venerdì 31 ottobre 2025

Il delitto Mattarella e l’omicidio di La Torre: quella targa rubata a Palermo e trovata a Torino che può collegare i mafiosi ai neri

di Giuseppe Pipitone, Marco Lillo, Saul Caia

L'INCHIESTA - Scomparsa nel capoluogo siciliano alla vigilia del delitto del leader comunista, trovata in un covo dei Nar a 1.500 km di distanza, è stata indicata per anni come la prova regina del delitto del fratello del capo dello Stato. Ipotesi accantonata dalla procura nell'ultima inchiesta. Ma la targa PA563091 può ancora illuminare di una luce nuova i rapporti tra mafiosi e neofascisti

 

Unisce Palermo a Torino, ma potrebbe collegare anche gli ambienti di Cosa Nostra a quelli dell’eversione nera, sullo sfondo dei delitti eccellenti. Nell’ultima inchiesta della Procura di Palermo sull’omicidio di Piersanti Mattarella si torna a parlare della targa usata per camuffare l’auto utilizzata dai killer dell’ex presidente della Sicilia. E che nell’originaria ipotesi investigativa avrebbe potuto legare la mafia al mondo del terrorismo di destra. Nella richiesta di arresto per l’ex prefetto Filippo Piritorefinito ai domiciliari con l’accusa di depistaggio, si dedica un paragrafo a questo pezzo di plastica rettangolare dato per disperso negli atti ufficiali e che invece è custodito ancora oggi all’ufficio corpi di reato del tribunale di Palermo. Negli ultimi quarant’anni quella targa ha colpito l’attenzione delle migliori menti investigative italiane. Sono due lettere e sei numeri in bianco su sfondo nero: PA563091. È una targa famosa, anzi famigerata perché fu sequestrata dai carabinieri il 26 ottobre del 1982 a Torino in via Monte Asolone, all’interno di un appartamento usato dai terroristi di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari. Che ci faceva quella targa rubata a Palermo in un covo di neofascisti a Torino? Nessuno si è posto questa domanda per sette lunghi anni. Poi nel 1989 il magistrato Loris D’Ambrosio si accorge di una singolare coincidenza: PA563091 è una sequenza composta dagli stessi numeri “avanzati” nella creazione della targa finta fabbricata dagli assassini di Piersanti Mattarella.

Il 6 gennaio del 1980 l’allora presidente della Regione Siciliana viene ucciso sotto casa sua da due killer, che poi fuggono a bordo di una Fiat 127 targata PA546623. È il risultato di un mix di targhe rubate: PA54-0916 e PA53-6623. Da quell’operazione avanzano appunto due frammenti di targa: PA53 e 0916. Due anni e mezzo dopo, il 26 ottobre 1982, i carabinieri fanno irruzione in via Monte Asolone nel capoluogo piemontese: a verbale scrivono di aver sequestrato “due pezzi di targa di cui uno comprendente la sigla PA e uno contenente la sigla PA e il numero 563091”. D’Ambrosio unisce i puntini e l’8 settembre del 1989 firma una relazione che sottolinea come la targa trovata a Torino (PA563091) sia composta esattamente dalle stesse cifre “avanzate” dalla creazione della targa usata nell’omicidio Mattarella (PA53-0916).

La pista delle targhe

L’intuizione di D’Ambrosio colpisce l’attenzione di Giovanni Falcone, da tempo impegnato nelle indagini sugli omicidi politici commessi in Sicilia. Il giudice istruttore Gioacchino Natoli va ad acquisire la targa di via Monte Asolone, che nel frattempo era stata inviata a Roma. Il ragionamento investigativo è semplice: se quella targa è composta da più pezzi incollati allora vuol dire che i Nar sono coinvolti nell’omicidio di Mattarella. Natoli va a Roma, si fa consegnare la targa e scopre che è integra. Ad accusare Giusva Fioravanti ci sono le dichiarazioni di suo fratello Cristiano e il riconoscimento di Irma Chiazzese, vedova Mattarella e testimone oculare del delitto. Ma la presunta prova regina rappresentata dalla targa perde consistenza: nei due anni e mezzo di vita che lo separano dalla strage di Capaci, Falcone non se ne occuperà più. Come D’Ambrosio e Natoli. Fioravanti viene processato insieme a Gilberto Cavallini per l’omicidio Mattarella ma viene assolto in via definitiva. Condannati, invece, i boss della cupola di Cosa Nostra, indicati come mandanti. Oscuri ancora oggi gli esecutori del delitto.

