venerdì 31 ottobre 2025

Alcune domande sulla contestazione di Emanuele Fiano all’Università di Venezia - Davide Rostan (pastore valdese)

 

Vorrei sollevare, solo a titolo personale e senza pretesa di rappresentare alcuna istituzione, alcune domande riguardo a una vicenda recentemente avvenuta all’Università di Venezia e di cui i giornali hanno riferito. A me pare che a Emanuele Fiano, che è un ex parlamentare, presidente dell’associazione Sinistra per Israele, non sia stato tolto il microfono da alcuni studenti che gli hanno impedito di parlare, con l’intenzione di discriminarlo in quanto ebreo.

Si tratta di un esponente politico che ha possibilità di esprimersi e scrivere finché vuole. Parlare oggi dunque di squadrismo o censura, dipingendo gli studenti del Fronte della gioventù comunista come fascisti e antisemiti mi sembra fuori luogo e dipinge in modo distorto quanto accaduto.

Fiano peraltro ha avuto modo di intervenire per mezz’ora e poi è stato interrotto con uno striscione e in un intervento, tenuto da uno dei contestatori, il gruppo di studenti ha esposto le sue ragioni. Posizione espressa in modo rozzo, ma riassumibile in una critica ad alcune dichiarazioni di Fiano relative al mancato riconoscimento dello Stato palestinese, al blocco militare esercitato fuori dal diritto internazionale contro la Global Sumud Flotilla e altre.

L’incontro poi non è continuato perché, riferiscono alcuni quotidiani, dopo che gli organizzatori, cercando di placare le acque hanno dato parola a chi voleva contestare Fiano, quest’ultimo ha cercato di proseguire ma è stato sommerso di fischi.

Credo però che il problema di questo incontro e delle polemiche che ne sono seguite dovrebbe essere meglio analizzato, al netto delle reciproche motivazioni e fatta salva la libertà di Fiano di dire ciò che pensa, ma anche quella degli studenti di contestarlo.

La responsabilità di un incontro pubblico in questi casi di solito è di chi organizza e dell’università stessa. Mi sembra evidente che un incontro con studenti universitari non è e non può essere un paludato salotto televisivo con le domande preconfezionate. Paragonare tuttavia i fischi, che di fatto impediscono ad un dibattito di proseguire, alle leggi persecutorie antiebraiche del 1938 che impedirono al padre di Fiano di continuare a frequentare l’università credo sia un’affermazione che non rende onore né alla memoria della Shoah né all’ebraismo italiano. Il problema di fondo è che nella situazione odierna continuare, come fanno i media, a strumentalizzare la voce di alcuni ebrei noti per bollare come antisemita, o fascista come in questo caso è avvenuto, chiunque si sia permesso di criticare Israele o di contestare un oratore importante, è diventato il modo più veloce per impedire ogni tipo di critica e avere una patente di garanzia per coloro che hanno bisogno di un sostegno alle proprie opinioni. E’ un meccanismo tipico del giornalismo nostrano: se accade qualcosa tra Israele e Palestina si intervista un ebreo italiano scegliendolo a seconda delle risposte che ci si vuole sentire ripetere: Segre, Fiano, Ovadia, Lerner e così via.

Vero, Fiano è anche a capo di un’associazione che si spende per la collaborazione tra palestinesi e israeliani, è a favore della pace e più volte ha espresso critiche al governo israeliano, anche se su molti punti come si può ascoltare nelle sue interviste fa affermazioni che personalmente ritengo discutibili.

E’ vero anche che però alla fine, dopo la contestazione a Ca’ Foscari, il riferimento immediato non va alla tutela della libertà d’opinione, ma alle leggi fasciste e alla persecuzione subita da suo padre. A nessuno verrebbe probabilmente in mente di invitare a un dibattito su Israele e Palestina, al netto delle competenze specifiche che si possono avere sul tema (esperto di geopolitica sulla regione, esperto di questione religiose mediorientali, esperto giuridico sui genocidi o almeno di storia militare del Medio Oriente, o altro, aggiungete voi) un musulmano bosniaco, o suo figlio, scampato da Srebrenica. E nemmeno un armeno nipotino degli scampati al genocidio.

Invitare un ebreo italiano figlio di una vittima della Shoah non è un po’ come fare qualcosa del genere?

Nel suo caso Fiano ha realmente delle competenze sulla regione e certamente ha molto di intelligente da dire e anche cose condivisibili. Il problema è che questo semplice invito purtroppo, invece di contribuire a sciogliere quel legame mortale tra le camere a gas di allora e il conflitto odierno in Medioriente lo fomenta e lo rafforza.

Vale sia per coloro che usano il riferimento a Hitler e alle camere a gas per criticare il governo israeliano, ma ancora di più per quelli che accusano di antisemitismo tutti coloro che osano muovere critiche a Netanyahu. Problema che dopo le contestazioni Fiano stesso ha purtroppo, almeno a quanto riportano i giornali, contribuito ad alimentare.

La questione sta nella nostra attitudine mentale a pensare che qualcuno per il semplice fatto di essere ebreo o di essere vittima o parente di una vittima della Shoah debba essere considerato automaticamente un esperto della crisi mediorientale.

Siamo sicuri, lo chiedo in particolare al mondo ebraico italiano, che questo legame utilizzato così renda giustizia della memoria della Shoah?

Davvero tutte le volte che si critica l’operato del governo israeliano si diventa antisemiti? Davvero ha senso che alcuni ebrei famosi diventino i portavoce dell’intera realtà ebraica, contribuendo in maniera significativa a far sì che i media ripropongano questo cortocircuito nel quale chiunque critica Israele sta attaccando l’ebraismo in quanto tale e allo stesso tempo molti di coloro che criticano Israele o chiedono il riconoscimento di uno Stato per i palestinesi lo fanno paragonando l’attuale governo israeliano a Hitler?

Siamo sicuri che tutto questo alla lunga non si riveli un enorme danno per l’ebraismo italiano e mondiale e non diventi un gigantesco boomerang, alimentando una spirale di odio verso l’ebraismo stesso?

Siamo sicuri soprattutto che questo sguardo sul conflitto in Medio Oriente, filtrato dalla Shoah, con tutto il suo carico di ricordi individuali, senso di colpa, identità, giornate della memoria e leggi ad hoc non ci impedisca alla fin fine di riconoscere il massacro inaudito che sta accadendo sotto i nostri occhi e ci impedisca di denunciarne i veri responsabili?

Il risultato, mi pare, è che oggi ci ritroviamo con il fascismo italiano che usa la Segre per dire che gli antisemiti non sono gli eredi di coloro che emisero le leggi razziste e deportarono nei campi gli ebrei italiani, bensì lo sono tutti coloro che semplicemente manifestano ritenendo che i palestinesi debbano avere esattamente la stessa possibilità di vivere e di autodeterminarsi di tutti gli altri popoli. Mi chiedo dunque perché perseverare in questa logica.

Sia chiaro, Fiano ha tutto il diritto di non essere attaccato in quanto ebreo, ha diritto di dichiararsi di sinistra e di dire che fa parte di un gruppo denominato Sinistra per Israele, anche se parlare oggi di due popoli e due Stati è una soluzione che mi pare problematica, se poi nei fatti non si riconosce la Palestina e non si interviene per bloccare la razzia di terra perpetrata dai coloni in Cisgiordania. Gli studenti allo stesso tempo possono rispondergli che in questo momento difendere un governo che sta portando avanti un genocidio è una responsabilità che non si vogliono prendere e ritengono che invece quel governo, non la totalità dei suoi cittadini e nemmeno l’ebraismo mondiale, debba essere processato per crimini contro l’umanità. E possono anche legittimamente contestarlo.

Certamente avrebbero fatto meglio a lasciarlo parlare fino alla fine senza sommergerlo di fischi, e non solo per una quesitone di rispetto del diritto di parola. Fiano evidentemente non è un fascista e il diritto di parola è inviolabile, ma per non rischiare di venire strumentalizzati come poi è puntualmente accaduto, di questo sono sicuro.

Resta la responsabilità di chi usa la memoria delle persecuzioni per accusare di fascismo degli studenti che contestano posizioni politiche e soprattutto quella dei media che utilizzano persone come lui e come Segre per alimentare l’idea che l’ebraismo coincida con il governo israeliano e viceversa.

