Il
Nobel delle cannoniere - Marco Consolo
La
grottesca assegnazione del Premio Nobel per la pace alla golpista venezuelana
María Corina Machado è senza dubbio uno dei punti più bassi raggiunti
dall’Istituto Nobel. Lungi dall’essere una coincidenza casuale, è parte
dell’agenda bellica dell’Occidente e di una precisa strategia di aggressione
nei confronti del Venezuela bolivariano e delle altre esperienze di
trasformazione del sub-continente. Oggi, i venti di guerra soffiano anche nelle
acque del Mar dei Caraibi e Machado ha un ruolo centrale nel tentativo di “regime
change” per rovesciare il chavismo con un intervento
militare diretto degli Stati Uniti.
Il
sorriso ingessato di María Corina Machado
Nata
nel 1967, Machado è quella che i venezuelani chiamano “sifrina”: una
donna di origini privilegiate, ricca figlia di un imprenditore siderurgico, nel
2005 ha dichiarato di aver avuto “un’infanzia al riparo dalla realtà”. Ha
studiato prima in un esclusivo collegio di Caracas e poi, come è tradizione tra
le antiche élite venezuelane, negli Stati Uniti.
Nonostante
il tentativo dei latifondi mediatici internazionali di ripulire la sua immagine
e di trasformarla in una moderna Giovanna d’Arco dal sorriso ingessato, Machado
ha un lungo curriculum golpista, fatto di appelli all’intervento militare
straniero contro il proprio Paese e al colpo di Stato. Già nel 2002, Machado
aveva preso parte all’effimero golpe contro Hugo Chávez (con
la presidenza de facto di Pedro Carmona “il breve”),
firmando il decreto di scioglimento di tutti i poteri della Repubblica. La sua
“Ong” Sumate è da tempo finanziata dalla NED (che fa capo al
Partito Repubblicano negli USA) e dall’USAID.
Dopo
la sua elezione a deputata nel 2011, Machado è stata inabilitata politicamente
per aver rappresentato un altro Paese (Panama, incredibile dictu)
in un vertice dell’OEA del 2014, per discutere della crisi venezuelana.
Ritenendo che ciò violasse in modo flagrante la Costituzione, il potere
giudiziario le ha revocato il seggio, con una decisione ratificata nel 2014
dalla Corte Suprema di Giustizia venezuelana. Machado è stata anche parte
attiva dell’enorme trama di corruzione dell’autoproclamato “presidente” del
Venezuela, il “signor nessuno” ex deputato Juan Guaidó.
Nel
2014 e nel 2017, è stata tra le promotrici de “La salida” con le
cosiddette “guarimbas”, una strategia insurrezionale paramilitare per
abbattere il chavismo, con un saldo di 43 morti, 486 feriti e 1.854 arrestati.
Nel 2017 ha invocato a gran voce la “massima pressione” di Washington contro il
governo di Maduro, e l’approvazione di ennesime misure coercitive unilaterali
(le mal chiamate sanzioni) contro l’economia del Paese caraibico. Nel 2019 ha
chiesto l’applicazione del TIAR, un vecchio trattato militare in seno alla
Organizzazione degli Stati Americani (OEA), per intervenire militarmente in
Venezuela, definendo il governo bolivariano come una “associazione criminale transnazionale”.
Nel 2019, in una intervista alla BBC, ha affermato che “…le democrazie
occidentali devono comprendere che un regime criminale lascerà il potere solo
di fronte alla minaccia credibile, imminente e grave dell’uso della forza”. Un
saggio di uso della forza c’è stato nel 2020, con l’avventura dello sbarco di
mercenari nella Operación Gedeón.
Il
suo partito “Vente Venezuela” ha firmato un patto di gemellaggio con
il Likud del sionista Beniamin Netanyahu, a cui ha chiesto di intervenire
militarmente in Venezuela, promettendo di spostare l’ambasciata venezuelana a
Gerusalemme in caso di una sua vittoria elettorale. Il suo appoggio al sionismo
non è mai cessato, neanche durante gli ultimi due anni di genocidio a Gaza.
Per
quanto riguarda la concezione economica, è vicina al turbo-capitalismo di Trump
e all’argentino Javier Milei, con un marcato profilo autoritario, retorica
anticomunista e un modello vende-patria. Machado propone di
privatizzare la compagnia petrolifera statale PDVSA, la Corporación Eléctrica
Nacional e le altre aziende pubbliche, liberalizzare l’economia e
ri-privatizzare le imprese nazionalizzate.
