di Giuseppe Pipitone, Marco Lillo, Saul Caia
L'INCHIESTA - Scomparsa nel capoluogo siciliano alla vigilia del delitto
del leader comunista, trovata in un covo dei Nar a 1.500 km di distanza, è
stata indicata per anni come la prova regina del delitto del fratello del capo
dello Stato. Ipotesi accantonata dalla procura nell'ultima inchiesta. Ma la
targa PA563091 può ancora illuminare di una luce nuova i rapporti tra mafiosi e
neofascisti
Unisce Palermo a Torino, ma potrebbe collegare
anche gli ambienti di Cosa Nostra a quelli dell’eversione
nera, sullo sfondo dei delitti eccellenti. Nell’ultima inchiesta della Procura
di Palermo sull’omicidio di Piersanti Mattarella si
torna a parlare della targa usata per camuffare l’auto utilizzata dai killer
dell’ex presidente della Sicilia. E che nell’originaria ipotesi investigativa
avrebbe potuto legare la mafia al mondo del terrorismo di destra. Nella
richiesta di arresto per l’ex prefetto Filippo Piritore, finito ai domiciliari con l’accusa di depistaggio, si dedica un
paragrafo a questo pezzo di plastica rettangolare dato per disperso negli atti
ufficiali e che invece è custodito ancora oggi all’ufficio corpi di reato del
tribunale di Palermo. Negli ultimi quarant’anni quella targa ha colpito
l’attenzione delle migliori menti investigative italiane. Sono due lettere e
sei numeri in bianco su sfondo nero: PA563091. È una targa famosa,
anzi famigerata perché fu sequestrata dai carabinieri il 26 ottobre del 1982 a
Torino in via Monte Asolone, all’interno di un appartamento usato
dai terroristi di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari. Che ci
faceva quella targa rubata a Palermo in un covo di neofascisti a Torino?
Nessuno si è posto questa domanda per sette lunghi anni. Poi nel 1989 il
magistrato Loris D’Ambrosio si accorge di una singolare
coincidenza: PA563091 è una sequenza composta dagli stessi
numeri “avanzati” nella creazione della targa finta fabbricata dagli assassini
di Piersanti Mattarella.
Il 6 gennaio del 1980 l’allora presidente della Regione Siciliana viene
ucciso sotto casa sua da due killer, che poi fuggono a bordo di una Fiat 127
targata PA546623. È il risultato di un mix di targhe rubate: PA54-0916 e
PA53-6623. Da quell’operazione avanzano appunto due frammenti di targa: PA53 e
0916. Due anni e mezzo dopo, il 26 ottobre 1982, i carabinieri fanno irruzione
in via Monte Asolone nel capoluogo piemontese: a verbale scrivono di aver sequestrato
“due pezzi di targa di cui uno comprendente la sigla PA e uno contenente la
sigla PA e il numero 563091”. D’Ambrosio unisce i puntini e l’8 settembre del
1989 firma una relazione che sottolinea come la targa trovata a Torino
(PA563091) sia composta esattamente dalle stesse cifre “avanzate” dalla
creazione della targa usata nell’omicidio Mattarella (PA53-0916).
La pista delle targhe
L’intuizione di D’Ambrosio colpisce l’attenzione di Giovanni
Falcone, da tempo impegnato nelle indagini sugli omicidi politici commessi
in Sicilia. Il giudice istruttore Gioacchino Natoli va ad
acquisire la targa di via Monte Asolone, che nel frattempo era stata inviata a
Roma. Il ragionamento investigativo è semplice: se quella targa è composta da
più pezzi incollati allora vuol dire che i Nar sono coinvolti nell’omicidio di Mattarella.
