Vorrei
sollevare, solo a titolo personale e senza pretesa di rappresentare alcuna
istituzione, alcune domande riguardo a una vicenda recentemente avvenuta
all’Università di Venezia e di cui i giornali hanno riferito. A me pare che a
Emanuele Fiano, che è un ex parlamentare, presidente dell’associazione Sinistra
per Israele, non sia stato tolto il microfono da alcuni studenti che gli hanno
impedito di parlare, con l’intenzione di discriminarlo in quanto ebreo.
Si tratta di
un esponente politico che ha possibilità di esprimersi e scrivere finché vuole.
Parlare oggi dunque di squadrismo o censura, dipingendo gli studenti del Fronte
della gioventù comunista come fascisti e antisemiti mi sembra fuori luogo e
dipinge in modo distorto quanto accaduto.
Fiano
peraltro ha avuto modo di intervenire per mezz’ora e poi è stato interrotto con
uno striscione e in un intervento, tenuto da uno dei contestatori, il gruppo di
studenti ha esposto le sue ragioni. Posizione espressa in modo rozzo, ma
riassumibile in una critica ad alcune dichiarazioni di Fiano relative al
mancato riconoscimento dello Stato palestinese, al blocco militare esercitato
fuori dal diritto internazionale contro la Global Sumud Flotilla e altre.
L’incontro
poi non è continuato perché, riferiscono alcuni quotidiani, dopo che gli
organizzatori, cercando di placare le acque hanno dato parola a chi voleva contestare
Fiano, quest’ultimo ha cercato di proseguire ma è stato sommerso di fischi.
Credo però
che il problema di questo incontro e delle polemiche che ne sono seguite
dovrebbe essere meglio analizzato, al netto delle reciproche motivazioni e
fatta salva la libertà di Fiano di dire ciò che pensa, ma anche quella degli
studenti di contestarlo.
La
responsabilità di un incontro pubblico in questi casi di solito è di chi
organizza e dell’università stessa. Mi sembra evidente che un incontro con
studenti universitari non è e non può essere un paludato salotto televisivo con
le domande preconfezionate. Paragonare tuttavia i fischi, che di fatto
impediscono ad un dibattito di proseguire, alle leggi persecutorie antiebraiche
del 1938 che impedirono al padre di Fiano di continuare a frequentare
l’università credo sia un’affermazione che non rende onore né alla memoria
della Shoah né all’ebraismo italiano. Il problema di fondo è che nella
situazione odierna continuare, come fanno i media, a strumentalizzare la voce
di alcuni ebrei noti per bollare come antisemita, o fascista come in questo
caso è avvenuto, chiunque si sia permesso di criticare Israele o di contestare
un oratore importante, è diventato il modo più veloce per impedire ogni tipo di
critica e avere una patente di garanzia per coloro che hanno bisogno di un
sostegno alle proprie opinioni. E’ un meccanismo tipico del giornalismo
nostrano: se accade qualcosa tra Israele e Palestina si intervista un ebreo
italiano scegliendolo a seconda delle risposte che ci si vuole sentire
ripetere: Segre, Fiano, Ovadia, Lerner e così via.
Vero, Fiano
è anche a capo di un’associazione che si spende per la collaborazione tra
palestinesi e israeliani, è a favore della pace e più volte ha espresso
critiche al governo israeliano, anche se su molti punti come si può ascoltare
nelle sue interviste fa affermazioni che personalmente ritengo discutibili.
E’ vero
anche che però alla fine, dopo la contestazione a Ca’ Foscari, il riferimento
immediato non va alla tutela della libertà d’opinione, ma alle leggi fasciste e
alla persecuzione subita da suo padre. A nessuno verrebbe probabilmente in
mente di invitare a un dibattito su Israele e Palestina, al netto delle
competenze specifiche che si possono avere sul tema (esperto di geopolitica sulla
regione, esperto di questione religiose mediorientali, esperto giuridico sui
genocidi o almeno di storia militare del Medio Oriente, o altro, aggiungete
voi) un musulmano bosniaco, o suo figlio, scampato da Srebrenica. E nemmeno un
armeno nipotino degli scampati al genocidio.
Invitare un
ebreo italiano figlio di una vittima della Shoah non è un po’ come fare
qualcosa del genere?
Nel suo caso
Fiano ha realmente delle competenze sulla regione e certamente ha molto di
intelligente da dire e anche cose condivisibili. Il problema è che questo
semplice invito purtroppo, invece di contribuire a sciogliere quel legame
mortale tra le camere a gas di allora e il conflitto odierno in Medioriente lo
fomenta e lo rafforza.
Vale sia per
coloro che usano il riferimento a Hitler e alle camere a gas per criticare il
governo israeliano, ma ancora di più per quelli che accusano di antisemitismo
tutti coloro che osano muovere critiche a Netanyahu. Problema che dopo le
contestazioni Fiano stesso ha purtroppo, almeno a quanto riportano i giornali,
contribuito ad alimentare.
La questione
sta nella nostra attitudine mentale a pensare che qualcuno per il semplice
fatto di essere ebreo o di essere vittima o parente di una vittima della Shoah
debba essere considerato automaticamente un esperto della crisi mediorientale.