L’ipotesi della manina

Passa quasi un quarto di secolo e la pista delle targhe riemerge: nel 2014 Giovanni Grasso (oggi portavoce di Sergio Mattarella al Quirinale) racconta l’intuizione investigativa di D’Ambrosio nel suo libro Piersanti Mattarella, da solo contro la mafia (San Paolo). Nel 2017 Franco Roberti, all’epoca capo della Direzione nazionale antimafia, chiede al procuratore di Palermo – che era Franco Lo Voi – di verificare se quella targa fosse autentica o falsa, cioè “assemblata con i pezzi residuati dal camuffamento effettuato sulla Fiat 127 utilizzata per l’omicidio Mattarella”. Un interrogativo che da anni si pongono i migliori saggisti e giornalisti italiani. Da ultimo Report a maggio scorso rilancia l’ipotesi di Andrea Speranzoni, avvocato dei familiari delle vittime della strage di Bologna, il quale ipotizza che la prova regina della pista nera nel delitto Mattarella potrebbe essere stata sottratta da una “manina”: qualcuno avrebbe sostituito i due frammenti originari con una targa integra “salvando” così i Nar nelle indagini sull’omicidio Mattarella. A sostegno di questa tesi si cita un documento del 2004 in cui il tribunale di Roma attesta la distruzione di tutti i reperti sequestrati in via Monte Asolone nel 1982, compresi quei due pezzi di targa.

La targa è integra e autentica

La pista è stata esaminata e scartata dal procuratore Maurizio de Lucia e dai sostituti Antonio Carchietti e Francesca Dessì nella richiesta di arresto dell’ex prefetto Piritore. Prima di dedicarsi al guanto trovato il 6 gennaio 1980 sull’auto usata dai killer e poi misteriosamente sparito, i pm spazzano il campo dai vari elementi della cosiddetta “pista nera” che hanno seguito senza risultato. Il primo è appunto la targa. I magistrati spiegano di aver ritrovato negli archivi palermitani “quanto descritto nel verbale di perquisizione” dei carabinieri del 1982, e cioè “effettivamente e chiaramente” due pezzi di targa “di cui uno comprendente la sigla PA e uno contenente la sigla PA e il n. 563091”. Allora cosa è stato distrutto a Roma? Spiegano i pm: “Con il provvedimento del 15 giugno 2004, vennero distrutti tutti i reperti (tra cui altre targhe pure sequestrate nel medesimo covo) facenti parte del plico n. 110116 ad eccezione di quello recante il n. 42 che, essendo stato trasmesso al Tribunale di Palermo e acquisito al procedimento penale relativo all’omicidio del Presidente, rimase regolarmente custodito agli atti”. Semplicemente, dunque, quel verbale di distruzione dei carabinieri di Roma contiene un errore. Ipotizza la distruzione di tutti i reperti senza tener conto che quella targa PA563091 (solo quella) era da quindici anni a Palermo, portata lì da Natoli nel 1989. Nessuna distruzione, dunque. “Una volta recuperati i due pezzi di targa sequestrati in via Monte Asolone a Torino, la targa intera PA 563091 è apparsa ictu oculi integra (cioè non formata da spezzoni incollati tra loro), circostanza questa che, verosimilmente, non suggerì, ai tempi della sua originaria acquisizione, il compimento di ulteriori approfondimenti che, tuttavia, sono stati ugualmente disposti nell’ambito del presente procedimento”, continuano gli investigatori palermitani, risolvendo così un giallo vecchio di quattro decenni.

Verbali scritti male

Anche il verbale dei carabinieri che fecero irruzione nel covo dei Nar, datato 1982, era probabilmente scritto male: riporta l’esistenza di “due pezzi di targa” ma in effetti si tratta di un frammento – PA – e di una targa integra PA563091. Lo certificano anche la consulenze tecniche del perito Carmelo Calzetta, che tra il 2020 e il 2022 spiega come i reperti analizzati non presentino “punti di discontinuità, né lesioni, né fratture, né segni di alterazione e/o contraffazione e pertanto sono costituite da una unica, integra e continua lastra di materiale plastico non proveniente da assemblaggio mediante collanti o altro tipo di adesivo di pezzi originariamente distinti da altri esemplari di targhe”. Si tratta dunque di targhe “verosimilmente originali”. Insomma, per i pm non c’è dubbio: la targa sequestrata nel covo dei Nar a Torino nel 1982 è la stessa di quella esaminata la prima volta a Palermo nel 1989 e poi di nuovo 30 anni dopo. Ed è integra ed autentica. Nessuna manina, dunque.