L’articolo originale può essere letto qui

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Il delitto Mattarella e l’omicidio di La Torre: quella targa rubata a Palermo e trovata a Torino che può collegare i mafiosi ai neri

di Giuseppe Pipitone, Marco Lillo, Saul Caia

L'INCHIESTA - Scomparsa nel capoluogo siciliano alla vigilia del delitto del leader comunista, trovata in un covo dei Nar a 1.500 km di distanza, è stata indicata per anni come la prova regina del delitto del fratello del capo dello Stato. Ipotesi accantonata dalla procura nell'ultima inchiesta. Ma la targa PA563091 può ancora illuminare di una luce nuova i rapporti tra mafiosi e neofascisti

 

Unisce Palermo a Torino, ma potrebbe collegare anche gli ambienti di Cosa Nostra a quelli dell’eversione nera, sullo sfondo dei delitti eccellenti. Nell’ultima inchiesta della Procura di Palermo sull’omicidio di Piersanti Mattarella si torna a parlare della targa usata per camuffare l’auto utilizzata dai killer dell’ex presidente della Sicilia. E che nell’originaria ipotesi investigativa avrebbe potuto legare la mafia al mondo del terrorismo di destra. Nella richiesta di arresto per l’ex prefetto Filippo Piritorefinito ai domiciliari con l’accusa di depistaggio, si dedica un paragrafo a questo pezzo di plastica rettangolare dato per disperso negli atti ufficiali e che invece è custodito ancora oggi all’ufficio corpi di reato del tribunale di Palermo. Negli ultimi quarant’anni quella targa ha colpito l’attenzione delle migliori menti investigative italiane. Sono due lettere e sei numeri in bianco su sfondo nero: PA563091. È una targa famosa, anzi famigerata perché fu sequestrata dai carabinieri il 26 ottobre del 1982 a Torino in via Monte Asolone, all’interno di un appartamento usato dai terroristi di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari. Che ci faceva quella targa rubata a Palermo in un covo di neofascisti a Torino? Nessuno si è posto questa domanda per sette lunghi anni. Poi nel 1989 il magistrato Loris D’Ambrosio si accorge di una singolare coincidenza: PA563091 è una sequenza composta dagli stessi numeri “avanzati” nella creazione della targa finta fabbricata dagli assassini di Piersanti Mattarella.

Il 6 gennaio del 1980 l’allora presidente della Regione Siciliana viene ucciso sotto casa sua da due killer, che poi fuggono a bordo di una Fiat 127 targata PA546623. È il risultato di un mix di targhe rubate: PA54-0916 e PA53-6623. Da quell’operazione avanzano appunto due frammenti di targa: PA53 e 0916. Due anni e mezzo dopo, il 26 ottobre 1982, i carabinieri fanno irruzione in via Monte Asolone nel capoluogo piemontese: a verbale scrivono di aver sequestrato “due pezzi di targa di cui uno comprendente la sigla PA e uno contenente la sigla PA e il numero 563091”. D’Ambrosio unisce i puntini e l’8 settembre del 1989 firma una relazione che sottolinea come la targa trovata a Torino (PA563091) sia composta esattamente dalle stesse cifre “avanzate” dalla creazione della targa usata nell’omicidio Mattarella (PA53-0916).

La pista delle targhe

L’intuizione di D’Ambrosio colpisce l’attenzione di Giovanni Falcone, da tempo impegnato nelle indagini sugli omicidi politici commessi in Sicilia. Il giudice istruttore Gioacchino Natoli va ad acquisire la targa di via Monte Asolone, che nel frattempo era stata inviata a Roma. Il ragionamento investigativo è semplice: se quella targa è composta da più pezzi incollati allora vuol dire che i Nar sono coinvolti nell’omicidio di Mattarella. Natoli va a Roma, si fa consegnare la targa e scopre che è integra. Ad accusare Giusva Fioravanti ci sono le dichiarazioni di suo fratello Cristiano e il riconoscimento di Irma Chiazzese, vedova Mattarella e testimone oculare del delitto. Ma la presunta prova regina rappresentata dalla targa perde consistenza: nei due anni e mezzo di vita che lo separano dalla strage di Capaci, Falcone non se ne occuperà più. Come D’Ambrosio e Natoli. Fioravanti viene processato insieme a Gilberto Cavallini per l’omicidio Mattarella ma viene assolto in via definitiva. Condannati, invece, i boss della cupola di Cosa Nostra, indicati come mandanti. Oscuri ancora oggi gli esecutori del delitto.

L’ipotesi della manina

Passa quasi un quarto di secolo e la pista delle targhe riemerge: nel 2014 Giovanni Grasso (oggi portavoce di Sergio Mattarella al Quirinale) racconta l’intuizione investigativa di D’Ambrosio nel suo libro Piersanti Mattarella, da solo contro la mafia (San Paolo). Nel 2017 Franco Roberti, all’epoca capo della Direzione nazionale antimafia, chiede al procuratore di Palermo – che era Franco Lo Voi – di verificare se quella targa fosse autentica o falsa, cioè “assemblata con i pezzi residuati dal camuffamento effettuato sulla Fiat 127 utilizzata per l’omicidio Mattarella”. Un interrogativo che da anni si pongono i migliori saggisti e giornalisti italiani. Da ultimo Report a maggio scorso rilancia l’ipotesi di Andrea Speranzoni, avvocato dei familiari delle vittime della strage di Bologna, il quale ipotizza che la prova regina della pista nera nel delitto Mattarella potrebbe essere stata sottratta da una “manina”: qualcuno avrebbe sostituito i due frammenti originari con una targa integra “salvando” così i Nar nelle indagini sull’omicidio Mattarella. A sostegno di questa tesi si cita un documento del 2004 in cui il tribunale di Roma attesta la distruzione di tutti i reperti sequestrati in via Monte Asolone nel 1982, compresi quei due pezzi di targa.

La targa è integra e autentica

La pista è stata esaminata e scartata dal procuratore Maurizio de Lucia e dai sostituti Antonio Carchietti e Francesca Dessì nella richiesta di arresto dell’ex prefetto Piritore. Prima di dedicarsi al guanto trovato il 6 gennaio 1980 sull’auto usata dai killer e poi misteriosamente sparito, i pm spazzano il campo dai vari elementi della cosiddetta “pista nera” che hanno seguito senza risultato. Il primo è appunto la targa. I magistrati spiegano di aver ritrovato negli archivi palermitani “quanto descritto nel verbale di perquisizione” dei carabinieri del 1982, e cioè “effettivamente e chiaramente” due pezzi di targa “di cui uno comprendente la sigla PA e uno contenente la sigla PA e il n. 563091”. Allora cosa è stato distrutto a Roma? Spiegano i pm: “Con il provvedimento del 15 giugno 2004, vennero distrutti tutti i reperti (tra cui altre targhe pure sequestrate nel medesimo covo) facenti parte del plico n. 110116 ad eccezione di quello recante il n. 42 che, essendo stato trasmesso al Tribunale di Palermo e acquisito al procedimento penale relativo all’omicidio del Presidente, rimase regolarmente custodito agli atti”. Semplicemente, dunque, quel verbale di distruzione dei carabinieri di Roma contiene un errore. Ipotizza la distruzione di tutti i reperti senza tener conto che quella targa PA563091 (solo quella) era da quindici anni a Palermo, portata lì da Natoli nel 1989. Nessuna distruzione, dunque. “Una volta recuperati i due pezzi di targa sequestrati in via Monte Asolone a Torino, la targa intera PA 563091 è apparsa ictu oculi integra (cioè non formata da spezzoni incollati tra loro), circostanza questa che, verosimilmente, non suggerì, ai tempi della sua originaria acquisizione, il compimento di ulteriori approfondimenti che, tuttavia, sono stati ugualmente disposti nell’ambito del presente procedimento”, continuano gli investigatori palermitani, risolvendo così un giallo vecchio di quattro decenni.