Siamo
sicuri, lo chiedo in particolare al mondo ebraico italiano, che questo legame
utilizzato così renda giustizia della memoria della Shoah?
Davvero
tutte le volte che si critica l’operato del governo israeliano si diventa
antisemiti? Davvero ha senso che alcuni ebrei famosi diventino i portavoce
dell’intera realtà ebraica, contribuendo in maniera significativa a far sì che
i media ripropongano questo cortocircuito nel quale chiunque critica Israele
sta attaccando l’ebraismo in quanto tale e allo stesso tempo molti di coloro
che criticano Israele o chiedono il riconoscimento di uno Stato per i
palestinesi lo fanno paragonando l’attuale governo israeliano a Hitler?
Siamo sicuri
che tutto questo alla lunga non si riveli un enorme danno per l’ebraismo
italiano e mondiale e non diventi un gigantesco boomerang, alimentando una
spirale di odio verso l’ebraismo stesso?
Siamo sicuri
soprattutto che questo sguardo sul conflitto in Medio Oriente, filtrato dalla
Shoah, con tutto il suo carico di ricordi individuali, senso di colpa,
identità, giornate della memoria e leggi ad hoc non ci impedisca alla fin fine
di riconoscere il massacro inaudito che sta accadendo sotto i nostri occhi e ci
impedisca di denunciarne i veri responsabili?
Il
risultato, mi pare, è che oggi ci ritroviamo con il fascismo italiano che usa
la Segre per dire che gli antisemiti non sono gli eredi di coloro che emisero
le leggi razziste e deportarono nei campi gli ebrei italiani, bensì lo sono
tutti coloro che semplicemente manifestano ritenendo che i palestinesi debbano
avere esattamente la stessa possibilità di vivere e di autodeterminarsi di
tutti gli altri popoli. Mi chiedo dunque perché perseverare in questa logica.
Sia chiaro,
Fiano ha tutto il diritto di non essere attaccato in quanto ebreo, ha diritto
di dichiararsi di sinistra e di dire che fa parte di un gruppo denominato
Sinistra per Israele, anche se parlare oggi di due popoli e due Stati è una
soluzione che mi pare problematica, se poi nei fatti non si riconosce la
Palestina e non si interviene per bloccare la razzia di terra perpetrata dai
coloni in Cisgiordania. Gli studenti allo stesso tempo possono rispondergli che
in questo momento difendere un governo che sta portando avanti un genocidio è
una responsabilità che non si vogliono prendere e ritengono che invece quel
governo, non la totalità dei suoi cittadini e nemmeno l’ebraismo mondiale,
debba essere processato per crimini contro l’umanità. E possono anche
legittimamente contestarlo.
Certamente
avrebbero fatto meglio a lasciarlo parlare fino alla fine senza sommergerlo di
fischi, e non solo per una quesitone di rispetto del diritto di parola. Fiano
evidentemente non è un fascista e il diritto di parola è inviolabile, ma per
non rischiare di venire strumentalizzati come poi è puntualmente accaduto, di
questo sono sicuro.
Resta la
responsabilità di chi usa la memoria delle persecuzioni per accusare di
fascismo degli studenti che contestano posizioni politiche e soprattutto quella
dei media che utilizzano persone come lui e come Segre per alimentare l’idea
che l’ebraismo coincida con il governo israeliano e viceversa.
L'INCHIESTA - Scomparsa nel capoluogo siciliano alla vigilia del delitto
del leader comunista, trovata in un covo dei Nar a 1.500 km di distanza, è
stata indicata per anni come la prova regina del delitto del fratello del capo
dello Stato. Ipotesi accantonata dalla procura nell'ultima inchiesta. Ma la
targa PA563091 può ancora illuminare di una luce nuova i rapporti tra mafiosi e
neofascisti
Unisce Palermo a Torino, ma potrebbe collegare
anche gli ambienti di Cosa Nostra a quelli dell’eversione
nera, sullo sfondo dei delitti eccellenti. Nell’ultima inchiesta della Procura
di Palermo sull’omicidio di Piersanti Mattarella si
torna a parlare della targa usata per camuffare l’auto utilizzata dai killer
dell’ex presidente della Sicilia. E che nell’originaria ipotesi investigativa
avrebbe potuto legare la mafia al mondo del terrorismo di destra. Nella
richiesta di arresto per l’ex prefetto Filippo Piritore, finito ai domiciliari con l’accusa di depistaggio, si dedica un
paragrafo a questo pezzo di plastica rettangolare dato per disperso negli atti
ufficiali e che invece è custodito ancora oggi all’ufficio corpi di reato del
tribunale di Palermo. Negli ultimi quarant’anni quella targa ha colpito
l’attenzione delle migliori menti investigative italiane. Sono due lettere e
sei numeri in bianco su sfondo nero: PA563091. È una targa famosa,
anzi famigerata perché fu sequestrata dai carabinieri il 26 ottobre del 1982 a
Torino in via Monte Asolone, all’interno di un appartamento usato
dai terroristi di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari. Che ci
faceva quella targa rubata a Palermo in un covo di neofascisti a Torino?