Menti raffinatissime

Bisogna ripartire dal dato iniziale: la targa PA563091, sequestrata nel covo di Monte Asolone, apparteneva a una Renault 14TS immatricolata il 3 marzo del 1980 nel capoluogo siciliano, quindi quasi due mesi dopo il delitto Mattarella. Era intestata a Rosalia L., una donna di Palermo residente in via Ruggero Marturano, non lontano dalla zona di Resuttana-Colli. La targa di quella Renault viene rubata il 24 marzo del 1982, come risulta dalla denuncia presentata da Antonino B., il marito della donna. Chi è che compie quel furto? E per quale motivo? Ma soprattutto: come fa quella targa rubata a Palermo nel marzo del 1982 a ricomparire a Torino, in un covo dei Nar, sette mesi dopo? Eluso finora dalle inchieste giornalistiche e giudiziarie, questo è forse il punto centrale della questione. Anche se integra e autentica, infatti, la sequenza PA563091 ha comunque una straordinaria particolarità: contiene esattamente le stesse cifre “avanzate” dalla fabbricazione della targa falsa usata per l’omicidio Mattarella. Una caratteristica che a Palermo, nel 1982, era condivisa da poche altre targhe. È solo una coincidenza? O chi l’ha rubata ha scelto appositamente la Renault della signora Lombardo, consapevole che quei numeri avrebbero rimandato al delitto del presidente della Sicilia? Se fosse vera questa seconda ipotesi, c’è da chiedersi per cosa doveva servire la targa sottratta alla signora Lombardo: forse per firmare un altro omicidio eccellente? Sarebbe un’operazione da menti raffinatissime.

Il legame col delitto La Torre

Di sicuro c’è solo che il furto della targa PA563091 avviene nello stesso periodo in cui Cosa Nostra comincia a pianificare un altro delitto politico: quello di Pio La Torre, segretario del Partito Comunista in Sicilia e leader del movimento pacifista, contrario all’installazione dei missili nucleari della Nato sull’isola. Il 4 aprile 1982, 11 giorni dopo la sottrazione della targa dalla Renault, viene rubata un’altra targa, che sarà poi usata nell’agguato contro La Torre, il 30 aprile dello stesso anno. Nei giorni precedenti all’omicidio erano state rubate anche una moto Honda e una Fiat Ritmo, cioè i mezzi usati dal commando di killer. Quei furti avvengono nella zona di Resuttana Colli, non distante da dove la signora Rosalia L. aveva parcheggiato la sua auto: è possibile che a mettere a segno quei colpi siano le stesse persone? Nulla riscontra questa tesi ma è una domanda lecita. Una cosa è certa: sulla Ritmo usata dai killer di La Torre non verrò montata la targa PA563091, che invece si materializzerà sette mesi dopo e 1.500 chilometri più a nord: a Torino, nel covo dei neofascisti. Come ci è finita? All’epoca del furto Fioravanti e Mambro erano già in carcere, mentre altri esponenti di primo piano dei Nar, come Giorgio Vale, erano braccati dagli investigatori a Roma. Secondo Fabrizio Zani, neofascista e inquilino del covo di via Monte Asolone e in stretti rapporti con Fioravanti, Cavallini e Mambro, sono stati i carabinieri di Mario Mori a piazzare quella targa a casa sua. Zani sottolinea una stranezza oggettiva: in quel covo vennero compiute due perquisizioni, una il 20 ottobre e una seconda la sera del 26. L’obiettivo, secondo questa tesi non considerata credibile dai magistrati, sarebbe stato quello di indirizzare le indagini sul delitto Mattarella verso i neri. Un “impistaggio”, ma con un piano complesso e inverosimile: nell’aprile del 1982 i carabinieri – o qualcuno su loro input – avrebbero dovuto rubare la targa alla signora L.a Palermo, con l’obiettivo di piazzarla nel covo di Torino nell’ottobre successivo, prevedendo che qualcuno notasse prima o poi la compatibilità con gli spezzoni dell’omicidio Mattarella. Cosa che avverrà con la relazione D’Ambrosio, ma solo ben sette anni dopo. A quel punto scatta “l’impistaggio”, che definire raffinato è riduttivo. Va detto che Zani non è stato considerato credibile dalla corte d’Assise di Bologna che ha condannato Cavallini all’ergastolo per la strage alla stazione. La domanda dunque resta inevasa: come ha fatto la targa PA563091 rubata a Palermo alla vigilia di un importante delitto di mafia a finire nel covo dei Nar a Torino?