Oggi,
l’assegnazione del Nobel è quindi parte del complesso intreccio di operazioni e
narrative che cercano di far rivivere in America Latina e nei Caraibi i tempi
del big stick e della antica diplomazia delle cannoniere.
Anche in questo caso, come in Palestina, con la loro abituale arroganza
coloniale, attori stranieri vogliono decidere chi deve governare il Venezuela,
senza tenere conto dei venezuelani.
Babbo
Natale e la testa dura dei fatti
Per
quanto riguarda la strategia statunitense di questi mesi, i fatti hanno la
testa dura e c’è poco da credere a Babbo Natale. Diamo un’occhiata alla
tempistica degli ultimi avvenimenti.
Ad
aprile c’era stata la visita a Panama del Segretario della Difesa (ora della
Guerra) Pete Hegseth, seguita da un via vai di alti comandi del Pentagono e da
esercizi militari e spiegamento di truppe per consolidarne la presenza.
A
settembre, Trump ha ordinato l’invio di una flotta militare nel Mar dei Caraibi
con 8 navi da guerra (fregate, cacciatorpedinieri ed un sottomarino nucleare) e
circa 4000 marines, con il ridicolo pretesto della “lotta al narcotraffico”.
Subito dopo c’è stato lo spostamento di dieci caccia F35 in una delle basi a
stelle e strisce di Puerto Rico, protagonisti immediati di provocazioni ai
limiti dello spazio aereo venezuelano.
Il
6 ottobre, Trump ha ordinato all’inviato speciale della Casabianca, Richard
Grenell, di sospendere tutti i contatti diplomatici con il governo bolivariano.
Contatti che avevano portato ad un parziale allentamento del blocco
petrolifero, alla liberazione di alcuni mercenari statunitensi catturati e alla
ripatriazione di decine di venezuelani espulsi dagli Stati Uniti. Secondo
il New York Times, Trump lo ha fatto
per la sua “crescente frustrazione per il fatto che Maduro non abbia
acconsentito alle richieste degli Stati Uniti di abbandonare volontariamente il
potere (sic) e per la continua insistenza dei funzionari venezuelani
nel sostenere di non avere nulla a che fare con il traffico di droga”.
La reazione di Grenell all’assegnazione del Nobel a Machado sul suo profilo di
X è stata lapidaria: “il Premio Nobel è morto da anni”.
Lo
scorso 7 ottobre, il Presidente venezuelano Nicolás Maduro ha denunciato un
piano per compiere un attentato esplosivo contro l’ambasciata degli Stati Uniti
a Caracas, fortunatamente sventato. Un attentato di “falsa bandiera”,
organizzato da un settore dell’estrema destra venezuelana, alla ricerca di un
pretesto per un attacco militare statunitense. La sede diplomatica è chiusa dal
2019, quando si sono interrotti i rapporti diplomatici. Il governo Maduro ha
comunicato “ufficialmente” a Washington i dettagli del complotto. “Gli Stati
Uniti dispongono delle informazioni, dei nomi e cognomi, dell’ora dell’incontro,
di ciò che è stato discusso e dove si è discusso di questo attentato, approvato
e richiesto da una persona che sarà presto resa nota”, ha affermato il
Presidente venezuelano senza fornire ulteriori dettagli.
Secondo
il New York Times, in queste settimane il numero dei militari
statunitensi nei Caraibi è aumentato a circa diecimila, la maggioranza dei
quali a Puerto Rico. Al largo delle coste del Venezuela, si sarebbe poi
aggiunta la nave da guerra “fantasma” Ocean Trader, che funge da
supporto alle forze speciali statunitensi con una capacità di navigazione senza
tracciabilità.
E
nei giorni scorsi, Washington si è assicurato l’appoggio allo spiegamento
militare del governo di Trinidad Tobago, grazie alla promessa dell’esplorazione
congiunta di un giacimento di gas al limite delle acque territoriali
venezuelane. La minaccia militare è oggi a circa 11 chilometri dalle coste
venezuelane.
Il
15 ottobre, tre caccia-bombardieri statunitensi, partiti dalla Louisiana, sono
entrati nello spazio aereo venezuelano, per l’ennesima provocazione, mentre il
New York Times filtrava l’informazione di un semaforo verde dato da Trump alla
CIA per operazioni in territorio venezuelano.