Nessuno si è posto questa domanda per sette lunghi anni. Poi nel 1989 il
magistrato Loris D’Ambrosio si accorge di una singolare
coincidenza: PA563091 è una sequenza composta dagli stessi
numeri “avanzati” nella creazione della targa finta fabbricata dagli assassini
di Piersanti Mattarella.
Il 6 gennaio del 1980 l’allora presidente della Regione Siciliana viene
ucciso sotto casa sua da due killer, che poi fuggono a bordo di una Fiat 127
targata PA546623. È il risultato di un mix di targhe rubate: PA54-0916 e
PA53-6623. Da quell’operazione avanzano appunto due frammenti di targa: PA53 e
0916. Due anni e mezzo dopo, il 26 ottobre 1982, i carabinieri fanno irruzione
in via Monte Asolone nel capoluogo piemontese: a verbale scrivono di aver sequestrato
“due pezzi di targa di cui uno comprendente la sigla PA e uno contenente la
sigla PA e il numero 563091”. D’Ambrosio unisce i puntini e l’8 settembre del
1989 firma una relazione che sottolinea come la targa trovata a Torino
(PA563091) sia composta esattamente dalle stesse cifre “avanzate” dalla
creazione della targa usata nell’omicidio Mattarella (PA53-0916).
La pista delle targhe
L’intuizione di D’Ambrosio colpisce l’attenzione di Giovanni
Falcone, da tempo impegnato nelle indagini sugli omicidi politici commessi
in Sicilia. Il giudice istruttore Gioacchino Natoli va ad
acquisire la targa di via Monte Asolone, che nel frattempo era stata inviata a
Roma. Il ragionamento investigativo è semplice: se quella targa è composta da
più pezzi incollati allora vuol dire che i Nar sono coinvolti nell’omicidio di Mattarella.
Natoli va a Roma, si fa consegnare la targa e scopre che è integra. Ad
accusare Giusva Fioravanti ci sono le dichiarazioni di suo
fratello Cristiano e il riconoscimento di Irma Chiazzese, vedova
Mattarella e testimone oculare del delitto. Ma la presunta prova regina
rappresentata dalla targa perde consistenza: nei due anni e mezzo di vita che
lo separano dalla strage di Capaci, Falcone non se ne occuperà più. Come
D’Ambrosio e Natoli. Fioravanti viene processato insieme a Gilberto
Cavallini per l’omicidio Mattarella ma viene assolto in via
definitiva. Condannati, invece, i boss della cupola di Cosa Nostra, indicati
come mandanti. Oscuri ancora oggi gli esecutori del delitto.
L’ipotesi della manina
Passa quasi un quarto di secolo e la pista delle targhe riemerge: nel
2014 Giovanni Grasso (oggi portavoce di Sergio Mattarella al
Quirinale) racconta l’intuizione investigativa di D’Ambrosio nel suo
libro Piersanti Mattarella, da solo contro la mafia (San
Paolo). Nel 2017 Franco Roberti, all’epoca capo della Direzione
nazionale antimafia, chiede al procuratore di Palermo – che era Franco
Lo Voi – di verificare se quella targa fosse autentica o falsa, cioè
“assemblata con i pezzi residuati dal camuffamento effettuato sulla Fiat 127
utilizzata per l’omicidio Mattarella”. Un interrogativo che da anni si pongono
i migliori saggisti e giornalisti italiani. Da ultimo Report a maggio scorso rilancia
l’ipotesi di Andrea Speranzoni, avvocato dei familiari delle
vittime della strage di Bologna, il quale ipotizza che la prova regina della
pista nera nel delitto Mattarella potrebbe essere stata sottratta da una “manina”:
qualcuno avrebbe sostituito i due frammenti originari con una targa integra
“salvando” così i Nar nelle indagini sull’omicidio Mattarella. A sostegno di
questa tesi si cita un documento del 2004 in cui il tribunale di Roma attesta
la distruzione di tutti i reperti sequestrati in via Monte Asolone nel 1982,
compresi quei due pezzi di targa.
La targa è integra e autentica
La pista è stata esaminata e scartata dal procuratore Maurizio de
Lucia e dai sostituti Antonio Carchietti e Francesca
Dessì nella richiesta di arresto dell’ex prefetto Piritore. Prima di
dedicarsi al guanto trovato il 6 gennaio 1980 sull’auto usata dai killer e poi
misteriosamente sparito, i pm spazzano il campo dai vari elementi della
cosiddetta “pista nera” che hanno seguito senza risultato. Il primo è
appunto la targa. I magistrati spiegano di aver ritrovato negli archivi
palermitani “quanto descritto nel verbale di perquisizione” dei carabinieri del
1982, e cioè “effettivamente e chiaramente” due pezzi di targa “di cui uno
comprendente la sigla PA e uno contenente la sigla PA e il n. 563091”. Allora
cosa è stato distrutto a Roma? Spiegano i pm: “Con il provvedimento del 15
giugno 2004, vennero distrutti tutti i reperti (tra cui altre targhe pure
sequestrate nel medesimo covo) facenti parte del plico n. 110116 ad eccezione
di quello recante il n. 42 che, essendo stato trasmesso al
Tribunale di Palermo e acquisito al procedimento penale relativo all’omicidio
del Presidente, rimase regolarmente custodito agli atti”. Semplicemente,
dunque, quel verbale di distruzione dei carabinieri di Roma contiene un errore.