Verbali scritti male

Anche il verbale dei carabinieri che fecero irruzione nel covo dei Nar, datato 1982, era probabilmente scritto male: riporta l’esistenza di “due pezzi di targa” ma in effetti si tratta di un frammento – PA – e di una targa integra PA563091. Lo certificano anche la consulenze tecniche del perito Carmelo Calzetta, che tra il 2020 e il 2022 spiega come i reperti analizzati non presentino “punti di discontinuità, né lesioni, né fratture, né segni di alterazione e/o contraffazione e pertanto sono costituite da una unica, integra e continua lastra di materiale plastico non proveniente da assemblaggio mediante collanti o altro tipo di adesivo di pezzi originariamente distinti da altri esemplari di targhe”. Si tratta dunque di targhe “verosimilmente originali”. Insomma, per i pm non c’è dubbio: la targa sequestrata nel covo dei Nar a Torino nel 1982 è la stessa di quella esaminata la prima volta a Palermo nel 1989 e poi di nuovo 30 anni dopo. Ed è integra ed autentica. Nessuna manina, dunque.

Menti raffinatissime

Bisogna ripartire dal dato iniziale: la targa PA563091, sequestrata nel covo di Monte Asolone, apparteneva a una Renault 14TS immatricolata il 3 marzo del 1980 nel capoluogo siciliano, quindi quasi due mesi dopo il delitto Mattarella. Era intestata a Rosalia L., una donna di Palermo residente in via Ruggero Marturano, non lontano dalla zona di Resuttana-Colli. La targa di quella Renault viene rubata il 24 marzo del 1982, come risulta dalla denuncia presentata da Antonino B., il marito della donna. Chi è che compie quel furto? E per quale motivo? Ma soprattutto: come fa quella targa rubata a Palermo nel marzo del 1982 a ricomparire a Torino, in un covo dei Nar, sette mesi dopo? Eluso finora dalle inchieste giornalistiche e giudiziarie, questo è forse il punto centrale della questione. Anche se integra e autentica, infatti, la sequenza PA563091 ha comunque una straordinaria particolarità: contiene esattamente le stesse cifre “avanzate” dalla fabbricazione della targa falsa usata per l’omicidio Mattarella. Una caratteristica che a Palermo, nel 1982, era condivisa da poche altre targhe. È solo una coincidenza? O chi l’ha rubata ha scelto appositamente la Renault della signora Lombardo, consapevole che quei numeri avrebbero rimandato al delitto del presidente della Sicilia? Se fosse vera questa seconda ipotesi, c’è da chiedersi per cosa doveva servire la targa sottratta alla signora Lombardo: forse per firmare un altro omicidio eccellente? Sarebbe un’operazione da menti raffinatissime.

Il legame col delitto La Torre

Di sicuro c’è solo che il furto della targa PA563091 avviene nello stesso periodo in cui Cosa Nostra comincia a pianificare un altro delitto politico: quello di Pio La Torre, segretario del Partito Comunista in Sicilia e leader del movimento pacifista, contrario all’installazione dei missili nucleari della Nato sull’isola. Il 4 aprile 1982, 11 giorni dopo la sottrazione della targa dalla Renault, viene rubata un’altra targa, che sarà poi usata nell’agguato contro La Torre, il 30 aprile dello stesso anno. Nei giorni precedenti all’omicidio erano state rubate anche una moto Honda e una Fiat Ritmo, cioè i mezzi usati dal commando di killer. Quei furti avvengono nella zona di Resuttana Colli, non distante da dove la signora Rosalia L. aveva parcheggiato la sua auto: è possibile che a mettere a segno quei colpi siano le stesse persone? Nulla riscontra questa tesi ma è una domanda lecita. Una cosa è certa: sulla Ritmo usata dai killer di La Torre non verrò montata la targa PA563091, che invece si materializzerà sette mesi dopo e 1.500 chilometri più a nord: a Torino, nel covo dei neofascisti. Come ci è finita? All’epoca del furto Fioravanti e Mambro erano già in carcere, mentre altri esponenti di primo piano dei Nar, come Giorgio Vale, erano braccati dagli investigatori a Roma. Secondo Fabrizio Zani, neofascista e inquilino del covo di via Monte Asolone e in stretti rapporti con Fioravanti, Cavallini e Mambro, sono stati i carabinieri di Mario Mori a piazzare quella targa a casa sua. Zani sottolinea una stranezza oggettiva: in quel covo vennero compiute due perquisizioni, una il 20 ottobre e una seconda la sera del 26. L’obiettivo, secondo questa tesi non considerata credibile dai magistrati, sarebbe stato quello di indirizzare le indagini sul delitto Mattarella verso i neri. Un “impistaggio”, ma con un piano complesso e inverosimile: nell’aprile del 1982 i carabinieri – o qualcuno su loro input – avrebbero dovuto rubare la targa alla signora L.a Palermo, con l’obiettivo di piazzarla nel covo di Torino nell’ottobre successivo, prevedendo che qualcuno notasse prima o poi la compatibilità con gli spezzoni dell’omicidio Mattarella. Cosa che avverrà con la relazione D’Ambrosio, ma solo ben sette anni dopo. A quel punto scatta “l’impistaggio”, che definire raffinato è riduttivo. Va detto che Zani non è stato considerato credibile dalla corte d’Assise di Bologna che ha condannato Cavallini all’ergastolo per la strage alla stazione. La domanda dunque resta inevasa: come ha fatto la targa PA563091 rubata a Palermo alla vigilia di un importante delitto di mafia a finire nel covo dei Nar a Torino?

Quella Bmw di Cavallini finita a Palermo

C’è un altro dato che emerge dai vecchi atti delle indagini sui Nar e sull’omicidio Mattarella: la targa fa quasi il percorso inverso di una BMW 735 targata MI39213G. Rubata a Salsomaggiore nell’ottobre del 1980, avvisata a Milano negli anni successivi, è l’ennesima auto con una targa finta di questa storia. Era stata intestata in modo fasullo a Giovanni Bottacin, cioè le generalità usate da Cavallini, che per guidare quella Bmw senza dare nell’occhio l’aveva camuffata con una targa di un taxi. Quella macchina doveva servire ai neri per rapire uno dei Benetton, ma a un certo punto scompare dai radar per poi ricomparire a Palermo in mano a uomini di Cosa Nostra. La vicenda è stata ricostruita già 35 anni fa, nell’ordinanza-sentenza sui cosiddetti delitti politici, cioè quelli di Mattarella, di La Torre e di Michele Reina, segretario della Dc a Palermo, il cui caso è stato recentemente riaperto dalla procura di Palermo. “Non posso nascondere che nella mia ansia, tuttora attuale, di capire che cosa ha fatto realmente mio fratello Valerio, avrei voglia di continuare a dare il mio apporto alle indagini e al riguardo, posso soltanto dire che, ad esempio, sono ansioso di sapere come mai una Bmw di cui Cavallini aveva la disponibilità a Milano e che doveva servire per il sequestro del figlio di Benetton, è stata poi trovata a Palermo”, aveva raccontato Cristiano Fioravanti ai magistrati. Dalle indagini venne fuori che quella macchina era finita in un autoparco nel quartiere di Pallavicino, gestito da Francesco Buffa, considerato dagli inquirenti mafioso e amico di due neofascisti come Francesco Mangiameli e Alberto Volo: il primo venne assassinato da Fioravanti nel settembre del 1980, il secondo diventerà confidente di Falcone, al quale racconterà dell’esistenza di strutture paramilitari segrete poi note come Gladio. “Appare significativo il fatto che la Bmw di Milano sia finita a Palermo e – guarda caso – sia passata (nonostante la apparente distanza tra i due luoghi) dal Cavallini al Buffa, che aveva avuto rapporti sicuri col Mangiameli e col Volo. Anche in questo caso, ci si può comodamente rifugiare nel mondo delle coincidenze, però è statisticamente improbabile e contrario alla logica credere alle stesse”, scrivevano gli inquirenti palermitani. Insomma: da una parte c’è una macchina che dai neofascisti a Milano finisce in mano ai mafiosi in Sicilia, dall’altra una targa scomparsa a Palermo che si materializza in un covo di neri a Torino.