Dulcis
in fundo, l’assegnazione del premio Nobel per la pace a Machado.
Maga,
non Maga….
Nonostante
le apparenze, la politica estera dell’amministrazione Trump non è priva di
contraddizioni. Da una parte, ci sono i falchi, capitanati dal Segretario di
Stato, il guerrafondaio cubano-statunitense Marco Rubio (con la sua ossessione
di utilizzare la potenza militare contro Cuba e Venezuela). Dall’altra, i
membri del MAGA nel governo (gruppo in cui Richard Grenell ha una posizione di
rilievo per la politica estera), che sarebbero in contrasto con la visione di
Rubio e che provano a screditarla e ridurne la portata. Un eventuale intervento
militare potrebbe allarmare la base del MAGA, vista la forte inclinazione
isolazionista, con dei costi politici ed elettorali per lo stesso Trump. Questo
braccio di ferro per imporre la propria visione della politica estera, al
momento, traspare anche dai mezzi di comunicazione statunitensi. Le
contraddizioni della Casa Bianca stanno dando al Venezuela il tempo di
prepararsi al peggiore degli scenari, mentre il presidente Maduro si rafforza
di fronte alla minaccia esterna. Per Rubio, il tempo scorre in un clima di
tensione e aumenta la pressione nei suoi confronti. Il movimento MAGA, guidato
da Grenell, spera nel suo fallimento, per espellerlo definitivamente dal
gabinetto di Trump.
La
risposta bolivariana
Da
parte sua, il governo venezuelano non sottovaluta il pericolo di conflitto.
Oltre ad aver posto in stato di allerta le FF.AA., mobilitato la marina e la
milizia popolare, il governo è impegnato in un’offensiva diplomatica. Tra le
altre iniziative, ha convocato una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite, tenutasi il 10 ottobre, per denunciare l’escalation bellicista.
Il Segretario generale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV),
Diosdado Cabello, ha affermato che «la Nazione utilizza tutti i meccanismi
diplomatici per evitare sempre qualsiasi conflitto, non solo nel territorio
venezuelano, ma in qualsiasi parte del mondo», dato che «il Venezuela si è
sempre contraddistinto per la sua diplomazia bolivariana di pace».
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SCHEDA
Un
poco di storia del Nobel
L’Istituto
Nobel, anche nel lontano passato, si è s/qualificato con l’assegnazione del
premio a personaggi a dir poco sinistri. Solo per rinfrescare la memoria delle
perle più eclatanti, nei primi decenni del secolo scorso furono insigniti del
Premio Nobel per la Pace due dei presidenti più guerrafondai di tutta la storia
coloniale degli Stati Uniti: Theodore Roosevelt nel 1906 e Woodrow Wilson nel
1919.
Roosevelt
creò la politica del big stick (speak softly and
carry a big stick, you will go far) con cui gli Stati Uniti riaffermarono
la possibilità di intervenire se i loro interessi erano in gioco. Fu così che
ordinò la guerra coloniale del 1898 (la «piccola guerra splendida», come fu definita
cinicamente) con cui gli Stati Uniti si impossessarono di Porto Rico, Cuba,
Filippine e Guam. Roosevelt mise anche lo zampino nella secessione di Panama
dalla Grande Colombia per la costruzione del Canale, oltre a invadere Cuba,
Haiti, la Repubblica Dominicana e il Nicaragua.
Woodrow
Wilson, era un razzista a tutto campo, simpatizzante del Ku Klux Klan e
difensore della “purezza razziale” dei bianchi statunitensi, che approfondì la
segregazione nella pubblica amministrazione. Non contento, ordinò operazioni
militari in Messico (l’invasione di Veracruz e le spedizioni punitive contro
Pancho Villa), ed appoggiò lunghe occupazioni con i marines ad Haiti, nella
Repubblica Dominicana e in Nicaragua. A quei tempi, la proxy war fu
condotta dal pirata William Walker, fedele mercenario ed esecutore della teoria
del “destino manifesto”.
Più
recentemente, altri tre premi Nobel per la pace hanno fatto scandalo.
