Pubblichiamo di seguito, per il suo alto valore culturale e civile e per la testimonianza che esprime, il testo dell’introduzione svolta il 6 ottobre 2025 dal rettore dell’Università per Stranieri di Siena, Tomaso Montanari, nella cerimonia di conferimento della laurea magistrale honoris causa in Scienze linguistiche e comunicazione interculturale a Suad Amiry, scrittrice e architetta palestinese, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. Mancano, nel testo, solo i saluti iniziali, omessi per ragioni di spazio. (la redazione)
«Oggi i
giovani liberi si sollevano nelle università,
e lanciano la loro voce nel vento.
Oggi vediamo cuori sgozzati come i nostri,
e piangono per le madri che non hanno trovato tempo per piangere.
i giovani liberi si sollevano nelle università:
e non verrà promosso chi non supererà l’esame di umanità.
Oggi il mondo mostra una certa giustizia,
una certa umanità,
il loro grido è la mia voce
e il loro sangue è il mio
bolle come la mano di una bambina amputata sulla terra.
Siamo un buon mondo, governato da demoni bianchi
Perché non diventiamo un solo mondo?
Perché non cresciamo insieme?
La mia voce, la vostra voce e il mio sangue,
se accresce la vostra rabbia, ora è vostro.
Insegnate ai vostri figli che il corpo della terra è uno,
che i confini della terra sono un’invenzione
e chi non rifiuta di uccidere sarà ucciso facilmente.
Fermate il fuoco sui nostri petti, fermate il fuoco
perché possiamo seminare
la nostra terra e nutrirvi».
Buongiorno,
e benvenuta sia ogni persona che oggi è convenuta in questa Aula Magna.
[…] Saluto in modo tutto speciale la professoressa Suad Al Amiry, che oggi
riceverà il massimo riconoscimento che il nostro ateneo può conferire, deciso
dagli organi accademici della Stranieri, con la piena e formale approvazione
del Ministero dell’Università e della ricerca. Vi ho salutato e accolto
con le parole di Haidar al Ghazali, giovane poeta palestinese, nato a Gaza nel
2004, e lì tuttora imprigionato: in attesa della liberazione, o della
morte.
La nostra
Università per stranieri ha uno statuto speciale. La sua missione è – cito lo
statuto – quella di «promuovere e favorire la dimensione internazionale della
ricerca e della formazione, i processi di incontro, dialogo, mediazione fra
persone con lingue e culture diverse, nell’intento di favorire la civile e pacifica
convivenza». Per questo pensiamo – con Haidar al Ghazali, che
riconosciamo come giovane maestro, suo malgrado – che «non verrà promosso chi
non supererà l’esame di umanità». Non verrà promosso: non importa se
professore, o rettore. Perché è questo l’unico, decisivo, esame della nostra
vita.
È per questo
motivo che, il 26 giugno 2024, la nostra comunità accademica, prima in una
assemblea generale e poi con un voto unanime del Senato accademico, ha
approvato e divulgato un articolato documento su ciò che Israele sta
compiendo a Gaza, un documento in cui tra l’altro si legge che la Stranieri
di Siena:
«Condanna
con fermezza la smisurata rappresaglia perpetrata dallo Stato di Israele a Gaza
in risposta all’esecrabile e ingiustificabile eccidio compiuto da Hamas il 7
ottobre 2023 – nella consapevolezza che questi eventi sono stati preceduti da
una lunga storia di conflitti, nel corso dei quali lo Stato israeliano ha
attuato una crescente politica di occupazione territoriale di lunga durata,
repressione sanguinosa e discriminazione nei confronti del popolo palestinese.
