Dietro la retorica della ricostruzione si cela un disegno più profondo e sinistro, una strategia che trasforma la distruzione in occasione di profitto.
A margine
della messinscena globale della cosiddetta pace eterna trumpiana, della
spettacolarizzazione che, negli ultimi tempi, con varie modalità e in vari
ambiti ha spesso e purtroppo ridotto la crisi palestinese a palcoscenico,
conviene riportare il discorso sul terreno materiale e politico.
Dietro gli
effetti speciali si è via via consolidato un metodo tristemente collaudato: la
distruzione come premessa dell’accumulazione, la ricostruzione come strumento
di dominio e profitto. Gaza, in questo schema, non è solo un teatro di
conflitto, ma un cantiere aperto, un laboratorio dove la devastazione diventa
condizione preliminare per nuovi processi economici e speculativi. Prima si
cancella, poi si capitalizza: è la matrice ricorrente del potere coloniale, che
si traveste da modernizzazione per legittimare l’annientamento.
Il
meccanismo è sempre lo stesso, si ripete nei secoli con strumenti sempre più
sofisticati: si elimina una popolazione per rendere il territorio investibile,
si impone con la forza una pacificazione “in sicurezza” per attrarre capitali,
si affida la governance a tecnocrazie esterne per neutralizzare ogni
possibilità di autodeterminazione. Guerre, tregue, conferenze di pace e show
mediatici non sono deviazioni dalla norma, ma parti integranti di una
metodologia del controllo: la violenza si presenta come amministrazione, lo
spossessamento come progetto di sviluppo e governance.
Nel reticolo
di piani, fondi e summit internazionali si muove un’alleanza strutturale tra
capitalismo speculativo e potere militare: la stessa che ha modellato l’Africa
e l’Asia come territori di dominio, e che agisce anche ai margini del
Mediterraneo. Gaza, ridotta a superficie da edificare, incarna perfettamente
questa fusione tra logiche di accumulazione e pratiche di annientamento: la
morte diventa investimento, la rovina opportunità.
Per
comprendere la profondità di questo paradigma, appare utile richiamare alcune
letture del capitalismo contemporaneo come quelle di Giovanni Arrighi e di
David Harvey che, pur da angolature diverse, convergono nell’interpretare la
crisi non come incidente, ma come motore del sistema.
Arrighi
traccia una genealogia del capitalismo globale come successione di cicli
sistemici di accumulazione. Ogni ciclo si apre con una fase di espansione
materiale - centrata su produzione e commercio - seguita da una fase
finanziaria, in cui l’accumulazione si svincola dall’economia reale e segnala
l’esaurimento del modello egemonico. In questo passaggio, la crisi non è
un’interruzione, ma uno strumento di riordino: serve a ridisegnare i rapporti
tra capitale, Stato e territorio, a traghettare l’egemonia da un polo
all’altro.
In tale
prospettiva, la ricostruzione postbellica non è affatto un gesto umanitario ma
risponde a una strategia di reinsediamento egemonico: la catastrofe apre lo
spazio alla riorganizzazione dell’accumulazione, alla sua ristrutturazione su
base finanziaria e transnazionale, fondata sulla cancellazione del
preesistente. È la rovina a rendere possibile la nuova pianificazione del valore.
Harvey, a
sua volta, traduce questa logica nella geografia concreta del capitale.
Introduce il concetto di spatial fix: il capitale supera le proprie crisi non
risolvendole, ma spostandole nello spazio, fissando le eccedenze in nuovi
territori mediante infrastrutture, città, zone economiche speciali generando
paesaggi che assorbono la crisi e la trasformano in profitto. A questo si
accompagna l’accumulazione per spossessamento: privatizzazione, esproprio dei
beni comuni, finanziarizzazione del territorio.
La
“ricostruzione” è, in questo quadro, un perfetto dispositivo di fissazione
spaziale: il capitale dichiara “vuoto” ciò che ha distrutto, per riempirlo con
sé stesso. Gaza, devastata e pacificata, viene proiettata come scenario ideale
per un nuovo ciclo di valorizzazione: le macerie si trasformano in asset, le
infrastrutture promesse in strumenti di controllo, la popolazione in forza
lavoro precaria o elemento da contenere.
Le due
prospettive si rafforzano a vicenda: Arrighi fornisce la cornice storica e
sistemica spiegando la lunga durata geopolitica dei processi, Harvey ne mostra
l’articolazione concreta sul territorio, il modo in cui questa riconfigurazione
prende corpo nella forma urbana e territoriale. Entrambi ci dicono che il
capitalismo non reagisce alla distruzione: la produce attivamente per potersi
rigenerare.
Gaza, in
questa prospettiva, non è una deviazione ma un paradigma: il luogo in cui la
modernità capitalista mostra il proprio volto nudo, dove la devastazione
diventa condizione necessaria all’accumulazione e la ricostruzione strumento di
dominio.
Non si
tratta di un futuro da temere, ma di un presente già operativo. Mentre si
pianifica la “nuova Gaza”, si progetta anche la nostra sostituibilità: un mondo
in cui la vita vale solo se integrata in una catena di valore, in cui la
memoria di ciò che c’era viene rimossa per far posto a un’idea di sviluppo
senza popolo e senza storia.
Rovesciare
questa logica è una responsabilità collettiva. Non opponendole la stessa forza
distruttiva, ma affermando un’etica della responsabilità capace di riconoscere
nella resistenza palestinese non solo una lotta nazionale, ma la forma più
lucida di opposizione al capitalismo della morte.
Perché, se il capitale misura il valore in metri quadrati, la resistenza misura la vita in dignità. E nella sua ostinazione a esistere, a non lasciarsi sostituire, indica la possibilità di un mondo che rifiuta di essere ricostruito sulle proprie rovine.
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