sabato 4 ottobre 2025

La missione della Flotilla

 



Le violazioni di Israele coperte dagli Stati - Micaela Frulli

(dal Manifesto del 2/10/25)

Ogni analisi relativa alla Global Sumud Flottiglia (Gsf) deve partire dalla situazione giuridica delle acque in cui le imbarcazioni che la compongono stanno navigando. Si trovano in acque internazionali, dove il diritto internazionale non consente a Israele né a nessun altro Stato di intercettarle: vige la libertà di navigazione ai sensi dell’art. 87 della Convenzione Onu sul diritto del mare (Cdm), che ha codificato una consuetudine preesistente e vigente anche per gli Stati che non sono parti della Cdm, come Israele. Il diritto considera il mare internazionale come uno spazio comune utilizzabile esclusivamente a scopi pacifici e che non può essere sottoposto alla sovranità di alcuno Stato (artt. 88 e 89 della Cdm). Obiettivo della Gsf è raggiungere le acque antistanti Gaza, che non possono in alcun modo essere considerate acque territoriali israeliane. Israele non ha titolo di sovranità su di esse, come non ne ha sul territorio di Gaza e sullo spazio aereo e mantiene su tali spazi un’occupazione che la Corte internazionale di giustizia (Cig) ha definito illegale a tutti gli effetti. Solo la Palestina ha diritti sovrani al largo della Striscia, in base all’art. 2 della Cdm, cui ha aderito nel 2015, notificando l’estensione del proprio mare territoriale fino a 12 miglia nautiche dalla costa, come previsto dal trattato. Sul mare territoriale vige il diritto di passaggio inoffensivo delle navi che non recano pregiudizio al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero.

Al quadro di base delineato dal diritto del mare, deve aggiungersi che Israele, oltre ad occupare illegalmente il territorio di Gaza, ha imposto un blocco navale da lungo tempo uscito dai confini del diritto internazionale umanitario, poiché arreca danni eccessivi alla popolazione civile rispetto al vantaggio militare concreto e diretto derivante dal blocco stesso (par. 102 del Manuale di San Remo sul diritto applicabile ai conflitti armati in mare, che codifica il diritto consuetudinario in materia). Il diritto umanitario stabilisce inoltre che, se la popolazione civile del territorio sottoposto al blocco non può avere accesso al cibo e altri beni di prima necessità, la parte che impone il blocco deve consentire il libero passaggio degli aiuti umanitari (parr. 103-104 Manuale di San Remo).

È chiaro dunque che in base al diritto internazionale le imbarcazioni della Gsf non stanno violando alcuna regola di diritto internazionale, ma agiscono nel pieno rispetto del diritto del mare e del diritto internazionale umanitario, facendosi carico dell’attuazione di obblighi che gli Stati, Israele in primo luogo e gli altri a seguire, non stanno rispettando.

C’è da chiedersi perché gli Stati e le organizzazioni internazionali, quasi all’unanimità, facciano appello al rispetto da parte della Gsf di un blocco navale che ha superato qualsiasi confine di legalità. C’è da chiedersi perché non si fa invece pressione su Israele per porre fine al blocco illegale e per garantire l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione civile, come prevede il diritto. Gli Stati, soprattutto quelli di cui le navi della Gsf battono bandiera, hanno l’obbligo di fare tutto quanto è possibile per proteggere una missione umanitaria che agisce nel pieno rispetto delle regole per raggiungere obiettivi tutelati dal diritto internazionale.

Stupisce ancor più questo atteggiamento se si considera che Israele sta agendo anche in violazione delle ordinanze cautelari emesse dalla Cig nel 2024 nell’ambito del procedimento intentato dal Sudafrica contro Israele per violazione della Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Tali ordinanze impongono a Israele di adottare misure immediate ed effettive per garantire l’assistenza umanitaria a Gaza e impedire che la Gsf giunga a destinazione viola anche questi obblighi.