Ipotizza la distruzione di tutti i reperti senza tener conto che quella
targa PA563091 (solo quella) era da quindici anni a Palermo,
portata lì da Natoli nel 1989. Nessuna distruzione, dunque. “Una volta
recuperati i due pezzi di targa sequestrati in via Monte Asolone a Torino, la
targa intera PA 563091 è apparsa ictu oculiintegra (cioè
non formata da spezzoni incollati tra loro), circostanza questa che,
verosimilmente, non suggerì, ai tempi della sua originaria acquisizione, il
compimento di ulteriori approfondimenti che, tuttavia, sono stati ugualmente
disposti nell’ambito del presente procedimento”, continuano gli investigatori
palermitani, risolvendo così un giallo vecchio di quattro decenni.
Verbali scritti male
Anche il verbale dei carabinieri che fecero irruzione nel covo dei Nar,
datato 1982, era probabilmente scritto male: riporta l’esistenza di “due
pezzi di targa” ma in effetti si tratta di un frammento – PA – e di una
targa integra PA563091. Lo certificano anche la consulenze tecniche del
perito Carmelo Calzetta, che tra il 2020 e il 2022 spiega come i
reperti analizzati non presentino “punti di discontinuità, né lesioni, né
fratture, né segni di alterazione e/o contraffazione e pertanto sono costituite
da una unica, integra e continua lastra di materiale plastico non
proveniente da assemblaggio mediante collanti o altro tipo di adesivo di pezzi
originariamente distinti da altri esemplari di targhe”. Si tratta dunque di
targhe “verosimilmente originali”. Insomma, per i pm non c’è dubbio: la
targa sequestrata nel covo dei Nar a Torino nel 1982 è la stessa di quella
esaminata la prima volta a Palermo nel 1989 e poi di nuovo 30 anni dopo. Ed è
integra ed autentica. Nessuna manina, dunque.
Menti raffinatissime
Bisogna ripartire dal dato iniziale: la targa PA563091,
sequestrata nel covo di Monte Asolone, apparteneva a una Renault 14TS
immatricolata il 3 marzo del 1980 nel capoluogo siciliano, quindi quasi due
mesi dopo il delitto Mattarella. Era intestata a Rosalia L., una
donna di Palermo residente in via Ruggero Marturano, non lontano dalla zona di
Resuttana-Colli. La targa di quella Renault viene rubata il 24 marzo del 1982,
come risulta dalla denuncia presentata da Antonino B., il marito della donna.
Chi è che compie quel furto? E per quale motivo? Ma soprattutto: come fa quella
targa rubata a Palermo nel marzo del 1982 a ricomparire a Torino, in un covo
dei Nar, sette mesi dopo? Eluso finora dalle inchieste giornalistiche e
giudiziarie, questo è forse il punto centrale della questione. Anche se integra
e autentica, infatti, la sequenza PA563091 ha comunque una straordinaria
particolarità: contiene esattamente le stesse cifre “avanzate” dalla
fabbricazione della targa falsa usata per l’omicidio Mattarella. Una
caratteristica che a Palermo, nel 1982, era condivisa da poche altre targhe. È
solo una coincidenza? O chi l’ha rubata ha scelto appositamente la Renault
della signora Lombardo, consapevole che quei numeri avrebbero rimandato al
delitto del presidente della Sicilia? Se fosse vera questa seconda ipotesi, c’è
da chiedersi per cosa doveva servire la targa sottratta alla signora Lombardo:
forse per firmare un altro omicidio eccellente? Sarebbe
un’operazione da menti raffinatissime.
Il legame col delitto La Torre
Di sicuro c’è solo che il furto della targa PA563091 avviene nello stesso
periodo in cui Cosa Nostra comincia a pianificare un altro delitto politico:
quello di Pio La Torre, segretario del Partito Comunista in Sicilia
e leader del movimento pacifista, contrario all’installazione dei
missili nucleari della Nato sull’isola. Il 4 aprile 1982, 11 giorni dopo la
sottrazione della targa dalla Renault, viene rubata un’altra targa, che sarà
poi usata nell’agguato contro La Torre, il 30 aprile dello stesso anno. Nei
giorni precedenti all’omicidio erano state rubate anche una moto Honda e una
Fiat Ritmo, cioè i mezzi usati dal commando di killer. Quei furti avvengono
nella zona di Resuttana Colli, non distante da dove la signora Rosalia
L. aveva parcheggiato la sua auto: è possibile che a mettere a segno
quei colpi siano le stesse persone? Nulla riscontra questa tesi ma è una
domanda lecita. Una cosa è certa: sulla Ritmo usata dai killer di La Torre non
verrò montata la targa PA563091, che invece si materializzerà sette
mesi dopo e 1.500 chilometri più a nord: a Torino, nel covo dei neofascisti.
