Le violazioni
di Israele coperte dagli Stati - Micaela
Frulli
(dal Manifesto del 2/10/25)
Ogni
analisi relativa alla Global Sumud Flottiglia (Gsf) deve partire dalla
situazione giuridica delle acque in cui le imbarcazioni che la compongono
stanno navigando. Si trovano in acque internazionali, dove il diritto
internazionale non consente a Israele né a nessun altro Stato di intercettarle:
vige la libertà di navigazione ai sensi dell’art. 87 della Convenzione Onu sul
diritto del mare (Cdm), che ha codificato una consuetudine preesistente e
vigente anche per gli Stati che non sono parti della Cdm, come Israele. Il
diritto considera il mare internazionale come uno spazio comune utilizzabile
esclusivamente a scopi pacifici e che non può essere sottoposto alla sovranità
di alcuno Stato (artt. 88 e 89 della Cdm). Obiettivo della Gsf è raggiungere le
acque antistanti Gaza, che non possono in alcun modo essere considerate acque
territoriali israeliane. Israele non ha titolo di sovranità su di esse, come
non ne ha sul territorio di Gaza e sullo spazio aereo e mantiene su tali spazi
un’occupazione che la Corte internazionale di giustizia (Cig) ha definito
illegale a tutti gli effetti. Solo la Palestina ha diritti sovrani al largo
della Striscia, in base all’art. 2 della Cdm, cui ha aderito nel 2015,
notificando l’estensione del proprio mare territoriale fino a 12 miglia
nautiche dalla costa, come previsto dal trattato. Sul mare territoriale vige il
diritto di passaggio inoffensivo delle navi che non recano pregiudizio al buon
ordine e alla sicurezza dello Stato costiero.
Al quadro
di base delineato dal diritto del mare, deve aggiungersi che Israele, oltre ad
occupare illegalmente il territorio di Gaza, ha imposto un blocco navale da
lungo tempo uscito dai confini del diritto internazionale umanitario, poiché
arreca danni eccessivi alla popolazione civile rispetto al vantaggio militare
concreto e diretto derivante dal blocco stesso (par. 102 del Manuale di San
Remo sul diritto applicabile ai conflitti armati in mare, che codifica il
diritto consuetudinario in materia). Il diritto umanitario stabilisce inoltre
che, se la popolazione civile del territorio sottoposto al blocco non può avere
accesso al cibo e altri beni di prima necessità, la parte che impone il blocco
deve consentire il libero passaggio degli aiuti umanitari (parr. 103-104
Manuale di San Remo).
È chiaro
dunque che in base al diritto internazionale le imbarcazioni della Gsf non
stanno violando alcuna regola di diritto internazionale, ma agiscono nel pieno
rispetto del diritto del mare e del diritto internazionale umanitario,
facendosi carico dell’attuazione di obblighi che gli Stati, Israele in primo
luogo e gli altri a seguire, non stanno rispettando.
C’è da
chiedersi perché gli Stati e le organizzazioni internazionali, quasi
all’unanimità, facciano appello al rispetto da parte della Gsf di un blocco navale
che ha superato qualsiasi confine di legalità. C’è da chiedersi perché non si
fa invece pressione su Israele per porre fine al blocco illegale e per
garantire l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione civile, come prevede
il diritto. Gli Stati, soprattutto quelli di cui le navi della Gsf battono
bandiera, hanno l’obbligo di fare tutto quanto è possibile per proteggere una
missione umanitaria che agisce nel pieno rispetto delle regole per raggiungere
obiettivi tutelati dal diritto internazionale.
Stupisce
ancor più questo atteggiamento se si considera che Israele sta agendo anche in
violazione delle ordinanze cautelari emesse dalla Cig nel 2024 nell’ambito del
procedimento intentato dal Sudafrica contro Israele per violazione della
Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.
Tali ordinanze impongono a Israele di adottare misure immediate ed effettive
per garantire l’assistenza umanitaria a Gaza e impedire che la Gsf giunga a
destinazione viola anche questi obblighi.