Qualcuno evoca la presunta legalità del blocco navale in base al rapporto della Commissione d’inchiesta nominata nel 2010 dal segretario generale Onu sul raid israeliano a danno della nave Mavi Marmara (Rapporto Palmer). Quel rapporto, in condizioni assai diverse da quelle odierne, stabilì che il blocco navale israeliano era lecito, pur condannando l’uso sproporzionato della forza da parte delle forze israeliane nell’abbordaggio della nave, che provocò dieci morti e molti feriti fra gli attivisti a bordo. Il Rapporto Palmer, però, già allora fu criticato da più parti e contraddetto dal Rapporto della Commissione d’inchiesta del Consiglio diritti umani dell’Onu (2010), che si espresse nel senso di una totale illiceità del blocco navale, qualificandolo come una forma di punizione collettiva in violazione dell’art. 33 della IV Convezione di Ginevra.

Uno scenario di grave illegalità si configura nel momento in cui le imbarcazioni della Gsf sono state intercettate e attaccate, illegalità non certo attribuibile a chi porta avanti le ragioni del diritto (e dell’umanità) su quelle barche.

da qui

 

La missione della Flotilla mi ha fatto riflettere sul concetto di martirio – Luciano Casolari

Global Sumud Flotilla evoca in me più o meno coscientemente, ma con forti riverberi inconsci, il concetto di martirio. Quando parlo di inconscio intendo una parte della mente che opera al di fuori della coscienza che però fornisce alla parte mentale che conosciamo spunti emotivi, sensitivi e brandelli di ragionamento sfuggenti.

Cosa è il martirio? Si tratta di una parola spesso usata a sproposito ma nella sua vera essenza, derivante dal greco, trae il significato dai termini testimone e testimonianza. Chi si sottopone al martirio lo fa per testimoniare una verità. I punti cruciali che risultano necessari sono: 1. Che la persona o le persone siano consapevoli del fatto che attraverso la loro testimonianza esiste il rischio o la certezza della morte, 2. Che accettino questo rischio e anzi rifiutino ogni possibilità di evitarlo se questo significa rinunciare alla propria verità, 3. Che effettivamente inducano gli aggressori a ucciderli perdendo in questo modo, attraverso questa aggressione, la loro forza morale. Il martire non si suicida ma si mette nelle mani del possibile carnefice per indurlo a mostrare il suo volto brutale e disumano. I martiri fanno molta paura ai potenti perché, smascherandoli, offrono al popolo la loro vera immagine. Spesso avviene che il popolo, in qualche modo, segua la bandiera issata dal martire per togliere il potere al potente che lo ha martirizzato.

Il martirio per eccellenza nella nostra cultura è quello di Gesù di Nazaret che conosce perfettamente il suo destino, rifiuta le scappatoie che Ponzio Pilato gli offre per cercare una via di fuga e, in questo modo, si impone come bandiera contro la cattiveria degli uomini per portare la sua testimonianza.

 

Nelle parole del capo dello Stato italiano e di molti commentatori mi è parso di udire di nuovo esortazioni ragionevoli di moderni Pilato che chiedono al possibile martire: “Ma chi te lo fa fare? Troviamo una mediazione, un qualche tipo di soluzione”. Purtroppo a questo punto della vicenda una qualsivoglia ragionevole mediazione tipo fornire gli aiuti al vescovo cattolico significherebbe perdere il valore di testimonianza. I detrattori sono pronti a schernire, ad affermare “Vedete i grandi valori dove approdano? Di fronte alla fermezza di Israele si sono squagliati”. E invece io ho timore per gli uomini e le donne intercettati su quelle imbarcazioni.

Mi rendo conto che dal mio studio, al sicuro, è facile discettare di martirio, di testimonianza e di verità. Molto arduo essere stati su quelle navi con i timori, le angosce e i dubbi che hanno attanagliato i partecipanti.

Non so come andrà a finire questa vicenda ma sento, anche qui come percezione non del tutto cosciente, che la situazione è complessa come quando il giovane sconosciuto definito successivamente “Tank man” sfidò in camicia bianca un carro armato in piazza Tienanmen nel 1989. In quel caso lui non venne travolto ma nei giorni successivi migliaia di manifestanti, fra cui forse anche lui, furono uccisi.