Come ci è finita? All’epoca del furto Fioravanti e Mambro erano già in carcere,
mentre altri esponenti di primo piano dei Nar, come Giorgio Vale,
erano braccati dagli investigatori a Roma. Secondo Fabrizio Zani,
neofascista e inquilino del covo di via Monte Asolone e in stretti rapporti con
Fioravanti, Cavallini e Mambro, sono stati i carabinieri di Mario Mori a
piazzare quella targa a casa sua. Zani sottolinea una stranezza oggettiva: in
quel covo vennero compiute due perquisizioni, una il 20 ottobre e una seconda
la sera del 26. L’obiettivo, secondo questa tesi non considerata credibile dai
magistrati, sarebbe stato quello di indirizzare le indagini sul delitto
Mattarella verso i neri. Un “impistaggio”, ma con un piano complesso e
inverosimile: nell’aprile del 1982 i carabinieri – o qualcuno su loro input –
avrebbero dovuto rubare la targa alla signora L.a Palermo, con l’obiettivo di
piazzarla nel covo di Torino nell’ottobre successivo, prevedendo che qualcuno
notasse prima o poi la compatibilità con gli spezzoni dell’omicidio Mattarella.
Cosa che avverrà con la relazione D’Ambrosio, ma solo ben sette anni dopo. A
quel punto scatta “l’impistaggio”, che definire raffinato è riduttivo. Va detto
che Zani non è stato considerato credibile dalla corte d’Assise di
Bologna che ha condannato Cavallini all’ergastolo per la strage alla
stazione. La domanda dunque resta inevasa: come ha fatto la targa PA563091
rubata a Palermo alla vigilia di un importante delitto di mafia a finire nel
covo dei Nar a Torino?
Quella Bmw di Cavallini finita a Palermo
C’è un altro dato che emerge dai vecchi atti delle indagini sui Nar e
sull’omicidio Mattarella: la targa fa quasi il percorso inverso di una BMW
735 targata MI39213G. Rubata a Salsomaggiore nell’ottobre
del 1980, avvisata a Milano negli anni successivi, è l’ennesima auto con una
targa finta di questa storia. Era stata intestata in modo fasullo a Giovanni
Bottacin, cioè le generalità usate da Cavallini, che per guidare quella Bmw
senza dare nell’occhio l’aveva camuffata con una targa di un taxi. Quella
macchina doveva servire ai neri per rapire uno dei Benetton, ma a un certo
punto scompare dai radar per poi ricomparire a Palermo in mano a uomini di Cosa
Nostra. La vicenda è stata ricostruita già 35 anni fa, nell’ordinanza-sentenza
sui cosiddetti delitti politici, cioè quelli di Mattarella, di La
Torre e di Michele Reina, segretario della Dc a Palermo, il cui
caso è stato recentemente riaperto dalla procura di Palermo. “Non posso
nascondere che nella mia ansia, tuttora attuale, di capire che cosa ha fatto
realmente mio fratello Valerio, avrei voglia di continuare a dare il mio
apporto alle indagini e al riguardo, posso soltanto dire che, ad esempio, sono
ansioso di sapere come mai una Bmw di cui Cavallini aveva la disponibilità a
Milano e che doveva servire per il sequestro del figlio di Benetton, è stata
poi trovata a Palermo”, aveva raccontato Cristiano Fioravanti ai
magistrati. Dalle indagini venne fuori che quella macchina era finita in un
autoparco nel quartiere di Pallavicino, gestito da Francesco Buffa,
considerato dagli inquirenti mafioso e amico di due neofascisti come Francesco
Mangiameli e Alberto Volo: il primo venne assassinato
da Fioravanti nel settembre del 1980, il secondo diventerà confidente di Falcone, al quale racconterà dell’esistenza
di strutture paramilitari segrete poi note come Gladio.
“Appare significativo il fatto che la Bmw di Milano sia finita a Palermo e –
guarda caso – sia passata (nonostante la apparente distanza tra i due luoghi)
dal Cavallini al Buffa, che aveva avuto rapporti sicuri col Mangiameli e col
Volo. Anche in questo caso, ci si può comodamente rifugiare nel mondo delle
coincidenze, però è statisticamente improbabile e contrario alla logica credere
alle stesse”, scrivevano gli inquirenti palermitani. Insomma: da una parte c’è
una macchina che dai neofascisti a Milano finisce in mano ai mafiosi in
Sicilia, dall’altra una targa scomparsa a Palermo che si materializza in un
covo di neri a Torino.
Neri e mafiosi
Oltre a essere amico dei estremisti di destra, Buffa era anche considerato
un uomo d’onore di Resuttana, il mandamento dei Madonia, potente
famiglia mafiosa con alcune peculiarità. “Vantavano dei rapporti con
alcuni terroristi di destra, mi parlavano pure di rapporti che
avevano con esponenti dei servizi segreti”, ha messo a verbale, tra
gli altri, il pentito Francesco Onorato. A vantare legami coi neri
e con le spie era soprattutto Nino Madonia, uno dei boss più
enigmatici della famiglia. Killer specializzato in delitti eccellenti, insieme
a Giuseppe Lucchese è recentemente finito indagato nell’ultima inchiesta della procura di Palermo sul delitto
Mattarella. Di un possibile coinvolgimento di Madonia nell’omicidio dell’allora
presidente della Sicilia parlava già la corte d’Assise d’Appello di Palermo che
assolse Fioravanti nel 1998, sottolineando l’esistenza di una presunta somiglianza
fisica tra il mafioso e il terrorista nero all’epoca dei fatti. Per
anni il dualismo Fioravanti-Madonia ha tolto il sonno a investigatori,
magistrati e giornalisti che si sono occupati del caso. Meno complessa, invece,
l’indagine che nel 2004 ha portato Madonia e Lucchese a essere condannati come
esecutori del delitto La Torre.