Qualcuno
evoca la presunta legalità del blocco navale in base al rapporto della
Commissione d’inchiesta nominata nel 2010 dal segretario generale Onu sul raid
israeliano a danno della nave Mavi Marmara (Rapporto Palmer). Quel rapporto, in
condizioni assai diverse da quelle odierne, stabilì che il blocco navale
israeliano era lecito, pur condannando l’uso sproporzionato della forza da
parte delle forze israeliane nell’abbordaggio della nave, che provocò dieci
morti e molti feriti fra gli attivisti a bordo. Il Rapporto Palmer, però, già
allora fu criticato da più parti e contraddetto dal Rapporto della Commissione
d’inchiesta del Consiglio diritti umani dell’Onu (2010), che si espresse nel
senso di una totale illiceità del blocco navale, qualificandolo come una forma
di punizione collettiva in violazione dell’art. 33 della IV Convezione di
Ginevra.
Uno
scenario di grave illegalità si configura nel momento in cui le imbarcazioni
della Gsf sono state intercettate e attaccate, illegalità non certo
attribuibile a chi porta avanti le ragioni del diritto (e dell’umanità) su
quelle barche.
La missione della Flotilla mi ha fatto
riflettere sul concetto di martirio – Luciano Casolari
Global Sumud Flotilla evoca in me più o meno coscientemente, ma con
forti riverberi inconsci, il concetto di martirio. Quando
parlo di inconscio intendo una parte della mente che opera al di fuori della
coscienza che però fornisce alla parte mentale che conosciamo spunti emotivi,
sensitivi e brandelli di ragionamento sfuggenti.
Cosa è il martirio? Si tratta di una parola spesso usata a
sproposito ma nella sua vera essenza, derivante dal greco, trae il significato
dai termini testimone e testimonianza. Chi si sottopone al martirio lo fa per
testimoniare una verità. I punti cruciali che risultano necessari sono: 1. Che
la persona o le persone siano consapevoli del fatto che attraverso la loro
testimonianza esiste il rischio o la certezza della morte, 2. Che
accettino questo rischio e anzi rifiutino ogni possibilità di evitarlo se
questo significa rinunciare alla propria verità, 3. Che
effettivamente inducano gli aggressori a ucciderli perdendo in questo modo,
attraverso questa aggressione, la loro forza morale. Il martire non si suicida
ma si mette nelle mani del possibile carnefice per indurlo a mostrare il suo
volto brutale e disumano. I martiri fanno molta paura ai potenti perché,
smascherandoli, offrono al popolo la loro vera immagine. Spesso avviene che il
popolo, in qualche modo, segua la bandiera issata dal martire per togliere il
potere al potente che lo ha martirizzato.
Il martirio per eccellenza nella nostra cultura è quello di Gesù di Nazaret
che conosce perfettamente il suo destino, rifiuta le scappatoie che Ponzio
Pilato gli offre per cercare una via di fuga e, in questo modo, si impone come
bandiera contro la cattiveria degli uomini per portare la sua testimonianza.
Nelle parole
del capo dello Stato italiano e di molti commentatori mi è parso di udire di
nuovo esortazioni ragionevoli di moderni Pilato che chiedono al possibile
martire: “Ma chi te lo fa fare? Troviamo una mediazione, un qualche tipo di
soluzione”. Purtroppo a questo punto della vicenda una qualsivoglia ragionevole
mediazione tipo fornire gli aiuti al vescovo cattolico significherebbe
perdere il valore di testimonianza. I detrattori sono pronti a schernire, ad
affermare “Vedete i grandi valori dove approdano? Di fronte alla fermezza di
Israele si sono squagliati”. E invece io ho timore per gli uomini e le donne
intercettati su quelle imbarcazioni.
Mi rendo
conto che dal mio studio, al sicuro, è facile discettare di martirio, di
testimonianza e di verità. Molto arduo essere stati su quelle navi con
i timori, le angosce e i dubbi che hanno attanagliato i partecipanti.
Non so come
andrà a finire questa vicenda ma sento, anche qui come percezione non del tutto
cosciente, che la situazione è complessa come quando il giovane sconosciuto
definito successivamente “Tank man” sfidò in camicia bianca un
carro armato in piazza Tienanmen nel 1989. In quel caso lui non
venne travolto ma nei giorni successivi migliaia di manifestanti, fra cui forse
anche lui, furono uccisi.