Quando in ballo non c’è più solo la nostra vita ma una bandiera, una testimonianza di verità, diventa difficile trovare una soluzione per cui ognuno di noi può solo chiudersi in preghiera. La preghiera sarà diversa a seconda che vi sia una fede o un anelito di verità ma mi pare l’unica speranza umana in un momento come questo in cui la follia pare prevalere. La preghiera non è un atto sterile di richiesta ma una fonte concreta di cambiamento del nostro animo che ci induce come collettività a prendere delle posizioni che possono mutare il corso della storia.

da qui





Gaza: il punto in cui siamo - Tomaso Montanari

«Il diritto internazionale è importante, ma fino a un certo punto» (Antonio Tajani, ministro degli esteri della Repubblica italiana, primo ottobre 2025). Qual è, questo «certo punto»?

È un punto sulla carta geografica: quello in cui la Marina militare israeliana assalta le navi disarmate e civili della Global Sumud Flotilla, che portano aiuti a una popolazione sottoposta a genocidio e sterminata con l’arma della fame. È un punto: un punto delle acque internazionali in cui i banditi si fanno polizia, e tolgono beni e libertà a naviganti incolpevoli.

Ed è il punto di una inversione: quello in cui chi viola la legge e usa la violenza è presentato come il garante dell’ordine, e chi rispetta scrupolosamente la legge e usa la nonviolenza è presentato come un eversore dell’ordineIl punto in cui i criminali sequestrano gli onesti. E poi chiedono loro di firmare confessioni in cui affermano di aver compiuto un crimine contro il legittimo blocco navale israeliano. Confessioni estorte sotto minaccia e in detenzione illegale: lo ha fatto per secoli l’Inquisizione contro gli ebrei. Oggi lo fa Israele alle donne e agli uomini della Flotilla.

È il punto in cui, in televisione, gli opinionisti dicono che quelle sono «acque israeliane»: mentendo per la gola.

È il punto in cui Sergio Mattarella invita la Flotilla a lasciare gli aiuti a Cipro, cioè a non entrare nelle acque, internazionali o palestinesi, in cui Israele avrebbe potuto «porre a rischio l’incolumità di ogni persona». Che sarebbe come dire a cittadini di una città siciliana di non manifestare in un quartiere controllato da Cosa Nostra: perché quelli sparano. È il punto in cui Giorgia Meloni, come sempre con la bava alla bocca, si scaglia contro le vittime e si schiera con gli assassini. Il punto in cui la propaganda israeliana accusa la Flotilla di dipendere da Hamas, e i giornali di propaganda della destra fascista italiana rilanciano questa immondizia.

È il punto in cui inizia a vigere la legge della forza, il diritto di terminare lo sporco lavoro. Il diritto di Israele di finire in pace un genocidio. È il punto nel quale sono i bianchi a uccidere i non bianchi: e dunque tutto va bene. È il punto in cui i palestinesi non sono degni nemmeno di sedere al tavolo delle trattative: perché subumani, terroristi, colpevoli.

È il punto in cui si progetta un protettorato coloniale retto da criminali di guerra, e si chiama «piano di pace». È il punto in cui, se non si accetta questo piano, Israele può portare a termine il lavoro: finché non ne rimanga nessuno, di palestinesi.

È il punto in cui un popolo insorge in pace, e chi lo governa prova a proibire lo sciopero generale, spera negli incidenti di piazza, spinge la polizia agli scontri.

È il punto in cui siamo. Il punto in cui la maschera della civiltà e del diritto cadono, e si mostra il volto mostruoso dell’Occidente. Il punto in cui sono sempre più vere le parole scritte da Omar el Akkad sul genocidio di Gaza: «Considerando anche lo spargimento di sangue che scatenerà in futuro, quello che è successo sarà ricordato come il momento in cui milioni di persone hanno guardato all’Occidente, all’ordine basato sulle regole, al guscio del liberalismo e a come è asservito al capitalismo, e hanno detto. Non voglio averci più niente a che fare». Ecco qual è il punto in cui «il diritto internazionale è importante, ma fino a un certo punto».

da qui

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