La compenetrazione
L’omicidio del leader comunista non è legato a quello di Mattarella solo
dal punto di vista investigativo. I due politici, infatti, avevano un rapporto
solido. Dopo il delitto Mattarella, La Torre intervenne alla Camera riportando un dialogo avuto con l’allora presidente
della Regione a proposito dell’assassinio del giudice Cesare Terranova e
dell’arrivo in Sicilia di Michele Sindona. “Ti rendi conto che
questo è un sistema di potere che va al di là della Sicilia? Io penso che ci
sia ormai un rapporto tra la mafia e il terrorismo”,
sono le parole che avrebbe pronunciato il leader del Pci. Mattarella avrebbe
risposto: “Io penso a qualcosa di peggio”. Di rapporti tra mafia e terrorismo
parla pure Giovanni Falcone nel 1988, quando riferisce alla Commissione Antimafia proprio delle
indagini sul delitto Mattarella: “Si tratta di capire se e in quale misura
la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa,
oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe
significare altre saldature e soprattutto la necessità
di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche
da tempi assai lontani”. Chi all’epoca lavorava con Falcone racconta che il
giudice era molto interessato a questa ipotesi della compenetrazione tra neri e
mafiosi nei delitti che hanno segnato la storia del nostro Paese. Oggi una
targa rubata a Palermo alla vigilia del delitto La Torre, trovata in un covo
dei Nar a Torino e indicata per anni come la prova regina del delitto
Mattarella potrebbe illuminare di una luce nuova i rapporti tra
mafiosi e neofascisti sullo sfondo dei misteri italiani.
Le parole non possono descrivere adeguatamente l’orrore del massacro di
oltre 120 giovani neri poveri, uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro con il
pretesto di combattere il narcotraffico.
Si è
trattato di un’operazione di guerriglia urbana in cui il governo statale ha
mobilitato 2.500 agenti di polizia
militare pesantemente armati, insieme a veicoli blindati ed elicotteri,
per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemão nella Zona Nord della
città, un’area con un’alta concentrazione di residenti poveri. Questi due
complessi di favelas contano oltre 150mila abitanti ciascuno, con una densità
di popolazione estremamente elevata.
Il governo di Rio ha segnalato 60 morti, ma gli abitanti delle favelas
hanno portato nelle piazze oltre 50 corpi, corpi che non sono stati inclusi nel
conteggio ufficiale, lasciando poco chiaro il numero effettivo delle vittime.
Il bilancio delle vittime è ora salito a oltre 120.
Le reazioni
sono state immediate, dalle organizzazioni per i diritti umani alle Nazioni
Unite, che si sono dichiarate “inorridite” dal massacro. Al di là delle
statistiche, ci sono fatti rilevanti.
Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui i popoli oppressi
del mondo devono riflettersi. Per chi detiene il potere, è
iniziato un periodo di caccia indiscriminata alla popolazione “in eccesso”,
perché l’impunità è garantita. Ora più che mai, Gaza siamo tutti
noi. Potrebbe essere Quito, San Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca
colombiano o il Wallmapu; forse le montagne di Guerrero o le comunità del
Chiapas. Ora siamo tutti nel
mirino di un capitalismo che uccide per accumulare ricchezza più velocemente.
Parlano di
narcotrafficanti con la stessa insensibilità con cui nominano palestinesi,
mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomentazioni per la classe media urbana. Ma
la storia recente ci insegna che stanno creando laboratori per il genocidio.
Nel
pacifico Ecuador, quando il
popolo trionfò nella rivolta del 2019, il governo reagì liberando i criminali
dalle prigioni trasformate in campi di sterminio, dove i media mostravano
detenuti che giocavano a calcio con la testa mozzata di una vittima. Nel Cauca
(Colombia), l’estrazione
mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga hanno esacerbato la
violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che resistono e si
rifiutano di essere sottomesse, rendendo la regione la più violenta in un paese
già di per sé violento. Nel territorio Mapuche, sia in Cile che in Argentina, le autorità hanno deciso di
etichettare come “terroristi” coloro che si rifiutano di essere sottomessi, con
il risultato che oggi ci sono più prigionieri Mapuche che sotto le dittature di
Pinochet e Videla. In Messico,
tutto è chiaro, così chiaro che i media e il governo si rifiutano di lasciarlo
vedere, mascherando la violenza con una retorica che si limita a riconoscere la
loro complicità. La violenza sistematica a Guerrero e in Chiapas dovrebbe
essere motivo di indignazione.
A Rio de Janeiro, un sociologo dice spesso che il narcotraffico non è uno
stato parallelo, ma piuttosto lo stato stesso. Questo include tutti i governatori degli ultimi
decenni, con il loro entourage di imprenditori, deputati e consiglieri comunali
legati alla mafia, che formano una struttura di potere ereditata dagli
squadroni della morte della dittatura militare.