Neri e mafiosi

Oltre a essere amico dei estremisti di destra, Buffa era anche considerato un uomo d’onore di Resuttana, il mandamento dei Madonia, potente famiglia mafiosa con alcune peculiarità. “Vantavano dei rapporti con alcuni terroristi di destra, mi parlavano pure di rapporti che avevano con esponenti dei servizi segreti”, ha messo a verbale, tra gli altri, il pentito Francesco Onorato. A vantare legami coi neri e con le spie era soprattutto Nino Madonia, uno dei boss più enigmatici della famiglia. Killer specializzato in delitti eccellenti, insieme a Giuseppe Lucchese è recentemente finito indagato nell’ultima inchiesta della procura di Palermo sul delitto Mattarella. Di un possibile coinvolgimento di Madonia nell’omicidio dell’allora presidente della Sicilia parlava già la corte d’Assise d’Appello di Palermo che assolse Fioravanti nel 1998, sottolineando l’esistenza di una presunta somiglianza fisica tra il mafioso e il terrorista nero all’epoca dei fatti. Per anni il dualismo Fioravanti-Madonia ha tolto il sonno a investigatori, magistrati e giornalisti che si sono occupati del caso. Meno complessa, invece, l’indagine che nel 2004 ha portato Madonia e Lucchese a essere condannati come esecutori del delitto La Torre.

La compenetrazione

L’omicidio del leader comunista non è legato a quello di Mattarella solo dal punto di vista investigativo. I due politici, infatti, avevano un rapporto solido. Dopo il delitto Mattarella, La Torre intervenne alla Camera riportando un dialogo avuto con l’allora presidente della Regione a proposito dell’assassinio del giudice Cesare Terranova e dell’arrivo in Sicilia di Michele Sindona. “Ti rendi conto che questo è un sistema di potere che va al di là della Sicilia? Io penso che ci sia ormai un rapporto tra la mafia e il terrorismo”, sono le parole che avrebbe pronunciato il leader del Pci. Mattarella avrebbe risposto: “Io penso a qualcosa di peggio”. Di rapporti tra mafia e terrorismo parla pure Giovanni Falcone nel 1988, quando riferisce alla Commissione Antimafia proprio delle indagini sul delitto Mattarella: “Si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”. Chi all’epoca lavorava con Falcone racconta che il giudice era molto interessato a questa ipotesi della compenetrazione tra neri e mafiosi nei delitti che hanno segnato la storia del nostro Paese. Oggi una targa rubata a Palermo alla vigilia del delitto La Torre, trovata in un covo dei Nar a Torino e indicata per anni come la prova regina del delitto Mattarella potrebbe illuminare di una luce nuova i rapporti tra mafiosi e neofascisti sullo sfondo dei misteri italiani.

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giovedì 30 ottobre 2025

Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero - Raúl Zibechi

 

Le parole non possono descrivere adeguatamente l’orrore del massacro di oltre 120 giovani neri poveri, uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro con il pretesto di combattere il narcotraffico.

Si è trattato di un’operazione di guerriglia urbana in cui il governo statale ha mobilitato 2.500 agenti di polizia militare pesantemente armati, insieme a veicoli blindati ed elicotteri, per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemão nella Zona Nord della città, un’area con un’alta concentrazione di residenti poveri. Questi due complessi di favelas contano oltre 150mila abitanti ciascuno, con una densità di popolazione estremamente elevata.

Il governo di Rio ha segnalato 60 morti, ma gli abitanti delle favelas hanno portato nelle piazze oltre 50 corpi, corpi che non sono stati inclusi nel conteggio ufficiale, lasciando poco chiaro il numero effettivo delle vittime. Il bilancio delle vittime è ora salito a oltre 120.

Le reazioni sono state immediate, dalle organizzazioni per i diritti umani alle Nazioni Unite, che si sono dichiarate “inorridite” dal massacro. Al di là delle statistiche, ci sono fatti rilevanti.

Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui i popoli oppressi del mondo devono riflettersi. Per chi detiene il potere, è iniziato un periodo di caccia indiscriminata alla popolazione “in eccesso”, perché l’impunità è garantita. Ora più che mai, Gaza siamo tutti noi. Potrebbe essere Quito, San Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca colombiano o il Wallmapu; forse le montagne di Guerrero o le comunità del Chiapas. Ora siamo tutti nel mirino di un capitalismo che uccide per accumulare ricchezza più velocemente.

Parlano di narcotrafficanti con la stessa insensibilità con cui nominano palestinesi, mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomentazioni per la classe media urbana. Ma la storia recente ci insegna che stanno creando laboratori per il genocidio.

Nel pacifico Ecuador, quando il popolo trionfò nella rivolta del 2019, il governo reagì liberando i criminali dalle prigioni trasformate in campi di sterminio, dove i media mostravano detenuti che giocavano a calcio con la testa mozzata di una vittima. Nel Cauca (Colombia), l’estrazione mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga hanno esacerbato la violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che resistono e si rifiutano di essere sottomesse, rendendo la regione la più violenta in un paese già di per sé violento. Nel territorio Mapuche, sia in Cile che in Argentina, le autorità hanno deciso di etichettare come “terroristi” coloro che si rifiutano di essere sottomessi, con il risultato che oggi ci sono più prigionieri Mapuche che sotto le dittature di Pinochet e Videla. In Messico, tutto è chiaro, così chiaro che i media e il governo si rifiutano di lasciarlo vedere, mascherando la violenza con una retorica che si limita a riconoscere la loro complicità. La violenza sistematica a Guerrero e in Chiapas dovrebbe essere motivo di indignazione.

A Rio de Janeiro, un sociologo dice spesso che il narcotraffico non è uno stato parallelo, ma piuttosto lo stato stesso. Questo include tutti i governatori degli ultimi decenni, con il loro entourage di imprenditori, deputati e consiglieri comunali legati alla mafia, che formano una struttura di potere ereditata dagli squadroni della morte della dittatura militare.

Gaza ci pone in un contesto diverso, di fronte a sfide diverse. La prima è capire che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda è capire che questo sistema è composto sia dalla destra che dalla sinistra, dai conservatori e dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per proteggerci, perché nessun altro lo farà.

Il mondo che conoscevamo sta crollando. Piangiamo quei giovani assassinati a Rio, quei corpi sparsi sull’asfalto.

Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione e torrenti di ribellione.

https://comune-info.net/gaza-e-rio-de-janeiro-gaza-e-il-mondo-intero/

LA MASSONERIA è veramente così potente e invasiva nelle nostre vite?

 

mercoledì 29 ottobre 2025

Salvare le vite dei soldati ucraini: la pace giusta - Vincenzo Costa

Sull'altare della narrazione secondo cui il fronte in Ucraina è in stallo - o, addirittura, la Russia sta perdendo - stanno venendo immolate le vite di migliaia e migliaia di soldati ucraini, spesso "bussificati" (cioè prelevati a forza) e mandati al fronte senza addestramento, allo sbaraglio, costretti a fingere che c'è un fronte che non esiste più.


Che il fronte non esista più, che l'esercito ucraino sia al collasso, non lo dicono i russi o i filorussi: lo dice Deepstate, il migliore canale ucraino, che è anti- russo, super nazionalista, adoratore di Bandera e filonazista.


Come stanno le cose realmente?


1) Il fronte non esiste più, e' un colabrodo, i russi si sono infiltrati ovunque e non c'è più una chiara linea di contatto.

 

2) Molti posti e città sono stati persi, ma si impedisce ai soldati rimasti di ritirarsi o di arrendersi, in modo da poter vendere in Occidente la favola che quei territori sono ancora in mano all'esercito ucraino.


In questo modo si condannano a morte quei poveracci, solo per permettere a Zelenski di vantare una tenuta del fronte che non esiste. Persino Deepstate ha detto basta, ritirate quei soldati.


3) In due città decisive sono in una sacca circa 11.000 soldati ucraini, che possono arrendersi o morire. Li si costringe a restare o a ritirarsi ora che è troppo tardi, perché ora devono ritirarsi sotto il fuoco russo. La cosa più ragionevole, di arrendersi e salvare le loro vite, viene impedita da comandanti ucraini che usano i loro soldati come carne da macello.