Quando in
ballo non c’è più solo la nostra vita ma una bandiera, una testimonianza di
verità, diventa difficile trovare una soluzione per cui ognuno di noi può solo
chiudersi in preghiera. La preghiera sarà diversa a seconda che vi sia una
fede o un anelito di verità ma mi pare l’unica speranza umana in un
momento come questo in cui la follia pare prevalere. La preghiera non è un atto
sterile di richiesta ma una fonte concreta di cambiamento del nostro animo che
ci induce come collettività a prendere delle posizioni che possono mutare il
corso della storia.
Gaza: il punto in cui siamo - Tomaso Montanari
«Il diritto internazionale è importante, ma fino a un certo punto» (Antonio
Tajani, ministro degli esteri della Repubblica italiana, primo ottobre 2025).
Qual è, questo «certo punto»?
È un punto sulla carta geografica: quello in cui la Marina militare
israeliana assalta le navi disarmate e civili della Global Sumud Flotilla, che
portano aiuti a una popolazione sottoposta a genocidio e sterminata con l’arma
della fame. È un punto: un punto delle acque internazionali in cui i banditi si
fanno polizia, e tolgono beni e libertà a naviganti incolpevoli.
Ed è il punto di una inversione: quello in cui chi viola la legge e
usa la violenza è presentato come il garante dell’ordine, e chi rispetta scrupolosamente
la legge e usa la nonviolenza è presentato come un eversore dell’ordine. Il
punto in cui i criminali sequestrano gli onesti. E poi chiedono loro di
firmare confessioni in cui affermano di aver compiuto un crimine contro il
legittimo blocco navale israeliano. Confessioni estorte sotto minaccia e in
detenzione illegale: lo ha fatto per secoli l’Inquisizione contro gli ebrei. Oggi
lo fa Israele alle donne e agli uomini della Flotilla.
È il punto in cui, in televisione, gli opinionisti dicono che
quelle sono «acque israeliane»: mentendo per la gola.
È il punto in cui Sergio Mattarella invita la Flotilla a lasciare gli aiuti
a Cipro, cioè a non entrare nelle acque, internazionali o palestinesi, in cui
Israele avrebbe potuto «porre a rischio l’incolumità di ogni persona». Che
sarebbe come dire a cittadini di una città siciliana di non manifestare in un
quartiere controllato da Cosa Nostra: perché quelli sparano. È il punto
in cui Giorgia Meloni, come sempre con la bava alla bocca, si scaglia contro le
vittime e si schiera con gli assassini. Il punto in cui la propaganda
israeliana accusa la Flotilla di dipendere da Hamas, e i giornali di propaganda
della destra fascista italiana rilanciano questa immondizia.
È il punto in cui inizia a vigere la legge della forza, il diritto di
terminare lo sporco lavoro. Il diritto di Israele di finire in pace un
genocidio. È il punto nel quale sono i bianchi a uccidere i non bianchi: e
dunque tutto va bene. È il punto in cui i palestinesi non sono degni nemmeno di
sedere al tavolo delle trattative: perché subumani, terroristi, colpevoli.
È il punto in cui si progetta un protettorato coloniale retto da criminali
di guerra, e si chiama «piano di pace». È il punto in cui, se non si accetta
questo piano, Israele può portare a termine il lavoro: finché non ne rimanga
nessuno, di palestinesi.
È il punto in cui un popolo insorge in pace, e chi lo governa prova a
proibire lo sciopero generale, spera negli incidenti di piazza,
spinge la polizia agli scontri.
È il punto in cui siamo. Il punto in cui la maschera della civiltà e del
diritto cadono, e si mostra il volto mostruoso dell’Occidente. Il punto in cui sono
sempre più vere le parole scritte da Omar el Akkad sul genocidio di Gaza:
«Considerando anche lo spargimento di sangue che scatenerà in futuro, quello
che è successo sarà ricordato come il momento in cui milioni di persone hanno
guardato all’Occidente, all’ordine basato sulle regole, al guscio del
liberalismo e a come è asservito al capitalismo, e hanno detto. Non voglio
averci più niente a che fare». Ecco qual è il punto in cui «il diritto
internazionale è importante, ma fino a un certo punto».
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