Natoli va a Roma, si fa consegnare la targa e scopre che è integra. Ad
accusare Giusva Fioravanti ci sono le dichiarazioni di suo
fratello Cristiano e il riconoscimento di Irma Chiazzese, vedova
Mattarella e testimone oculare del delitto. Ma la presunta prova regina
rappresentata dalla targa perde consistenza: nei due anni e mezzo di vita che
lo separano dalla strage di Capaci, Falcone non se ne occuperà più. Come
D’Ambrosio e Natoli. Fioravanti viene processato insieme a Gilberto
Cavallini per l’omicidio Mattarella ma viene assolto in via
definitiva. Condannati, invece, i boss della cupola di Cosa Nostra, indicati
come mandanti. Oscuri ancora oggi gli esecutori del delitto.
L’ipotesi della manina
Passa quasi un quarto di secolo e la pista delle targhe riemerge: nel
2014 Giovanni Grasso (oggi portavoce di Sergio Mattarella al
Quirinale) racconta l’intuizione investigativa di D’Ambrosio nel suo
libro Piersanti Mattarella, da solo contro la mafia (San
Paolo). Nel 2017 Franco Roberti, all’epoca capo della Direzione
nazionale antimafia, chiede al procuratore di Palermo – che era Franco
Lo Voi – di verificare se quella targa fosse autentica o falsa, cioè
“assemblata con i pezzi residuati dal camuffamento effettuato sulla Fiat 127
utilizzata per l’omicidio Mattarella”. Un interrogativo che da anni si pongono
i migliori saggisti e giornalisti italiani. Da ultimo Report a maggio scorso rilancia
l’ipotesi di Andrea Speranzoni, avvocato dei familiari delle
vittime della strage di Bologna, il quale ipotizza che la prova regina della
pista nera nel delitto Mattarella potrebbe essere stata sottratta da una “manina”:
qualcuno avrebbe sostituito i due frammenti originari con una targa integra
“salvando” così i Nar nelle indagini sull’omicidio Mattarella. A sostegno di
questa tesi si cita un documento del 2004 in cui il tribunale di Roma attesta
la distruzione di tutti i reperti sequestrati in via Monte Asolone nel 1982,
compresi quei due pezzi di targa.
La targa è integra e autentica
La pista è stata esaminata e scartata dal procuratore Maurizio de
Lucia e dai sostituti Antonio Carchietti e Francesca
Dessì nella richiesta di arresto dell’ex prefetto Piritore. Prima di
dedicarsi al guanto trovato il 6 gennaio 1980 sull’auto usata dai killer e poi
misteriosamente sparito, i pm spazzano il campo dai vari elementi della
cosiddetta “pista nera” che hanno seguito senza risultato. Il primo è
appunto la targa. I magistrati spiegano di aver ritrovato negli archivi
palermitani “quanto descritto nel verbale di perquisizione” dei carabinieri del
1982, e cioè “effettivamente e chiaramente” due pezzi di targa “di cui uno
comprendente la sigla PA e uno contenente la sigla PA e il n. 563091”. Allora
cosa è stato distrutto a Roma? Spiegano i pm: “Con il provvedimento del 15
giugno 2004, vennero distrutti tutti i reperti (tra cui altre targhe pure
sequestrate nel medesimo covo) facenti parte del plico n. 110116 ad eccezione
di quello recante il n. 42 che, essendo stato trasmesso al
Tribunale di Palermo e acquisito al procedimento penale relativo all’omicidio
del Presidente, rimase regolarmente custodito agli atti”. Semplicemente,
dunque, quel verbale di distruzione dei carabinieri di Roma contiene un errore.
Ipotizza la distruzione di tutti i reperti senza tener conto che quella
targa PA563091 (solo quella) era da quindici anni a Palermo,
portata lì da Natoli nel 1989. Nessuna distruzione, dunque. “Una volta
recuperati i due pezzi di targa sequestrati in via Monte Asolone a Torino, la
targa intera PA 563091 è apparsa ictu oculi integra (cioè
non formata da spezzoni incollati tra loro), circostanza questa che,
verosimilmente, non suggerì, ai tempi della sua originaria acquisizione, il
compimento di ulteriori approfondimenti che, tuttavia, sono stati ugualmente
disposti nell’ambito del presente procedimento”, continuano gli investigatori
palermitani, risolvendo così un giallo vecchio di quattro decenni.