4) Sono centinaia di migliaia i disertori e renitenti alla leva, il che vuol dire che gli ucraini, quelli reali, non quelli che inventano i nostri TG, non vogliono combattere. Eppure nessuna voce si alza nel mondo democratico e progressista per tutelarli. Non hanno voce, perché sarebbe una voce scomoda, farebbe apparire la UE per quella che è: complice con chi li costringe a morire quando non vogliono né morire né combattere.

Stare dalla parte degli ucraini oggi significa denunciare un governo, quello di Zelenski, privo di legittimità, scaduto, che la Costituzione ucraina non autorizza a governare senza tenere elezioni.

 

Stare dalla parte degli ucraini significa proteggere le loro vite contro chi li manda a morire come carne da macello solo per costruire una menzogna mediatica e poter continuare a ricevere fiumi di denaro dalla UE, denaro che nessuno sa più dove finisca.


Perché per non pagare le pensioni si nega anche che le persone siano morte.


E tra l'altro sono sparite 500.000 armi da fuoco, che sono andate a rifornire la criminalità di mezzo mondo. Un bel porcospino d'acciaio stiamo creando.


Continuare questa guerra significa solo sacrificare persone che di morire per Zelenski e Yermak non hanno alcuna voglia.


Stare dalla parte degli ucraini significa impedire che ora tocchi ai ragazzi, alla fascia tra i 18 e i 24 anni.


La UE è il grande responsabile di questa carneficina, poiché è essa che impedisce da anni ogni soluzione diplomatica, è essa che fa fallire ogni accordo possibile.

 

Ricordo che nel 2022 la proposta russa era semplice e ragionevole:


1) autonomia per il Donbass sul modello del nostro Alto Adige. Rifiutata, perché i nazisti volevano e vogliono impedire che le popolazioni russe parlino russo, pratichino la chiesa ortodossa russa etc.;


2) garanzie di sicurezza per l'Ucraina ma anche per la Russia, cioè che in Ucraina non si schierino missili Nato. Rifiutata, perché i russi dovevano accettare di avere una pistola puntata alla tempia;

 

3) riconoscimento della Crimea come regione russa. Che è una mera ovvietà, dato che è da sempre russa e fu trasformata in Ucraina negli anni 50 per ragioni amministrative.


Le condizioni per una pace giusta c'erano, ma si pensava di poter sconfiggere la Russia, si pensava che il regime sarebbe crollato, la Federazione Russa si sarebbe disgregata in piccoli staterelli dominabili e le grandi organizzazioni finanziare occidentali avrebbero messo le mani sulle risorse energetiche russe.

 

Così pensava la UE.


Ora siamo qui, con gli ucraini che muoiono e vengono lasciati morire, senza potersi arrendere, per non ammettere che chi guida la UE e l'occidente ha sbagliato, e' incapace e cieco, che quel progetto era un delirio.

da qui

Marco Consolo sul Nobel per la Pace (o per il Golpe) a María Corina Machado

 

Il Nobel delle cannoniere - Marco Consolo

La grottesca assegnazione del Premio Nobel per la pace alla golpista venezuelana María Corina Machado è senza dubbio uno dei punti più bassi raggiunti dall’Istituto Nobel. Lungi dall’essere una coincidenza casuale, è parte dell’agenda bellica dell’Occidente e di una precisa strategia di aggressione nei confronti del Venezuela bolivariano e delle altre esperienze di trasformazione del sub-continente. Oggi, i venti di guerra soffiano anche nelle acque del Mar dei Caraibi e Machado ha un ruolo centrale nel tentativo di “regime change” per rovesciare il chavismo con un intervento militare diretto degli Stati Uniti.

Il sorriso ingessato di María Corina Machado 

Nata nel 1967, Machado è quella che i venezuelani chiamano “sifrina”: una donna di origini privilegiate, ricca figlia di un imprenditore siderurgico, nel 2005 ha dichiarato di aver avuto “un’infanzia al riparo dalla realtà”. Ha studiato prima in un esclusivo collegio di Caracas e poi, come è tradizione tra le antiche élite venezuelane, negli Stati Uniti.

Nonostante il tentativo dei latifondi mediatici internazionali di ripulire la sua immagine e di trasformarla in una moderna Giovanna d’Arco dal sorriso ingessato, Machado ha un lungo curriculum golpista, fatto di appelli all’intervento militare straniero contro il proprio Paese e al colpo di Stato. Già nel 2002, Machado aveva preso parte all’effimero golpe contro Hugo Chávez (con la presidenza de facto di Pedro Carmona “il breve”), firmando il decreto di scioglimento di tutti i poteri della Repubblica. La sua “Ong” Sumate è da tempo finanziata dalla NED (che fa capo al Partito Repubblicano negli USA) e dall’USAID.

Dopo la sua elezione a deputata nel 2011, Machado è stata inabilitata politicamente per aver rappresentato un altro Paese (Panama, incredibile dictu) in un vertice dell’OEA del 2014, per discutere della crisi venezuelana. Ritenendo che ciò violasse in modo flagrante la Costituzione, il potere giudiziario le ha revocato il seggio, con una decisione ratificata nel 2014 dalla Corte Suprema di Giustizia venezuelana. Machado è stata anche parte attiva dell’enorme trama di corruzione dell’autoproclamato “presidente” del Venezuela, il “signor nessuno” ex deputato Juan Guaidó.

Nel 2014 e nel 2017, è stata tra le promotrici de “La salida” con le cosiddette “guarimbas”, una strategia insurrezionale paramilitare per abbattere il chavismo, con un saldo di 43 morti, 486 feriti e 1.854 arrestati. Nel 2017 ha invocato a gran voce la “massima pressione” di Washington contro il governo di Maduro, e l’approvazione di ennesime misure coercitive unilaterali (le mal chiamate sanzioni) contro l’economia del Paese caraibico. Nel 2019 ha chiesto l’applicazione del TIAR, un vecchio trattato militare in seno alla Organizzazione degli Stati Americani (OEA), per intervenire militarmente in Venezuela, definendo il governo bolivariano come una “associazione criminale transnazionale”. Nel 2019, in una intervista alla BBC, ha affermato che “…le democrazie occidentali devono comprendere che un regime criminale lascerà il potere solo di fronte alla minaccia credibile, imminente e grave dell’uso della forza”. Un saggio di uso della forza c’è stato nel 2020, con l’avventura dello sbarco di mercenari nella Operación Gedeón.

Il suo partito “Vente Venezuela” ha firmato un patto di gemellaggio con il Likud del sionista Beniamin Netanyahu, a cui ha chiesto di intervenire militarmente in Venezuela, promettendo di spostare l’ambasciata venezuelana a Gerusalemme in caso di una sua vittoria elettorale. Il suo appoggio al sionismo non è mai cessato, neanche durante gli ultimi due anni di genocidio a Gaza.

Per quanto riguarda la concezione economica, è vicina al turbo-capitalismo di Trump e all’argentino Javier Milei, con un marcato profilo autoritario, retorica anticomunista e un modello vende-patria. Machado propone di privatizzare la compagnia petrolifera statale PDVSA, la Corporación Eléctrica Nacional e le altre aziende pubbliche, liberalizzare l’economia e ri-privatizzare le imprese nazionalizzate.

Oggi, l’assegnazione del Nobel è quindi parte del complesso intreccio di operazioni e narrative che cercano di far rivivere in America Latina e nei Caraibi i tempi del big stick e della antica diplomazia delle cannoniere. Anche in questo caso, come in Palestina, con la loro abituale arroganza coloniale, attori stranieri vogliono decidere chi deve governare il Venezuela, senza tenere conto dei venezuelani.

Babbo Natale e la testa dura dei fatti

Per quanto riguarda la strategia statunitense di questi mesi, i fatti hanno la testa dura e c’è poco da credere a Babbo Natale. Diamo un’occhiata alla tempistica degli ultimi avvenimenti.

Ad aprile c’era stata la visita a Panama del Segretario della Difesa (ora della Guerra) Pete Hegseth, seguita da un via vai di alti comandi del Pentagono e da esercizi militari e spiegamento di truppe per consolidarne la presenza.

