta all’attività umana, anzi per essere doverosamente più preciso: di una parte minoritaria degli umani.

Se “storia” implica narrazione – lo stabilirsi di un nesso comunicativo fra le generazioni che si succedono nel corso del tempo, fra chi viene al mondo e chi se ne va, fra chi nasce e chi muore -, questi due passaggi epocali confluenti ci mettono di fronte a una frattura storica mai avvenuta prima.

In tale contesto, in cui ci troviamo tuffati come in un mare senza sponde, come è possibile fare esperienza?

Io credevo di aver avuto questo privilegio. Mi era stato offerto in un gesto comunicativo originario e radicale, che agisce alla base della vita: il gesto di cura per mano di donna che, scalzando un piede ferito da un lungo cammino, ha cominciato, di fronte a una lingua sconosciuta, a curarlo, entrando quindi con lui in un radicale rapporto. Questo gesto si è inserito, peraltro, in un contesto culturale di pensiero femminista, che mi era noto. Ma un conto è la conoscenza intellettuale, un altro – appunto – l’esperienza.

Fare esperienza oggi è un privilegio, come avere una bussola per chi è sperduto in mezzo al mare. Salvo illusioni, di cui bisogna sempre tener conto come orizzonte di riserva per un pensiero critico attivo che ha conosciuto la potenza delle illusioni. La potenza dell’illusione, infatti, nasconde spesso l’incapacità di fare esperienza, nutrendosi di emozioni rivestite di immagini e di parole, non di pensieri: oggi più che mai prima, con l’in-flusso soffocante dell’informazione elettronica. Nella piazza del Mondo di Trieste si fa dunque esperienza.

Si fa anche esperienza di un altro confine, oltre a quello che scatta contro i migranti, che meglio si chiamerebbe frontiera. Si fa esperienza del confine fra loro e noi che è stato chiamato da un sociologo e attivista la “differenza abissale” e che, per rimanere in tema, possiamo chiamare il confine abissale: il confine non facilmente superabile fra “culture” molto diverse e condizioni di vita radicalmente diverse dalla nostra, come sono quelle di chi viene da paesi in cui sopravvivere è difficile, rischiando molte volte la vita per arrivare dove noi lo incontriamo, tentando di accoglierlo.

Ma si fa esperienza anche di un altro confine, in apparenza molto meno drammatico, in realtà molto legato al dramma, anzi alla tragedia, di cui sopra, che riguarda noi stessi direttamente, anzi intimamente. Intendo dire che facciamo esperienza del confine tra umanitarismo e politica. Si tratta di una differenza fondamentale nell’agire sociale che deriva dal confine tra due forme di vita che chiamerò vita privata (privata dunque di qualcosa…) e vita comunitaria.

Con “vita privata” intendo la vita normale (ovvero che risponde a norme) nelle nostre società rette dalla cultura dell’economia di mercato in cui l’essere umano si rappresenta nella figura dell’individuo, separato e contrapposto agli altri, sulla base di un’ontologia sociale della concorrenza e della proprietà, in cui rientra la cerchia insulare degli “affetti”.

Con “vita comunitaria” intendo il fine intrinseco della politica, pensata esclusivamente come impegno nel cuore della società volto a rompere l’individualismo nel tentativo, appunto, di costruire comunità: una vita sociale composta di relazioni basate sul dato ontologico che la soggettività nasce dalla relazione e non la precede; nasce dal riconoscimento reciproco fra singoli, non fra individui che non si possono riconoscere ma soltanto contrapporsi o comunque relazionarsi estrinsecamente. “Singolo” è la parola con cui indico il carattere strutturalmente relazionale della soggettività: non c’è un “io” prima dell’”altro”; il gioco essenziale fra “io” e “sé” nasce dal riconoscimento dell’altro che poi diventa reciproco. Ciò accade sulla base della cura, altra nozione essenziale per un pensiero politico, il cui evento originario è l’esser accolti alla nascita.