Verbali scritti male
Anche il verbale dei carabinieri che fecero irruzione nel covo dei Nar,
datato 1982, era probabilmente scritto male: riporta l’esistenza di “due
pezzi di targa” ma in effetti si tratta di un frammento – PA – e di una
targa integra PA563091. Lo certificano anche la consulenze tecniche del
perito Carmelo Calzetta, che tra il 2020 e il 2022 spiega come i
reperti analizzati non presentino “punti di discontinuità, né lesioni, né
fratture, né segni di alterazione e/o contraffazione e pertanto sono costituite
da una unica, integra e continua lastra di materiale plastico non
proveniente da assemblaggio mediante collanti o altro tipo di adesivo di pezzi
originariamente distinti da altri esemplari di targhe”. Si tratta dunque di
targhe “verosimilmente originali”. Insomma, per i pm non c’è dubbio: la
targa sequestrata nel covo dei Nar a Torino nel 1982 è la stessa di quella
esaminata la prima volta a Palermo nel 1989 e poi di nuovo 30 anni dopo. Ed è
integra ed autentica. Nessuna manina, dunque.
Menti raffinatissime
Bisogna ripartire dal dato iniziale: la targa PA563091,
sequestrata nel covo di Monte Asolone, apparteneva a una Renault 14TS
immatricolata il 3 marzo del 1980 nel capoluogo siciliano, quindi quasi due
mesi dopo il delitto Mattarella. Era intestata a Rosalia L., una
donna di Palermo residente in via Ruggero Marturano, non lontano dalla zona di
Resuttana-Colli. La targa di quella Renault viene rubata il 24 marzo del 1982,
come risulta dalla denuncia presentata da Antonino B., il marito della donna.
Chi è che compie quel furto? E per quale motivo? Ma soprattutto: come fa quella
targa rubata a Palermo nel marzo del 1982 a ricomparire a Torino, in un covo
dei Nar, sette mesi dopo? Eluso finora dalle inchieste giornalistiche e
giudiziarie, questo è forse il punto centrale della questione. Anche se integra
e autentica, infatti, la sequenza PA563091 ha comunque una straordinaria
particolarità: contiene esattamente le stesse cifre “avanzate” dalla
fabbricazione della targa falsa usata per l’omicidio Mattarella. Una
caratteristica che a Palermo, nel 1982, era condivisa da poche altre targhe. È
solo una coincidenza? O chi l’ha rubata ha scelto appositamente la Renault
della signora Lombardo, consapevole che quei numeri avrebbero rimandato al
delitto del presidente della Sicilia? Se fosse vera questa seconda ipotesi, c’è
da chiedersi per cosa doveva servire la targa sottratta alla signora Lombardo:
forse per firmare un altro omicidio eccellente? Sarebbe
un’operazione da menti raffinatissime.
Il legame col delitto La Torre
Di sicuro c’è solo che il furto della targa PA563091 avviene nello stesso
periodo in cui Cosa Nostra comincia a pianificare un altro delitto politico:
quello di Pio La Torre, segretario del Partito Comunista in Sicilia
e leader del movimento pacifista, contrario all’installazione dei
missili nucleari della Nato sull’isola. Il 4 aprile 1982, 11 giorni dopo la
sottrazione della targa dalla Renault, viene rubata un’altra targa, che sarà
poi usata nell’agguato contro La Torre, il 30 aprile dello stesso anno. Nei
giorni precedenti all’omicidio erano state rubate anche una moto Honda e una
Fiat Ritmo, cioè i mezzi usati dal commando di killer. Quei furti avvengono
nella zona di Resuttana Colli, non distante da dove la signora Rosalia
L. aveva parcheggiato la sua auto: è possibile che a mettere a segno
quei colpi siano le stesse persone? Nulla riscontra questa tesi ma è una
domanda lecita. Una cosa è certa: sulla Ritmo usata dai killer di La Torre non
verrò montata la targa PA563091, che invece si materializzerà sette
mesi dopo e 1.500 chilometri più a nord: a Torino, nel covo dei neofascisti.