La punizione collettiva che Israele sta attuando dal 7 ottobre ha già provocato
circa 40.000 morti, la maggior parte dei quali sono donne e bambini: un
massacro che non ha nulla a che fare con la difesa di Israele, e che violando
sistematicamente il diritto internazionale si configura come atto di
terrorismo. L’azione a Gaza ha comportato e comporta, inoltre, l’imposizione di
spostamenti di massa della popolazione della Striscia e una sistematica distruzione
di abitazioni, strutture e infrastrutture civili, scuole e monumenti, che
favorisce l’insorgenza di malattie e contagi, e rende di fatto impossibile la
vita quotidiana di oltre due milioni di persone, tendendo ad annullarle come
comunità riconoscibile. Condivide l’ordinanza della Corte internazionale di
Giustizia dell’Aja (26 gennaio 2024), per cui è ‘plausibile’ che questo
massacro stia assumendo i contorni del genocidio, cioè del volontario, tentato
annientamento materiale e culturale del popolo palestinese. E plaude alla Corte
Penale internazionale dell’Aja per aver spiccato mandati di arresto contro i
responsabili massimi di Hamas e del Governo di Israele. Chiede l’immediato
cessate il fuoco, la liberazione di tutti gli ostaggi e accertamenti rapidi ed
efficaci dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità perpetrati da
entrambe le parti. Rigetta con forza ogni tentativo di emarginare nella
categoria infamante di ‘antisemitismo’ le proteste contro la politica di guerra
dello Stato di Israele, e di criminalizzare in questo modo un dissenso diffuso,
al contempo indebolendo il significato stesso del concetto di ‘antisemitismo’».
Fin qui, il
nostro documento. Il genocidio in corso a Gaza rappresenta la negazione
più assoluta di ciò per cui la nostra università esiste, cioè la pacifica
convivenza tra i popoli. Nelle conversazioni radiofoniche sul processo ad
Adolf Eichmann a Gerusalemme, Hannah Arendt – alla quale, in questo ateneo, è
dedicata un’aula – riflette sul fatto che ogni genocidio (e
naturalmente lei si riferisce alla Shoah, cui oggi dobbiamo atrocemente
aggiungere il genocidio dei palestinesi) costituisce un crimine contro
la diversità umana, quella pluralità senza la quale i termini “umanità” e
“genere umano” non avrebbero senso. Di fronte alla Shoah, Arendt afferma
che nessuno gode della prerogativa che Eichmann si era concesso: quella di
decidere con chi abitare la Terra. La Terra con la maiuscola: e oggi la terra
di Palestina, nella quale Israele vuole vivere senza il popolo palestinese,
condannato all’eliminazione totale. Per questo oggi, stare con il popolo
palestinese – esporre la sua bandiera in ogni sede della Stranieri per
decisione del Senato accademico, e oggi farlo in questa aula magna; o indossare
la kefiah, come oggi faccio io – ha il significato di un manifesto, umano e
accademico: perché «non verrà promosso chi non supererà l’esame di umanità».
Dopo di me,
prenderà la parola la dottoressa Aya Ashour, che dopo un anno e mezzo di
tentativi, la nostra piccola università è riuscita a fare esfiltrare da Gaza, alla fine nello scorso giugno, e
che oggi fa parte della nostra comunità accademica. Carissima Aya: benvenuta
nella nostra comunità, la tua presenza è un segno di speranza, e un atto di
ribellione contro il genocidio del tuo popolo! Per la sua uscita da Gaza devo
ringraziare il ministro degli Affari esteri, Antonio Tajani, la ministra
dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini: li devo ringraziare perché
in questo caso hanno fatto il loro preciso dovere istituzionale. E con loro
sono lieto di ringraziare il capo dell’unità di crisi della Farnesina Nicola
Minasi, e l’Ambasciatore d’Italia ad Amman, Luciano Pezzotti. E devo
ringraziare anche Paola Caridi, che nello scorso gennaio ha inaugurato questo
anno accademico con una splendida lectio su Gaza, e che in
questi mesi permette al discorso pubblico italiano di avere notizie,
informazioni, chiavi di lettura che nessun altro, in Italia, sa dare; e che in
tutta la vicenda di Aya è stata una preziosa consigliera e ha avuto un ruolo,
discreto quanto decisivo.
Per questa
solenne cerimonia abbiamo scelto la data di oggi, 6 ottobre: perché uno dei
compiti dell’università è dire la verità. E in questo caso, la verità
storica è che la storia di questo genocidio non comincia affatto il 7 ottobre
2023: c’è stato un ‘6 ottobre’, che risale fino al 1967, fino al 1948, fino
all’Ottocento. E nessuna rozza propaganda può cancellare la storia.