Generalmente con “politica” si intende soprattutto il livello istituzionale: lo Stato, con annessi e connessi, che è gestione del potere in una società e in stretto necessario legame con il soprastante potere detto “economico”. Dovremmo invece imparare a riservare il termine politica solo all’impegno dentro la società, fra la gente, in cui il privato e il pubblico, almeno tendenzialmente, si dissolvono. In tale contesto non deve esserci potere che può esser agito solo in situazioni circoscritte e su precisa delega collettiva sempre temporanea.

Con “umanitarismo” intendo, invece, un impegno nel disagio e nella sofferenza sociali che resta al di fuori della soglia politica perché non risale alle cause di quel disagio e di quella sofferenza nel tentativo di superarle. In tal modo se ne rende complice. In qualunque società infatti una certa quantità e qualità di cura reciproca è necessaria affinché la società stessa non si disgreghi. Vi sono innumerevoli forme a tutti i livelli di presenza della cura nelle società.

Nel cosiddetto Occidente, il potere ha imparato che senza una certa quantità e qualità di cura la società stessa tende a disgregarsi. In Occidente e soprattutto in Europa negli anni Sessanta-Settanta c’è stato un notevole aumento della cura pubblica, anche e soprattutto per effetto di movimenti sociali. Da qualche decennio è evidente che la cura pubblica sta diminuendo fortemente.

In molti paesi del mondo la cura è al livello minimo. In altri è al disotto del livello minimo: sono paesi in disgregazione – penso, ad esempio, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria, ad alcuni paesi africani e del Sud Asia orientale, ma ce ne sono molti.

Oltre alla cura pubblica, cioè di matrice statale, c’è anche una cura da parte di gruppi sociali che però non si pongono il problema delle cause della sofferenza, ma si limitano a curare le conseguenze: è appunto la cura umanitaria, essenziale per sostenere la società, soprattutto oggi che la cura è in diminuzione ovunque e inoltre viene “privatizzata” nel senso che diventa una produzione economica per generare valore di scambio. Tradizionalmente la Chiesa cattolica è la più importante produttrice di cura umanitaria nel nostro paese.

Oggi, però, ricollegandomi all’incipit di questo scritto, siamo all’inizio di un tempo storico assolutamente nuovo che cambia tutte le carte in tavola. Credo, infatti, che quel che avviene a partire dal 7 ottobre del 2023 in Gaza, ovviamente ricaduto anche in Cisgiordania e su tutto il popolo palestinese, tutt’altro che concluso con l’esibizione della finta pax americana – ovvero un genocidio davanti agli occhi del mondo intero – sia la dichiarazione pubblica fattuale che è possibile anzi “desiderabile” una società senza cura: una società retta dal nudo potere del valore di scambio, di cui la diffusione di una cultura mercantile della guerra è la conseguenza. Questo avvenimento pubblico è tale da produrre una rottura radicale nella continuità storica del tramandamento e quindi nella nostra capacità di fare esperienza.

Noi non siamo – non siamo ancora, forse – in grado di fare esperienza di quel che accade a Gaza.

Ma quel che accade a Gaza reagisce su tutto ciò che facciamo, anche nella piazza del Mondo di Trieste, che rischia continuamente di venir riassorbita, quindi, nell’umanitario, sul cui confine oscilliamo sempre.

Peraltro fra questo recente fenomeno migratorio e quel che accade a Gaza c’è un nesso significativo nel nome del disprezzo razziale della vita, antica e fondamentale tradizione europea. Questo nesso è la politica di morte dell’Unione europea che di morti ha riempito il Mediterraneo e in minor misura anche la rotta che giunge ai Balcani. Una politica di morte che l’Europa, e in particolare l’Italia, agisce con Libia e Tunisia: anche noi quindi, cittadini europei e italiani, siamo direttamente coinvolti…

Sta a noi mostrare se la Sumud flottiglia e soprattutto le manifestazioni in Europa e in varie parti del mondo possono essere, forse, un primo impulso a un inizio di esperienza e quindi di politica… anche se fare manifestazioni è molto più facile di un agire costruttivo quotidiano e locale: qui sta il punto.

Dobbiamo costruire la nostra Selva Lacandona: le nostre piccole selve da unire nella grande… (e qui non posso far punto ma solo puntini…).


1 Walter Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Traduzione e cura di Renato Solmi, Einaudi Torino, seconda edizione 1982, pp. 248 e 247

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