Come ci è finita? All’epoca del furto Fioravanti e Mambro erano già in carcere,
mentre altri esponenti di primo piano dei Nar, come Giorgio Vale,
erano braccati dagli investigatori a Roma. Secondo Fabrizio Zani,
neofascista e inquilino del covo di via Monte Asolone e in stretti rapporti con
Fioravanti, Cavallini e Mambro, sono stati i carabinieri di Mario Mori a
piazzare quella targa a casa sua. Zani sottolinea una stranezza oggettiva: in
quel covo vennero compiute due perquisizioni, una il 20 ottobre e una seconda
la sera del 26. L’obiettivo, secondo questa tesi non considerata credibile dai
magistrati, sarebbe stato quello di indirizzare le indagini sul delitto
Mattarella verso i neri. Un “impistaggio”, ma con un piano complesso e
inverosimile: nell’aprile del 1982 i carabinieri – o qualcuno su loro input –
avrebbero dovuto rubare la targa alla signora L.a Palermo, con l’obiettivo di
piazzarla nel covo di Torino nell’ottobre successivo, prevedendo che qualcuno
notasse prima o poi la compatibilità con gli spezzoni dell’omicidio Mattarella.
Cosa che avverrà con la relazione D’Ambrosio, ma solo ben sette anni dopo. A
quel punto scatta “l’impistaggio”, che definire raffinato è riduttivo. Va detto
che Zani non è stato considerato credibile dalla corte d’Assise di
Bologna che ha condannato Cavallini all’ergastolo per la strage alla
stazione. La domanda dunque resta inevasa: come ha fatto la targa PA563091
rubata a Palermo alla vigilia di un importante delitto di mafia a finire nel
covo dei Nar a Torino?
Quella Bmw di Cavallini finita a Palermo
C’è un altro dato che emerge dai vecchi atti delle indagini sui Nar e
sull’omicidio Mattarella: la targa fa quasi il percorso inverso di una BMW
735 targata MI39213G. Rubata a Salsomaggiore nell’ottobre
del 1980, avvisata a Milano negli anni successivi, è l’ennesima auto con una
targa finta di questa storia. Era stata intestata in modo fasullo a Giovanni
Bottacin, cioè le generalità usate da Cavallini, che per guidare quella Bmw
senza dare nell’occhio l’aveva camuffata con una targa di un taxi. Quella
macchina doveva servire ai neri per rapire uno dei Benetton, ma a un certo
punto scompare dai radar per poi ricomparire a Palermo in mano a uomini di Cosa
Nostra. La vicenda è stata ricostruita già 35 anni fa, nell’ordinanza-sentenza
sui cosiddetti delitti politici, cioè quelli di Mattarella, di La
Torre e di Michele Reina, segretario della Dc a Palermo, il cui
caso è stato recentemente riaperto dalla procura di Palermo. “Non posso
nascondere che nella mia ansia, tuttora attuale, di capire che cosa ha fatto
realmente mio fratello Valerio, avrei voglia di continuare a dare il mio
apporto alle indagini e al riguardo, posso soltanto dire che, ad esempio, sono
ansioso di sapere come mai una Bmw di cui Cavallini aveva la disponibilità a
Milano e che doveva servire per il sequestro del figlio di Benetton, è stata
poi trovata a Palermo”, aveva raccontato Cristiano Fioravanti ai
magistrati. Dalle indagini venne fuori che quella macchina era finita in un
autoparco nel quartiere di Pallavicino, gestito da Francesco Buffa,
considerato dagli inquirenti mafioso e amico di due neofascisti come Francesco
Mangiameli e Alberto Volo: il primo venne assassinato
da Fioravanti nel settembre del 1980, il secondo diventerà confidente di Falcone, al quale racconterà dell’esistenza
di strutture paramilitari segrete poi note come Gladio.