A settembre, Trump ha ordinato l’invio di una flotta militare nel Mar dei Caraibi con 8 navi da guerra (fregate, cacciatorpedinieri ed un sottomarino nucleare) e circa 4000 marines, con il ridicolo pretesto della “lotta al narcotraffico”. Subito dopo c’è stato lo spostamento di dieci caccia F35 in una delle basi a stelle e strisce di Puerto Rico, protagonisti immediati di provocazioni ai limiti dello spazio aereo venezuelano.

Il 6 ottobre, Trump ha ordinato all’inviato speciale della Casabianca, Richard Grenell, di sospendere tutti i contatti diplomatici con il governo bolivariano. Contatti che avevano portato ad un parziale allentamento del blocco petrolifero, alla liberazione di alcuni mercenari statunitensi catturati e alla ripatriazione di decine di venezuelani espulsi dagli Stati Uniti. Secondo il New York Times, Trump lo ha fatto per la sua “crescente frustrazione per il fatto che Maduro non abbia acconsentito alle richieste degli Stati Uniti di abbandonare volontariamente il potere (sic) e per la continua insistenza dei funzionari venezuelani nel sostenere di non avere nulla a che fare con il traffico di droga”.  La reazione di Grenell all’assegnazione del Nobel a Machado sul suo profilo di X è stata lapidaria: “il Premio Nobel è morto da anni”.

Lo scorso 7 ottobre, il Presidente venezuelano Nicolás Maduro ha denunciato un piano per compiere un attentato esplosivo contro l’ambasciata degli Stati Uniti a Caracas, fortunatamente sventato. Un attentato di “falsa bandiera”, organizzato da un settore dell’estrema destra venezuelana, alla ricerca di un pretesto per un attacco militare statunitense. La sede diplomatica è chiusa dal 2019, quando si sono interrotti i rapporti diplomatici. Il governo Maduro ha comunicato “ufficialmente” a Washington i dettagli del complotto. “Gli Stati Uniti dispongono delle informazioni, dei nomi e cognomi, dell’ora dell’incontro, di ciò che è stato discusso e dove si è discusso di questo attentato, approvato e richiesto da una persona che sarà presto resa nota”, ha affermato il Presidente venezuelano senza fornire ulteriori dettagli.

Secondo il New York Times, in queste settimane il numero dei militari statunitensi nei Caraibi è aumentato a circa diecimila, la maggioranza dei quali a Puerto Rico. Al largo delle coste del Venezuela, si sarebbe poi aggiunta la nave da guerra “fantasma” Ocean Trader, che funge da supporto alle forze speciali statunitensi con una capacità di navigazione senza tracciabilità.

E nei giorni scorsi, Washington si è assicurato l’appoggio allo spiegamento militare del governo di Trinidad Tobago, grazie alla promessa dell’esplorazione congiunta di un giacimento di gas al limite delle acque territoriali venezuelane. La minaccia militare è oggi a circa 11 chilometri dalle coste venezuelane.

Il 15 ottobre, tre caccia-bombardieri statunitensi, partiti dalla Louisiana, sono entrati nello spazio aereo venezuelano, per l’ennesima provocazione, mentre il New York Times filtrava l’informazione di un semaforo verde dato da Trump alla CIA per operazioni in territorio venezuelano.

Dulcis in fundo, l’assegnazione del premio Nobel per la pace a Machado.

Maga, non Maga….

Nonostante le apparenze, la politica estera dell’amministrazione Trump non è priva di contraddizioni. Da una parte, ci sono i falchi, capitanati dal Segretario di Stato, il guerrafondaio cubano-statunitense Marco Rubio (con la sua ossessione di utilizzare la potenza militare contro Cuba e Venezuela). Dall’altra, i membri del MAGA nel governo (gruppo in cui Richard Grenell ha una posizione di rilievo per la politica estera), che sarebbero in contrasto con la visione di Rubio e che provano a screditarla e ridurne la portata. Un eventuale intervento militare potrebbe allarmare la base del MAGA, vista la forte inclinazione isolazionista, con dei costi politici ed elettorali per lo stesso Trump. Questo braccio di ferro per imporre la propria visione della politica estera, al momento, traspare anche dai mezzi di comunicazione statunitensi. Le contraddizioni della Casa Bianca stanno dando al Venezuela il tempo di prepararsi al peggiore degli scenari, mentre il presidente Maduro si rafforza di fronte alla minaccia esterna. Per Rubio, il tempo scorre in un clima di tensione e aumenta la pressione nei suoi confronti. Il movimento MAGA, guidato da Grenell, spera nel suo fallimento, per espellerlo definitivamente dal gabinetto di Trump.

La risposta bolivariana

Da parte sua, il governo venezuelano non sottovaluta il pericolo di conflitto. Oltre ad aver posto in stato di allerta le FF.AA., mobilitato la marina e la milizia popolare, il governo è impegnato in un’offensiva diplomatica. Tra le altre iniziative, ha convocato una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tenutasi il 10 ottobre, per denunciare l’escalation bellicista. Il Segretario generale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), Diosdado Cabello, ha affermato che «la Nazione utilizza tutti i meccanismi diplomatici per evitare sempre qualsiasi conflitto, non solo nel territorio venezuelano, ma in qualsiasi parte del mondo», dato che «il Venezuela si è sempre contraddistinto per la sua diplomazia bolivariana di pace».

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SCHEDA

Un poco di storia del Nobel

L’Istituto Nobel, anche nel lontano passato, si è s/qualificato con l’assegnazione del premio a personaggi a dir poco sinistri. Solo per rinfrescare la memoria delle perle più eclatanti, nei primi decenni del secolo scorso furono insigniti del Premio Nobel per la Pace due dei presidenti più guerrafondai di tutta la storia coloniale degli Stati Uniti: Theodore Roosevelt nel 1906 e Woodrow Wilson nel 1919.

Roosevelt creò la politica del big stick (speak softly and carry a big stick, you will go far) con cui gli Stati Uniti riaffermarono la possibilità di intervenire se i loro interessi erano in gioco. Fu così che ordinò la guerra coloniale del 1898 (la «piccola guerra splendida», come fu definita cinicamente) con cui gli Stati Uniti si impossessarono di Porto Rico, Cuba, Filippine e Guam. Roosevelt mise anche lo zampino nella secessione di Panama dalla Grande Colombia per la costruzione del Canale, oltre a invadere Cuba, Haiti, la Repubblica Dominicana e il Nicaragua.

Woodrow Wilson, era un razzista a tutto campo, simpatizzante del Ku Klux Klan e difensore della “purezza razziale” dei bianchi statunitensi, che approfondì la segregazione nella pubblica amministrazione. Non contento, ordinò operazioni militari in Messico (l’invasione di Veracruz e le spedizioni punitive contro Pancho Villa), ed appoggiò lunghe occupazioni con i marines ad Haiti, nella Repubblica Dominicana e in Nicaragua. A quei tempi, la proxy war fu condotta dal pirata William Walker, fedele mercenario ed esecutore della teoria del “destino manifesto”.

Più recentemente, altri tre premi Nobel per la pace hanno fatto scandalo.

Il primo, nel 1973, a Henry Kissinger per i negoziati nella guerra del Vietnam e per i successivi accordi di pace di Parigi, anche se in realtà la guerra di liberazione nazionale terminò con la vittoria dei Việt Cộng e la caduta di Saigon nel 1975. In quell’occasione fu insignito del Nobel anche il Presidente vietnamita Le Duc Tho, l’unico a rifiutare il premio in tutta la storia del Nobel per la Pace. Come si ricorderà, Kissinger era stato Consigliere per la sicurezza nazionale e poi Segretario di Stato del Presidente Nixon, allargando la guerra del Vietnam al Laos e alla Cambogia, con pesanti bombardamenti nei due Paesi. In America Latina è stato il cervello del colpo di Stato contro Salvador Allende in Cile del 1973 e delle altre dittature civili-militari oltre all’inventore del macabro Plan Condor. Lo scandalo del premio fu tale che due membri del comitato Nobel decisero di dimettersi.

Nel 2009, è stato premiato Barack Obama «per i suoi straordinari sforzi volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Peccato che l’ex presidente democratico ha continuato le guerre in Afghanistan e Iraq iniziate da George W. Bush; ha distrutto la Libia di Gheddafi (il Paese più prospero e sviluppato di tutta l’Africa); ha sostenuto la guerra civile in Siria contro il governo di Bashar al-Assad ed appoggiato l’Arabia Saudita nella sua guerra contro gli Houthi dello Yemen.