Gaza ci pone in un contesto diverso, di fronte a sfide diverse. La prima
è capire che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda
è capire che questo sistema è composto sia dalla destra che dalla sinistra, dai
conservatori e dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per
proteggerci, perché nessun altro lo farà.
Il mondo che
conoscevamo sta crollando. Piangiamo quei giovani assassinati a Rio, quei corpi
sparsi sull’asfalto.
Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione e torrenti di
ribellione.
Sull'altare
della narrazione secondo cui il fronte in Ucraina è in stallo - o, addirittura,
la Russia sta perdendo - stanno venendo immolate le vite di migliaia e migliaia
di soldati ucraini, spesso "bussificati" (cioè prelevati a forza) e
mandati al fronte senza addestramento, allo sbaraglio, costretti a fingere che
c'è un fronte che non esiste più.
Che il
fronte non esista più, che l'esercito ucraino sia al collasso, non lo dicono i
russi o i filorussi: lo dice Deepstate, il migliore canale ucraino, che è anti-
russo, super nazionalista, adoratore di Bandera e filonazista.
Come stanno le cose realmente?
1) Il fronte non esiste più, e' un colabrodo, i russi si sono infiltrati
ovunque e non c'è più una chiara linea di contatto.
2) Molti
posti e città sono stati persi, ma si impedisce ai soldati rimasti di ritirarsi
o di arrendersi, in modo da poter vendere in Occidente la favola che quei
territori sono ancora in mano all'esercito ucraino.
In questo modo si condannano a morte quei poveracci, solo per permettere a
Zelenski di vantare una tenuta del fronte che non esiste. Persino Deepstate ha
detto basta, ritirate quei soldati.
3) In due città decisive sono in una sacca circa 11.000 soldati ucraini, che
possono arrendersi o morire. Li si costringe a restare o a ritirarsi ora che è
troppo tardi, perché ora devono ritirarsi sotto il fuoco russo. La cosa più
ragionevole, di arrendersi e salvare le loro vite, viene impedita da comandanti
ucraini che usano i loro soldati come carne da macello.
4) Sono centinaia di migliaia i disertori e renitenti alla leva, il che vuol
dire che gli ucraini, quelli reali, non quelli che inventano i nostri TG, non
vogliono combattere. Eppure nessuna voce si alza nel mondo democratico e
progressista per tutelarli. Non hanno voce, perché sarebbe una voce scomoda,
farebbe apparire la UE per quella che è: complice con chi li costringe a morire
quando non vogliono né morire né combattere.
Stare dalla
parte degli ucraini oggi significa denunciare un governo, quello di Zelenski,
privo di legittimità, scaduto, che la Costituzione ucraina non autorizza a
governare senza tenere elezioni.
Stare dalla
parte degli ucraini significa proteggere le loro vite contro chi li manda a
morire come carne da macello solo per costruire una menzogna mediatica e poter
continuare a ricevere fiumi di denaro dalla UE, denaro che nessuno sa più dove
finisca.
Perché per non pagare le pensioni si nega anche che le persone siano morte.
E tra l'altro sono sparite 500.000 armi da fuoco, che sono andate a rifornire
la criminalità di mezzo mondo. Un bel porcospino d'acciaio stiamo creando.
Continuare questa guerra significa solo sacrificare persone che di morire per
Zelenski e Yermak non hanno alcuna voglia.
Stare dalla parte degli ucraini significa impedire che ora tocchi ai ragazzi,
alla fascia tra i 18 e i 24 anni.
La UE è il grande responsabile di questa carneficina, poiché è essa che
impedisce da anni ogni soluzione diplomatica, è essa che fa fallire ogni
accordo possibile.
Ricordo che
nel 2022 la proposta russa era semplice e ragionevole:
1) autonomia per il Donbass sul modello del nostro Alto Adige. Rifiutata,
perché i nazisti volevano e vogliono impedire che le popolazioni russe parlino
russo, pratichino la chiesa ortodossa russa etc.;
2) garanzie di sicurezza per l'Ucraina ma anche per la Russia, cioè che in
Ucraina non si schierino missili Nato. Rifiutata, perché i russi dovevano
accettare di avere una pistola puntata alla tempia;
3)
riconoscimento della Crimea come regione russa. Che è una mera ovvietà, dato
che è da sempre russa e fu trasformata in Ucraina negli anni 50 per ragioni
amministrative.
Le condizioni per una pace giusta c'erano, ma si pensava di poter sconfiggere
la Russia, si pensava che il regime sarebbe crollato, la Federazione Russa si
sarebbe disgregata in piccoli staterelli dominabili e le grandi organizzazioni
finanziare occidentali avrebbero messo le mani sulle risorse energetiche russe.
Così pensava
la UE.
Ora siamo qui, con gli ucraini che muoiono e vengono lasciati morire, senza
potersi arrendere, per non ammettere che chi guida la UE e l'occidente ha
sbagliato, e' incapace e cieco, che quel progetto era un delirio.