Quella Bmw di Cavallini finita a Palermo

C’è un altro dato che emerge dai vecchi atti delle indagini sui Nar e sull’omicidio Mattarella: la targa fa quasi il percorso inverso di una BMW 735 targata MI39213G. Rubata a Salsomaggiore nell’ottobre del 1980, avvisata a Milano negli anni successivi, è l’ennesima auto con una targa finta di questa storia. Era stata intestata in modo fasullo a Giovanni Bottacin, cioè le generalità usate da Cavallini, che per guidare quella Bmw senza dare nell’occhio l’aveva camuffata con una targa di un taxi. Quella macchina doveva servire ai neri per rapire uno dei Benetton, ma a un certo punto scompare dai radar per poi ricomparire a Palermo in mano a uomini di Cosa Nostra. La vicenda è stata ricostruita già 35 anni fa, nell’ordinanza-sentenza sui cosiddetti delitti politici, cioè quelli di Mattarella, di La Torre e di Michele Reina, segretario della Dc a Palermo, il cui caso è stato recentemente riaperto dalla procura di Palermo. “Non posso nascondere che nella mia ansia, tuttora attuale, di capire che cosa ha fatto realmente mio fratello Valerio, avrei voglia di continuare a dare il mio apporto alle indagini e al riguardo, posso soltanto dire che, ad esempio, sono ansioso di sapere come mai una Bmw di cui Cavallini aveva la disponibilità a Milano e che doveva servire per il sequestro del figlio di Benetton, è stata poi trovata a Palermo”, aveva raccontato Cristiano Fioravanti ai magistrati. Dalle indagini venne fuori che quella macchina era finita in un autoparco nel quartiere di Pallavicino, gestito da Francesco Buffa, considerato dagli inquirenti mafioso e amico di due neofascisti come Francesco Mangiameli e Alberto Volo: il primo venne assassinato da Fioravanti nel settembre del 1980, il secondo diventerà confidente di Falcone, al quale racconterà dell’esistenza di strutture paramilitari segrete poi note come Gladio. “Appare significativo il fatto che la Bmw di Milano sia finita a Palermo e – guarda caso – sia passata (nonostante la apparente distanza tra i due luoghi) dal Cavallini al Buffa, che aveva avuto rapporti sicuri col Mangiameli e col Volo. Anche in questo caso, ci si può comodamente rifugiare nel mondo delle coincidenze, però è statisticamente improbabile e contrario alla logica credere alle stesse”, scrivevano gli inquirenti palermitani. Insomma: da una parte c’è una macchina che dai neofascisti a Milano finisce in mano ai mafiosi in Sicilia, dall’altra una targa scomparsa a Palermo che si materializza in un covo di neri a Torino.

Neri e mafiosi

Oltre a essere amico dei estremisti di destra, Buffa era anche considerato un uomo d’onore di Resuttana, il mandamento dei Madonia, potente famiglia mafiosa con alcune peculiarità. “Vantavano dei rapporti con alcuni terroristi di destra, mi parlavano pure di rapporti che avevano con esponenti dei servizi segreti”, ha messo a verbale, tra gli altri, il pentito Francesco Onorato. A vantare legami coi neri e con le spie era soprattutto Nino Madonia, uno dei boss più enigmatici della famiglia. Killer specializzato in delitti eccellenti, insieme a Giuseppe Lucchese è recentemente finito indagato nell’ultima inchiesta della procura di Palermo sul delitto Mattarella. Di un possibile coinvolgimento di Madonia nell’omicidio dell’allora presidente della Sicilia parlava già la corte d’Assise d’Appello di Palermo che assolse Fioravanti nel 1998, sottolineando l’esistenza di una presunta somiglianza fisica tra il mafioso e il terrorista nero all’epoca dei fatti. Per anni il dualismo Fioravanti-Madonia ha tolto il sonno a investigatori, magistrati e giornalisti che si sono occupati del caso. Meno complessa, invece, l’indagine che nel 2004 ha portato Madonia e Lucchese a essere condannati come esecutori del delitto La Torre.

La compenetrazione

L’omicidio del leader comunista non è legato a quello di Mattarella solo dal punto di vista investigativo. I due politici, infatti, avevano un rapporto solido. Dopo il delitto Mattarella, La Torre intervenne alla Camera riportando un dialogo avuto con l’allora presidente della Regione a proposito dell’assassinio del giudice Cesare Terranova e dell’arrivo in Sicilia di Michele Sindona. “Ti rendi conto che questo è un sistema di potere che va al di là della Sicilia? Io penso che ci sia ormai un rapporto tra la mafia e il terrorismo”, sono le parole che avrebbe pronunciato il leader del Pci. Mattarella avrebbe risposto: “Io penso a qualcosa di peggio”. Di rapporti tra mafia e terrorismo parla pure Giovanni Falcone nel 1988, quando riferisce alla Commissione Antimafia proprio delle indagini sul delitto Mattarella: “Si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”. Chi all’epoca lavorava con Falcone racconta che il giudice era molto interessato a questa ipotesi della compenetrazione tra neri e mafiosi nei delitti che hanno segnato la storia del nostro Paese. Oggi una targa rubata a Palermo alla vigilia del delitto La Torre, trovata in un covo dei Nar a Torino e indicata per anni come la prova regina del delitto Mattarella potrebbe illuminare di una luce nuova i rapporti tra mafiosi e neofascisti sullo sfondo dei misteri italiani.

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