Il
primo, nel 1973, a Henry Kissinger per i negoziati nella guerra del Vietnam e
per i successivi accordi di pace di Parigi, anche se in realtà la guerra di
liberazione nazionale terminò con la vittoria dei Việt Cộng e la caduta di
Saigon nel 1975. In quell’occasione fu insignito del Nobel anche il Presidente
vietnamita Le Duc Tho, l’unico a rifiutare il premio in
tutta la storia del Nobel per la Pace. Come si ricorderà, Kissinger era stato
Consigliere per la sicurezza nazionale e poi Segretario di Stato del Presidente
Nixon, allargando la guerra del Vietnam al Laos e alla Cambogia, con pesanti
bombardamenti nei due Paesi. In America Latina è stato il cervello del colpo di
Stato contro Salvador Allende in Cile del 1973 e delle altre dittature
civili-militari oltre all’inventore del macabro Plan Condor. Lo
scandalo del premio fu tale che due membri del comitato Nobel decisero di
dimettersi.
Nel
2009, è stato premiato Barack Obama «per i suoi straordinari sforzi volti a
rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli».
Peccato che l’ex presidente democratico ha continuato le guerre in Afghanistan
e Iraq iniziate da George W. Bush; ha distrutto la Libia di Gheddafi (il Paese
più prospero e sviluppato di tutta l’Africa); ha sostenuto la guerra civile in
Siria contro il governo di Bashar al-Assad ed appoggiato l’Arabia Saudita nella
sua guerra contro gli Houthi dello Yemen.
E
nel 2016, il premio è toccato al presidente colombiano Juan Manuel Santos per
gli accordi di pace firmati all’Avana con la guerriglia delle FARC-EP. Ma come
ministro della Difesa di Álvaro Uribe, Santos è stato responsabile dei
cosiddetti “falsi positivi”, con centinaia di esecuzioni extragiudiziali di
indigeni o contadini, fatti passare come guerriglieri uccisi in combattimento.
Viceversa,
non si può che salutare positivamente, l’incontrovertibile assegnazione del
premio a Desmond Tutu e Nelson Mandela per la loro lotta contro l’apartheid in
Sudafrica, a Martin Luther King per la sua battaglia contro l’apartheid negli
Stati Uniti, o a Adolfo Pérez Esquivel per la difesa dei diritti umani durante
l’ultima dittatura civile-militare argentina.
Ma,
da tempo, l’ago della bilancia del Nobel pende sempre più a destra, con un
premio geopolitico, utilizzato per dare una verniciata di legittimità alle
cause e alle figure ben viste dalle potenze occidentali nei momenti più
opportuni. Seguendo la geografia dei premi, possiamo identificare la mappa
degli avversari dell’Occidente collettivo: la ex-Unione Sovietica, la Cina
governata dal Partito Comunista, il mondo arabo-mussulmano o la Russia di
Vladimir Putin.
Un Nobel val bene una messa - Giusi Di Cristina
«La
satira politica è divenuta obsoleta da quando il Premio Nobel per la Pace è
stato dato a Henry Kissinger» (Tom Lehrer, autore e compositore satirico).
Erano gli
anni Settanta e il Premio Nobel per la pace venne assegnato a Le Duc Tho, il
politico e rivoluzionario vietnamita che fu il capo della delegazione del
Vietnam del Nord ai trattati per la pace in Vietnam con gli Stati Uniti, e ad
Henry Kissinger, segretario di Stato degli USA. Il motivo del duplice premio
erano appunto gli Accordi che avrebbero portato alla fine di una guerra che
aveva trucidato da una parte il popolo vietnamita – pur non piegandolo, anzi –
e dall’altra un’intera generazione nordamericana, costretta alle armi.
Le Duc Tho,
però, rifiuta il premio, affermando che nel suo Paese la pace non era affatto
stata raggiunta, visto che i combattimenti continuavano a sud.
Kissinger, al
contrario, il premio lo accetta eccome. Peccato che era il medesimo Kissinger
ideatore del Plan Condor, che stava assicurando sostegno economico, militare e
politico alle sadiche dittature latinoamericane.
D’altronde,
da eccellente realista qual è, il segretario di Stato sa bene quanto sia
necessario influenzare i destini dei Paesi che servono al benessere e al
mantenimento dello status quo delle sfere d’influenza. Ed è una pratica
politica talmente accettata, talmente ritenuta normale che persino l’altra
parte, l’URSS, non si scompose minimamente, riconoscendo i nuovi dittatori a
capo dei rispettivi Paesi.