E nel 2016, il premio è toccato al presidente colombiano Juan Manuel Santos per gli accordi di pace firmati all’Avana con la guerriglia delle FARC-EP. Ma come ministro della Difesa di Álvaro Uribe, Santos è stato responsabile dei cosiddetti “falsi positivi”, con centinaia di esecuzioni extragiudiziali di indigeni o contadini, fatti passare come guerriglieri uccisi in combattimento.

Viceversa, non si può che salutare positivamente, l’incontrovertibile assegnazione del premio a Desmond Tutu e Nelson Mandela per la loro lotta contro l’apartheid in Sudafrica, a Martin Luther King per la sua battaglia contro l’apartheid negli Stati Uniti, o a Adolfo Pérez Esquivel per la difesa dei diritti umani durante l’ultima dittatura civile-militare argentina.

Ma, da tempo, l’ago della bilancia del Nobel pende sempre più a destra, con un premio geopolitico, utilizzato per dare una verniciata di legittimità alle cause e alle figure ben viste dalle potenze occidentali nei momenti più opportuni. Seguendo la geografia dei premi, possiamo identificare la mappa degli avversari dell’Occidente collettivo: la ex-Unione Sovietica, la Cina governata dal Partito Comunista, il mondo arabo-mussulmano o la Russia di Vladimir Putin.

da qui

 

 

Un Nobel val bene una messa - Giusi Di Cristina

«La satira politica è divenuta obsoleta da quando il Premio Nobel per la Pace è stato dato a Henry Kissinger» (Tom Lehrer, autore e compositore satirico).

Erano gli anni Settanta e il Premio Nobel per la pace venne assegnato a Le Duc Tho, il politico e rivoluzionario vietnamita che fu il capo della delegazione del Vietnam del Nord ai trattati per la pace in Vietnam con gli Stati Uniti, e ad Henry Kissinger, segretario di Stato degli USA. Il motivo del duplice premio erano appunto gli Accordi che avrebbero portato alla fine di una guerra che aveva trucidato da una parte il popolo vietnamita – pur non piegandolo, anzi – e dall’altra un’intera generazione nordamericana, costretta alle armi.

Le Duc Tho, però, rifiuta il premio, affermando che nel suo Paese la pace non era affatto stata raggiunta, visto che i combattimenti continuavano a sud.

Kissinger, al contrario, il premio lo accetta eccome. Peccato che era il medesimo Kissinger ideatore del Plan Condor, che stava assicurando sostegno economico, militare e politico alle sadiche dittature latinoamericane.

D’altronde, da eccellente realista qual è, il segretario di Stato sa bene quanto sia necessario influenzare i destini dei Paesi che servono al benessere e al mantenimento dello status quo delle sfere d’influenza. Ed è una pratica politica talmente accettata, talmente ritenuta normale che persino l’altra parte, l’URSS, non si scompose minimamente, riconoscendo i nuovi dittatori a capo dei rispettivi Paesi.

A corollario delle azioni di politica estera aggressiva, il soft power veniva agito per raggiungere anche l’ultimo dei cittadini del mondo e convincerlo che gli Stati Uniti, in fondo, aggiustavano le cose, stavano coi buoni, fornivano le soluzioni corrette a chi rischiava di corrompersi a causa del socialismo o, peggio, del comunismo.

E perché non farlo anche attraverso il Premio Nobel per la Pace?

Le istituzioni occidentali hanno da sempre sostenuto e difeso un determinato modello di mondo: l’eurocentrismo ha sdoganato pratiche aberranti come il colonialismo, fatto passare come legittime le invasioni, accettato le distruzioni e i massacri quando utili ad aumentare la potenza di un grande Stato occidentale. Spesso persino chi era vittima del sistema eurocentrico lo sosteneva, vivendolo come ineluttabile o addirittura giusto.

«Colonialidad del poder» la chiamava Anibal Quijano, aggiungendo all’analisi anche il richiamo alla razza, concetto inventato appositamente per costruire una gerarchia dell’umanità e un presunto destino biologico di una parte a dominarne un’altra.

Quijano era peruviano: scriveva forte di un’esperienza diretta che ha aiutato spesso altri grandi studiosi latinoamericani a redigere analisi che hanno apportato elementi nuovi e originali, più volte in rottura anche con la parte più vicina (si pensi a come il marxismo occidentale ha compreso a fatica, quando non rigettato in toto, gli approcci politici latinoamericani).

Oggi il metodo non è cambiato: il Nord globale continua a voler dettare la linea politica ed economica rispetto al Sud (o, a mio parere, ai differenti Sud), attraverso un sistema ben oliato di hard e soft power.

E il Premio Nobel per la Pace fa parte di questo sistema, oggi come ieri.

A parte qualche rarissima eccezione (Martin Luther King o Rigoberta Menchú), il premio è stato sempre legato a una precisa lettura della realtà, da cui i promotori della pace o dei diritti umani possono essere di una parte politica. Già con la nascita della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’Accademia degli Antropologi denunciava che quella dichiarazione sottoponeva il mondo a una forma di “giustizia” che stava solo da una parte, appunto.

È di qualche giorno fa la scandalosa assegnazione del Premio Nobel per la pace del 2025 a María Carina Machado. Scandalosa per due ragioni: non risulta che abbia fatto qualcosa per la pace e ha suggerito, al contrario, azioni violente contro il suo stesso Paese, nel suo stesso Paese.

María Carina Machado è figlia di un ricco imprenditore, direttamente coinvolto nelle grandi aziende dell’acciaio e dell’energia elettrica che durante l’era di Chávez sono state nazionalizzate. Machado si è formata in scuole d’élite, per poi perfezionarsi in Massachussetts e a Yale. Ad un certo punto ha deciso di dedicarsi alla politica e lo fa partecipando attivamente al colpo di Stato che nel 2002 tenta di far fuori Chávez: è al fianco dell’autoproclamato presidente ad interim Pedro Carmona e firmataria del decreto di scioglimento dell’Assemblea Nazionale. In effetti, già dall’inizio della sua carriera, si nota come il pacifismo è la cifra rilevante della sua azione politica.

Per consolidare la sua posizione crea Súmate, una ong che riceve ingenti finanziamenti dagli Usa e viene accolta da G.W.Bush alla stanza Ovale, come diretta interlocutrice del governo statunitense in Venezuela.

Se durante il mandato di Obama, Machado chiedeva sanzioni molto più forti nei confronti di personaggi politici del suo Paese, con l’arrivo di Trump Machado si è convertita in un personaggio chiave, che ha sistematicamente accolto positivamente non solo le sanzioni individuali ma anche la stretta economica contro il Venezuela (soprattutto il divieto di vendere petrolio, prima e più importante risorsa venezuelana), che ha spinto il Paese verso una crisi senza pari. Il tentativo di allentamento delle pressioni, suggerito dall’amministrazione Biden, è stato duramente criticato da Machado, in quanto troppo morbido.

Le critiche hanno avuto fine con l’avvento del secondo Trump e il ripristinarsi di minacce e operazioni di forza contro il Venezuela. La signora Machado ha spesso invocato la necessità di un intervento armato contro il suo stesso Paese, condividendo la posizione dell’ex ambasciatore statunitense in Venezuela, Cile e Colombia William Brownfield secondo il quale per portare la pace in un Paese si deve ricorrere a qualsiasi misura drastica, sia essa una invasione militare o lasciare i cittadini senza cibo.

Insomma un rinnovato Plan Condor, senza neppure cambiare di copione.

María Corina Machado è la prima cittadina venezuelana a ricevere un Nobel per la pace, con queste motivazioni: «per il suo instancabile lavoro nella promozione dei diritti democratici per il popolo venezuelano e per la sua lotta per raggiungere una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia».

Rimangono almeno due enormi quesiti alla luce di questa premiazione. Il primo è legato alla comprensione di quali siano i criteri secondo cui invitare i Paesi stranieri ad invadere militarmente il proprio Paese (è spuntato anche un documento in cui la pacifica signora Machado invita il presidente Netanyahu a mandare truppe per salvare il Venezuela) equivarrebbe a proporre transizioni pacifiche e democratiche, rispettose dei diritti umani.