“Appare significativo il fatto che la Bmw di Milano sia finita a Palermo e –
guarda caso – sia passata (nonostante la apparente distanza tra i due luoghi)
dal Cavallini al Buffa, che aveva avuto rapporti sicuri col Mangiameli e col
Volo. Anche in questo caso, ci si può comodamente rifugiare nel mondo delle
coincidenze, però è statisticamente improbabile e contrario alla logica credere
alle stesse”, scrivevano gli inquirenti palermitani. Insomma: da una parte c’è
una macchina che dai neofascisti a Milano finisce in mano ai mafiosi in
Sicilia, dall’altra una targa scomparsa a Palermo che si materializza in un
covo di neri a Torino.
Neri e mafiosi
Oltre a essere amico dei estremisti di destra, Buffa era anche considerato
un uomo d’onore di Resuttana, il mandamento dei Madonia, potente
famiglia mafiosa con alcune peculiarità. “Vantavano dei rapporti con
alcuni terroristi di destra, mi parlavano pure di rapporti che
avevano con esponenti dei servizi segreti”, ha messo a verbale, tra
gli altri, il pentito Francesco Onorato. A vantare legami coi neri
e con le spie era soprattutto Nino Madonia, uno dei boss più
enigmatici della famiglia. Killer specializzato in delitti eccellenti, insieme
a Giuseppe Lucchese è recentemente finito indagato nell’ultima inchiesta della procura di Palermo sul delitto
Mattarella. Di un possibile coinvolgimento di Madonia nell’omicidio dell’allora
presidente della Sicilia parlava già la corte d’Assise d’Appello di Palermo che
assolse Fioravanti nel 1998, sottolineando l’esistenza di una presunta somiglianza
fisica tra il mafioso e il terrorista nero all’epoca dei fatti. Per
anni il dualismo Fioravanti-Madonia ha tolto il sonno a investigatori,
magistrati e giornalisti che si sono occupati del caso. Meno complessa, invece,
l’indagine che nel 2004 ha portato Madonia e Lucchese a essere condannati come
esecutori del delitto La Torre.
La compenetrazione
L’omicidio del leader comunista non è legato a quello di Mattarella solo
dal punto di vista investigativo. I due politici, infatti, avevano un rapporto
solido. Dopo il delitto Mattarella, La Torre intervenne alla Camera riportando un dialogo avuto con l’allora presidente
della Regione a proposito dell’assassinio del giudice Cesare Terranova e
dell’arrivo in Sicilia di Michele Sindona. “Ti rendi conto che
questo è un sistema di potere che va al di là della Sicilia? Io penso che ci
sia ormai un rapporto tra la mafia e il terrorismo”,
sono le parole che avrebbe pronunciato il leader del Pci. Mattarella avrebbe
risposto: “Io penso a qualcosa di peggio”. Di rapporti tra mafia e terrorismo
parla pure Giovanni Falcone nel 1988, quando riferisce alla Commissione Antimafia proprio delle
indagini sul delitto Mattarella: “Si tratta di capire se e in quale misura
la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa,
oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe
significare altre saldature e soprattutto la necessità
di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche
da tempi assai lontani”. Chi all’epoca lavorava con Falcone racconta che il
giudice era molto interessato a questa ipotesi della compenetrazione tra neri e
mafiosi nei delitti che hanno segnato la storia del nostro Paese. Oggi una
targa rubata a Palermo alla vigilia del delitto La Torre, trovata in un covo
dei Nar a Torino e indicata per anni come la prova regina del delitto
Mattarella potrebbe illuminare di una luce nuova i rapporti tra
mafiosi e neofascisti sullo sfondo dei misteri italiani.
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