Carlo
Ludovico Ragghianti, storico dell’arte e presidente del Comitato di Liberazione
Nazionale che liberò Firenze, ha scritto che il compito di chi insegna
all’università è «assumere e mantenere ad ogni costo e in ogni caso la
responsabilità dell’intervento pubblico dello spirito critico»; e aggiungeva:
«Non posso ricordare senza commozione come Delio Cantimori percepisse con
chiarezza di storico delle eresie questo atteggiamento, donandomi – nel 1934,
al ritorno da un viaggio nella Germania già nazificata – la riproduzione del
gufo disegnato dal Dürer, con questo commento: Mon seul crime est d’y voir
claire la nuit». Ecco perché un gufo, una civetta, è il simbolo delle
università. Oggi, vedere nella notte significa vedere – con la storia e
con il diritto internazionale – che, sì, questo è un genocidio.
La storia,
il diritto internazionale. E accanto a loro, lo studio del patrimonio
culturale. Sarà, in questa cerimonia, il professor Giuseppe Marrani, direttore
del dipartimento di studi umanistici, a leggere la motivazione della
laurea honoris causa a Suad Amiry. E saranno gli archeologi e
studiosi del patrimonio culturale Agnese Fusaro e Jacopo Tabolli a pronunciarne
la tradizionale laudatio. Ma permettete anche a me di dire una
parola sulle ragioni di questo alto riconoscimento, alla terza donna che – dopo
Nadia Fusini e Ludmilla Petrusevskaja – riceve la laurea honoris causa nel
corso di questo mandato rettorale, in questa Aula Magna dedicata a un’altra
donna, Virginia Woolf. Molti di noi conoscono Suad Amiry attraverso i suoi
bellissimi libri, pubblicati in Italia da Feltrinelli, e oggi da Mondadori, per
uno dei quali ha vinto il Premio Viareggio, nel 2004. Una scrittura profonda e
ironica, che restituisce l’immagine di una intellettuale cosmopolita con i
piedi profondamente piantati nel dolore, ma anche nella gioia, del suo popolo e
della sua terra. Leggendola, affiorano alle labbra le parole celebri di Edward
Said, questo grandissimo intellettuale, che era anche palestinese, per il
quale «la scrittura è l’ultima resistenza che abbiamo contro le
pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità».
Resistenza: sumud, in arabo. Una parola che abbiamo imparato a
conoscere, e che è stata scelta come bandiera da una flotta di pace, una
Flotilla globale, nel senso di umana, che è stata capace di far sentire al
popolo di Gaza la vicinanza del mondo. E anche di fare cadere, una ad una, le
maschere dei nostri cosiddetti ‘valori occidentali’. Costringendo qualcuno a
dire in chiaro che «il diritto internazionale conta, ma fino a un certo punto».
Suad Amiry
conosce bene, e dall’interno, questa storia: ha lavorato incessantemente alla
pace, lungo una intera vita: e per tre anni dal 1991 al 1993, ha
fatto parte della delegazione palestinese per la trattativa di pace a
Washington. Ma il suo impegno è stato prezioso non solo per il suo popolo: lo è
stato e lo è anche per noi occidentali, così sicuri della nostra moralità, dei
nostri valori. Con grande schiettezza, Amiry ha così, recentemente risposto, a
un intervistatore che le chiedeva condanne, prese di distanza, prove di
accettabilità morale: «Non dateci lezioni di moralità, grazie. Con
tutte le vittime civili causate dall’Occidente in tante guerre lontane e
recenti non mi sento di dover prendere lezioni di moralità da voi occidentali».
Ecco, queste parole, nella loro chiara fermezza, coincidono con la bussola di
questa università: dove non pensiamo, e non insegniamo, che qualcuno abbia un
primato morale, o culturale. E dove invece insegniamo che il pensiero
critico va rivolto, innanzitutto, verso la propria cultura, la propria
tradizione, il proprio mondo. Un metodo critico oggi drammaticamente
urgente, ora che – uso le parole di un altro grande scrittore, Omar el
Akkad, sul genocidio di Gaza – «considerando anche lo spargimento di sangue che
scatenerà in futuro, quello che è successo sarà ricordato come il
momento in cui milioni di persone hanno guardato all’Occidente, all’ordine
basato sulle regole, al guscio del liberalismo e a come è asservito al
capitalismo, e hanno detto: “Non voglio averci più niente a che fare”». E
noi, noi che dell’Occidente siamo parte, abbiamo bisogno di ascoltare le voci
degli altri, imparare l’umiltà, accettare le critiche. Abbiamo bisogno di Suad
Amiry: ne abbiamo un bisogno vitale.