Il secondo è l’ubriacatura della pseudo sinistra governativa italiana che si spertica in applausi per questa premiazione, aggiungendo che non si poteva premiare Trump. Peccato che Machado abbia dedicato il premio proprio a Trump (mi meraviglio non l’abbia dedicato anche a Netanyahu). A questo coro felice e sognante si è unita, immancabilmente, anche una parte di pseudo intellighenzia, che non riesce più ad unire un paio di informazioni concrete e vive della medesima propaganda dei  detestati Salvini e Meloni.

A conferma che Quijano aveva ragione: non è quanto abbiamo studiato, ma quello che ci fa sentire al sicuro.

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Machado: cancellata la tradizionale fiaccolata per il Nobel per la Pace - Giusi Di Cristina

Il Consiglio della Pace norvegese ha annunciato che quest’anno non organizzerà la fiaccolata che solitamente celebra la consegna del premio Nobel per la pace. Secondo la dichiarazione ufficiale, i membri della ong «non sentono che la vincitrice sia conforme con i valori fondamentali del Consiglio della Pace norvegesi e dei nostri membri». L’ONG raggruppa infatti altre 17 organizzazioni pacifiste norvegesi e circa 15.000 attivisti e ne ha approfittato per criticare anche l’intero comparto decisionale che, ha affermato, non pare aver rispettato alcuni loro valori imprescindibili, quali ad esempio «la promozione del dialogo e i metodi non violenti».

Non è la prima volta che il Consiglio della Pace cancella la storica fiaccolata (che si svolge dal 1954), ma il rifiuto a celebrare questo Nobel – che ad ogni modo è stato ufficializzato e sarà consegnato il 10 di dicembre prossimo – dà la possibilità a quanti si sono indignati per la scelta di veder riconosciuta, appunto, la giustezza della propria indignazione.

María Corina Machado, dopo aver dedicato a Trump il premio, un paio di giorni dopo la sua proclamazione ha telefonato al presidente israeliano Netanyahu, congratulandosi per la gestione della guerra. Insomma: un premio Nobel che si premura, fra i primi atti, di congratularsi con un leader dell’estrema destra mondiale che sta conducendo da anni un’aggressione inarrestabile che mira alla pulizia etnica.

Per quanto la fiaccolata sia un atto simbolico, essa accompagna da moltissimi anni la consegna del Nobel per la pace e rappresenta il riconoscimento del premio da parte della società civile, non solo norvegese.

Da parte sua, l’Istituto per il Nobel non ha dato risposte, a parte informare che Machado potrebbe forse non riuscire a raggiungere Oslo per ragioni di sicurezza. Incaponito in una scelta che, evidentemente, ha sconcertato quella parte di opinione pubblica libera dal lavaggio di cervello neoliberale (che venga dalla destra o dalla sinistra), procede in un atto che, come precedentemente scritto su queste pagine, non rappresenta null’altro che soft power.

In un momento storico, tra l’altro, in cui l’America Latina è ancora una volta sottoposta a tentativi di intrusione violenta da parte degli Stati Uniti, urlati da Donald Trump, ormai convinto di essere il padrone del mondo, in splendida compagnia di tutti quegli Stati che concepiscono la politica estera come piena subordinazione all’ordine nordamericano.

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martedì 28 ottobre 2025

Il 7 ottobre (2023) come l'11 settembre (2001)

 


Il potere feroce vuole sudditi obbedienti - Antonio Cipriani

Certe volte occorre scuotere le persone. Ero partito formulando questa frase nella testa: come è possibile non cogliere il baratro etico in cui stiamo precipitando? Come è possibile accettare che un’intera popolazione venga sterminata, che bambini vengano lasciati morire di fame. Come è possibile essere democratici e far finta di non vedere che lo Stato Canaglia bombarda a piacimento in giro per il mondo, senza remore, con la certezza che nessuno interverrà?

Però poi penso che sì, le persone vanno anche un po’ scosse, ma andrebbero prima informate. E non mi sembra che accada con correttezza e continuità. E non da oggi.

Perché non conviene, così risponde il barbiere anarchico e alchimista rurale, che in sintesi dice: i media sono di proprietà di qualcuno che mediamente ha rapporti stretti con i poteri reali, con la politica, con la finanza. I cani da guardia della democrazia spesso si sono trasformati in canetti da riporto o da compagnia…
Poi il Paese Italia, fregandosi le mani e fregandosene delle conseguenze, continua a fare affari con Israele, sia sul piano della vendita delle armi che sugli scambi commerciali o sul piano dei controlli dei servizi segreti. I turisti vengono a gruppi, per disintossicarsi dalle brutture che vedono (e qualcuno pratica). Insomma, il sistema in un modo o nell’altro ha buonissime relazioni con Israele e non ha nessuna intenzione di fare una scelta basata su valori etici e non su quelli economici. Una vergogna, ma è così.
Per non dire della politica. Chi si mette contro Trump e il suo innominabile alleato criminale? Mi pare che nessuno in Italia abbia il coraggio di Pedro Sánchez. Il governo Meloni farfuglia scuse e vaghe prese di posizioni supine. I miracolati del circo barnum fascistoide, un tempo ferocemente antisemiti, oggi cantano le lodi della pulizia etnica baciando acriticamente nuove obbedienze, chiamiamole così. Con un’adesione di antichi sentimenti a una forma nuova e violenta di fascismo e suprematismo.

Quindi, le persone potrebbero scuotersi, certo: ma chi scuote un sistema pavido di piccole becere convenienze che non si schiodano neanche di fronte ai campi di concentramento che vediamo in diretta e che non si opporrebbero neanche dovessero vedere a due passi bruciare vivo un bambino palestinese? Perché gli arroganti, i prepotenti, i manganellatori alla fine dei conti sono pavidi. Non hanno neanche il coraggio di porsi un dubbio, se questo dubbio non favorisce il padrone di turno. Tappetini della storia su cui il potere (quello vero) può comodamente pulirsi i piedi.

Per aiutare i popoli oppressi, per lottare per la Palestina libera, dobbiamo aiutare la nostra coscienza civile e politica, dobbiamo lottare perché i criminali non siano al potere nei nostri Paesi, perché le obbedienze al capitalismo feroce che calpesta diritti, opprime e cancella la nostra storia, vengano superate. Dobbiamo riprenderci la democrazia, sottrarla dalle mani dei furbetti intolleranti che con i portafogli gonfi, e lo schiavismo come riferimento culturale, stanno beatamente occupandola in tutti i suoi aspetti.

Ci stiamo provando, ci dicono i nostri giovani ribelli. Ce lo dicono quelli che impugnano la bandiera della solidarietà veleggiando con la Sumud Flottilla, sfidando gli assassini che possono colpire, assaltare, fare pirateria nel silenzio roboante della politica occidentale e dei suoi media di regime.

Ci stiamo provando e continueremo a farlo. Ci sono settori della vita sociale che sono scesi in piazza e tanto, lavoratori che hanno bloccato i porti, giovani e giovanissimi che hanno preso mazzate dalla polizia pur di protestare. Ci sono persone che si sono attivate, in un modo o nell’altro, che hanno scelto di partecipare in questa difesa della democrazia, della libertà, contro l’oppressione nazista e razzista.
Anche in nome delle altre persone che si sono defilate: per un turista in più, per non metterci la faccia, per tenersi buona anche la parte crudele che distrugge tutti i diritti, per mettere nelle mani di pochi criminali i destini dell’umanità, così come il futuro e il bene comune dei territori.

D’altra parte il potere feroce vuole solo sudditi obbedienti, non cittadini consapevoli, istruiti, che comprendono quello che accade davanti ai loro occhi e che hanno quel quid di senso critico per capire che parteggiare per chi ti rapina diritti e futuro è un suicidio.

Continuiamo a batterci, quindi, nei luoghi in cui abitiamo civilmente, per far sentire attraverso di noi la voce dei popoli oppressi, degli sfruttati, degli ultimi della società mai così a rischio come adesso. Per tenere accesa la fiammella della conoscenza contro la bufera dell’ignoranza arrogante, strumento perfetto di dominio.

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