A corollario
delle azioni di politica estera aggressiva, il soft power veniva agito per
raggiungere anche l’ultimo dei cittadini del mondo e convincerlo che gli Stati
Uniti, in fondo, aggiustavano le cose, stavano coi buoni, fornivano le
soluzioni corrette a chi rischiava di corrompersi a causa del socialismo o,
peggio, del comunismo.
E perché non
farlo anche attraverso il Premio Nobel per la Pace?
Le istituzioni
occidentali hanno da sempre sostenuto e difeso un determinato modello di mondo:
l’eurocentrismo ha sdoganato pratiche aberranti come il colonialismo, fatto
passare come legittime le invasioni, accettato le distruzioni e i massacri
quando utili ad aumentare la potenza di un grande Stato occidentale. Spesso
persino chi era vittima del sistema eurocentrico lo sosteneva, vivendolo come
ineluttabile o addirittura giusto.
«Colonialidad
del poder» la chiamava Anibal Quijano, aggiungendo all’analisi anche il
richiamo alla razza, concetto inventato appositamente per costruire
una gerarchia dell’umanità e un presunto destino biologico di una parte a
dominarne un’altra.
Quijano era
peruviano: scriveva forte di un’esperienza diretta che ha aiutato spesso altri
grandi studiosi latinoamericani a redigere analisi che hanno apportato elementi
nuovi e originali, più volte in rottura anche con la parte più vicina (si pensi
a come il marxismo occidentale ha compreso a fatica, quando non rigettato in
toto, gli approcci politici latinoamericani).
Oggi il
metodo non è cambiato: il Nord globale continua a voler dettare la linea
politica ed economica rispetto al Sud (o, a mio parere, ai differenti Sud),
attraverso un sistema ben oliato di hard e soft power.
E il Premio Nobel
per la Pace fa parte di questo sistema, oggi come ieri.
A parte
qualche rarissima eccezione (Martin Luther King o Rigoberta Menchú), il premio
è stato sempre legato a una precisa lettura della realtà, da cui i promotori
della pace o dei diritti umani possono essere di una parte politica. Già con la
nascita della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’Accademia degli
Antropologi denunciava che quella dichiarazione sottoponeva il mondo a una
forma di “giustizia” che stava solo da una parte, appunto.
È di qualche
giorno fa la scandalosa assegnazione del Premio Nobel per la pace del 2025 a
María Carina Machado. Scandalosa per due ragioni: non risulta che abbia fatto
qualcosa per la pace e ha suggerito, al contrario, azioni violente contro il
suo stesso Paese, nel suo stesso Paese.
María Carina
Machado è figlia di un ricco imprenditore, direttamente coinvolto nelle grandi
aziende dell’acciaio e dell’energia elettrica che durante l’era di Chávez sono
state nazionalizzate. Machado si è formata in scuole d’élite, per poi
perfezionarsi in Massachussetts e a Yale. Ad un certo punto ha deciso di
dedicarsi alla politica e lo fa partecipando attivamente al colpo di Stato che
nel 2002 tenta di far fuori Chávez: è al fianco dell’autoproclamato presidente
ad interim Pedro Carmona e firmataria del decreto di scioglimento
dell’Assemblea Nazionale. In effetti, già dall’inizio della sua carriera, si
nota come il pacifismo è la cifra rilevante della sua azione politica.
Per
consolidare la sua posizione crea Súmate, una ong che riceve ingenti
finanziamenti dagli Usa e viene accolta da G.W.Bush alla stanza Ovale, come
diretta interlocutrice del governo statunitense in Venezuela.
Se durante
il mandato di Obama, Machado chiedeva sanzioni molto più forti nei confronti di
personaggi politici del suo Paese, con l’arrivo di Trump Machado si è
convertita in un personaggio chiave, che ha sistematicamente accolto
positivamente non solo le sanzioni individuali ma anche la stretta economica
contro il Venezuela (soprattutto il divieto di vendere petrolio, prima e più
importante risorsa venezuelana), che ha spinto il Paese verso una crisi senza
pari. Il tentativo di allentamento delle pressioni, suggerito
dall’amministrazione Biden, è stato duramente criticato da Machado, in quanto troppo
morbido.
Le critiche
hanno avuto fine con l’avvento del secondo Trump e il ripristinarsi di minacce
e operazioni di forza contro il Venezuela. La signora Machado ha spesso
invocato la necessità di un intervento armato contro il suo stesso Paese, condividendo
la posizione dell’ex ambasciatore statunitense in Venezuela, Cile e Colombia
William Brownfield secondo il quale per portare la pace in un Paese si deve
ricorrere a qualsiasi misura drastica, sia essa una invasione militare o
lasciare i cittadini senza cibo.