Accanto al
suo lavoro di scrittrice, l’architetta Suad Amiry ha costruito negli anni il
più importante progetto di catalogazione e conoscenza del patrimonio culturale
palestinese. Oggi una parte di quel patrimonio culturale non esiste più. Il
fine di questo genocidio, infatti, è non solo cancellare il popolo
palestinese, ma il nesso di quel popolo con la sua terra. E il patrimonio
culturale è la parte concreta, tangibile – e dunque fragile, ed esposta – di
questo nesso spirituale e storico. La Nakba è una catastrofe che travolge
umani, animali, piante (come Paola Caridi ci ha insegnato) e anche
testimonianze storiche, archivi, monumenti, opere d’arte, villaggi, pietre. Lo
fa secondo un piano scellerato, e a suo modo chiaro e razionale: nascondere che
questo sia stato. Noi, in Italia, sappiamo cosa vuol dire essere una nazione
per via di cultura molto prima di essere uno Stato unitario. In qualche modo
meglio di altri, possiamo capire quanto sia importante che il patrimonio
culturale palestinese sopravviva. Per testimoniare che, no: quella non era una
terra senza popolo. Suad Amiry lo ha fatto. Ha dedicato una vita a costruire
depositi di memoria: depositi che i missili e i droni israeliani non possono
distruggere. Ha salvato il passato, perché esista un futuro. Per questo oggi la
vogliamo proporre come esempio alle nostre studentesse e ai nostri studenti:
perché la conoscenza non serve a nulla se non è al servizio di un progetto di
umanità. Perché «non verrà promosso chi non supererà l’esame di umanità».
Grazie,
professoressa Amiry: per aver accettato questa laurea, per aver accolto
l’invito a fare parte della nostra comunità. Noi continueremo a parlare di Gaza, a denunciare il
genocidio, a difendere le ragioni del popolo palestinese: a studiare ciò che ci
permetta, lo speriamo, di superare l’esame di umanità. E lo faremo per una
ragione semplice: perché è la cosa giusta.
Concludo,
con un pensiero rivolto a chi non c’è. In questi giorni, e in queste notti, è
continuo il filo delle lettere con Gaza. Lettere firmate «con profondo rispetto
e disperata speranza». Lettere che non credo che dimenticherò mai, e che non mi
permettono di pensare ad altro, e spesso nemmeno di dormire. E, del resto, se
da Auschwitz fossero uscite lettere, video, telefonate, quale essere davvero umano
avrebbe potuto pensare ad altro? Così vorrei concludere leggendovi una lettera
di Abdallah Nasser Alkafarna, il messaggero dei 152 ragazzi che hanno avuto la
borsa Iupals, con cui siamo in continuo contatto. È lui che ha redatto la
lettera aperta al ministro Tajani che ho consegnato all’Ansa, e che ha
sbloccato la situazione. Abod, il messaggero, è ancora a Gaza, sull’orlo della
morte e della disperazione. E un giorno mi ha scritto:
«Tomaso, so
che sei molto impegnato e che leggi centinaia di e-mail ogni giorno […] ma
volevo scriverti come se fossi un amico. Non so nemmeno perché ti sto scrivendo
adesso. Forse perché in passato mi hai ascoltato, o perché mi hai fatto
sentire, anche solo per un momento, che non siamo solo numeri maledetti su uno
schermo […] ma studenti reali con sogni e un futuro. Un tempo mi confidavo con
i miei amici, ma ora sono morti. Passavo il tempo con la mia gatta, ma anche
lei non c’è più. La mia casa, il mio letto, la stanza dove mi sentivo al sicuro
[…] tutto è stato distrutto davanti ai miei occhi. Quindi ti scrivo, Tomaso.
Non perché tu possa sistemare tutto, ma perché non so dove altro riversare
questo dolore. Ti prego… continua a parlare di noi. Forse domani qualcosa
cambierà. Forse, in questa settimana piena di paura e sradicamento, si aprirà
una porta. Sto perdendo la speranza, sto perdendo persino l’energia per
sognare… ma quando ti scrivo mi ricordo che là fuori c’è ancora qualcuno che ci
vede».
Abood, oggi
la promessa che ti ho fatto, te la facciamo tutti, in questa Aula Magna. Questa
aula in cui speriamo di abbracciarti presto. Non smetteremo di parlare di te,
di voi. Continueremo a parlare di Gaza, per la Palestina, in tempo
opportuno e in tempo non opportuno. Perché, no: «non verrà promosso
chi non supererà l’esame di umanità».
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