Insomma un
rinnovato Plan Condor, senza neppure cambiare di copione.
María Corina
Machado è la prima cittadina venezuelana a ricevere un Nobel per la pace, con
queste motivazioni: «per il suo instancabile lavoro nella promozione dei
diritti democratici per il popolo venezuelano e per la sua lotta per
raggiungere una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia».
Rimangono
almeno due enormi quesiti alla luce di questa premiazione. Il primo è legato
alla comprensione di quali siano i criteri secondo cui invitare i Paesi
stranieri ad invadere militarmente il proprio Paese (è spuntato anche un
documento in cui la pacifica signora Machado invita il presidente Netanyahu a
mandare truppe per salvare il Venezuela) equivarrebbe a proporre transizioni
pacifiche e democratiche, rispettose dei diritti umani.
Il secondo è
l’ubriacatura della pseudo sinistra governativa italiana che si spertica in
applausi per questa premiazione, aggiungendo che non si poteva premiare Trump.
Peccato che Machado abbia dedicato il premio proprio a Trump (mi meraviglio non
l’abbia dedicato anche a Netanyahu). A questo coro felice e sognante si è
unita, immancabilmente, anche una parte di pseudo intellighenzia, che non
riesce più ad unire un paio di informazioni concrete e vive della medesima
propaganda dei detestati Salvini e Meloni.
A conferma
che Quijano aveva ragione: non è quanto abbiamo studiato, ma quello che ci fa
sentire al sicuro.
Machado: cancellata la tradizionale fiaccolata per il Nobel per la Pace - Giusi Di Cristina
Il Consiglio della Pace norvegese ha annunciato che quest’anno non organizzerà la fiaccolata che solitamente celebra la consegna del premio Nobel per la pace. Secondo la dichiarazione ufficiale, i membri della ong «non sentono che la vincitrice sia conforme con i valori fondamentali del Consiglio della Pace norvegesi e dei nostri membri». L’ONG raggruppa infatti altre 17 organizzazioni pacifiste norvegesi e circa 15.000 attivisti e ne ha approfittato per criticare anche l’intero comparto decisionale che, ha affermato, non pare aver rispettato alcuni loro valori imprescindibili, quali ad esempio «la promozione del dialogo e i metodi non violenti».
Non è la
prima volta che il Consiglio della Pace cancella la storica fiaccolata (che si
svolge dal 1954), ma il rifiuto a celebrare questo Nobel – che ad ogni modo è
stato ufficializzato e sarà consegnato il 10 di dicembre prossimo – dà la
possibilità a quanti si sono indignati per la scelta di veder riconosciuta,
appunto, la giustezza della propria indignazione.
María Corina
Machado, dopo aver dedicato a Trump il premio, un paio di giorni dopo la sua
proclamazione ha telefonato al presidente israeliano Netanyahu, congratulandosi
per la gestione della guerra. Insomma: un premio Nobel che si premura, fra i
primi atti, di congratularsi con un leader dell’estrema destra mondiale che sta
conducendo da anni un’aggressione inarrestabile che mira alla pulizia etnica.
Per quanto
la fiaccolata sia un atto simbolico, essa accompagna da moltissimi anni la
consegna del Nobel per la pace e rappresenta il riconoscimento del premio da
parte della società civile, non solo norvegese.
Da parte
sua, l’Istituto per il Nobel non ha dato risposte, a parte informare che
Machado potrebbe forse non riuscire a raggiungere Oslo per ragioni di
sicurezza. Incaponito in una scelta che, evidentemente, ha sconcertato quella
parte di opinione pubblica libera dal lavaggio di cervello neoliberale (che
venga dalla destra o dalla sinistra), procede in un atto che, come
precedentemente scritto su queste pagine, non rappresenta null’altro che soft
power.
In un
momento storico, tra l’altro, in cui l’America Latina è ancora una volta
sottoposta a tentativi di intrusione violenta da parte degli Stati Uniti,
urlati da Donald Trump, ormai convinto di essere il padrone del mondo, in
splendida compagnia di tutti quegli Stati che concepiscono la politica estera
come piena subordinazione all’ordine nordamericano.
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