La
grottesca assegnazione del Premio Nobel per la pace alla golpista venezuelana
María Corina Machado è senza dubbio uno dei punti più bassi raggiunti
dall’Istituto Nobel. Lungi dall’essere una coincidenza casuale, è parte
dell’agenda bellica dell’Occidente e di una precisa strategia di aggressione
nei confronti del Venezuela bolivariano e delle altre esperienze di
trasformazione del sub-continente. Oggi, i venti di guerra soffiano anche nelle
acque del Mar dei Caraibi e Machado ha un ruolo centrale nel tentativo di “regime
change” per rovesciare il chavismo con un intervento
militare diretto degli Stati Uniti.
Il
sorriso ingessato di María Corina Machado
Nata
nel 1967, Machado è quella che i venezuelani chiamano “sifrina”: una
donna di origini privilegiate, ricca figlia di un imprenditore siderurgico, nel
2005 ha dichiarato di aver avuto “un’infanzia al riparo dalla realtà”. Ha
studiato prima in un esclusivo collegio di Caracas e poi, come è tradizione tra
le antiche élite venezuelane, negli Stati Uniti.
Nonostante
il tentativo dei latifondi mediatici internazionali di ripulire la sua immagine
e di trasformarla in una moderna Giovanna d’Arco dal sorriso ingessato, Machado
ha un lungo curriculum golpista, fatto di appelli all’intervento militare
straniero contro il proprio Paese e al colpo di Stato. Già nel 2002, Machado
aveva preso parte all’effimero golpe contro Hugo Chávez (con
la presidenza de facto di Pedro Carmona “il breve”),
firmando il decreto di scioglimento di tutti i poteri della Repubblica. La sua
“Ong” Sumate è da tempo finanziata dalla NED (che fa capo al
Partito Repubblicano negli USA) e dall’USAID.
Dopo
la sua elezione a deputata nel 2011, Machado è stata inabilitata politicamente
per aver rappresentato un altro Paese (Panama, incredibile dictu)
in un vertice dell’OEA del 2014, per discutere della crisi venezuelana.
Ritenendo che ciò violasse in modo flagrante la Costituzione, il potere
giudiziario le ha revocato il seggio, con una decisione ratificata nel 2014
dalla Corte Suprema di Giustizia venezuelana. Machado è stata anche parte
attiva dell’enorme trama di corruzione dell’autoproclamato “presidente” del
Venezuela, il “signor nessuno” ex deputato Juan Guaidó.
Nel
2014 e nel 2017, è stata tra le promotrici de “La salida” con le
cosiddette “guarimbas”, una strategia insurrezionale paramilitare per
abbattere il chavismo, con un saldo di 43 morti, 486 feriti e 1.854 arrestati.
Nel 2017 ha invocato a gran voce la “massima pressione” di Washington contro il
governo di Maduro, e l’approvazione di ennesime misure coercitive unilaterali
(le mal chiamate sanzioni) contro l’economia del Paese caraibico. Nel 2019 ha
chiesto l’applicazione del TIAR, un vecchio trattato militare in seno alla
Organizzazione degli Stati Americani (OEA), per intervenire militarmente in
Venezuela, definendo il governo bolivariano come una “associazione criminale transnazionale”.
Nel 2019, in una intervista alla BBC, ha affermato che “…le democrazie
occidentali devono comprendere che un regime criminale lascerà il potere solo
di fronte alla minaccia credibile, imminente e grave dell’uso della forza”. Un
saggio di uso della forza c’è stato nel 2020, con l’avventura dello sbarco di
mercenari nella Operación Gedeón.
Il
suo partito “Vente Venezuela” ha firmato un patto di gemellaggio con
il Likud del sionista Beniamin Netanyahu, a cui ha chiesto di intervenire
militarmente in Venezuela, promettendo di spostare l’ambasciata venezuelana a
Gerusalemme in caso di una sua vittoria elettorale. Il suo appoggio al sionismo
non è mai cessato, neanche durante gli ultimi due anni di genocidio a Gaza.
Per
quanto riguarda la concezione economica, è vicina al turbo-capitalismo di Trump
e all’argentino Javier Milei, con un marcato profilo autoritario, retorica
anticomunista e un modello vende-patria. Machado propone di
privatizzare la compagnia petrolifera statale PDVSA, la Corporación Eléctrica
Nacional e le altre aziende pubbliche, liberalizzare l’economia e
ri-privatizzare le imprese nazionalizzate.
Oggi,
l’assegnazione del Nobel è quindi parte del complesso intreccio di operazioni e
narrative che cercano di far rivivere in America Latina e nei Caraibi i tempi
del big stick e della antica diplomazia delle cannoniere.
Anche in questo caso, come in Palestina, con la loro abituale arroganza
coloniale, attori stranieri vogliono decidere chi deve governare il Venezuela,
senza tenere conto dei venezuelani.
Babbo
Natale e la testa dura dei fatti
Per
quanto riguarda la strategia statunitense di questi mesi, i fatti hanno la
testa dura e c’è poco da credere a Babbo Natale. Diamo un’occhiata alla
tempistica degli ultimi avvenimenti.
Ad
aprile c’era stata la visita a Panama del Segretario della Difesa (ora della
Guerra) Pete Hegseth, seguita da un via vai di alti comandi del Pentagono e da
esercizi militari e spiegamento di truppe per consolidarne la presenza.
A
settembre, Trump ha ordinato l’invio di una flotta militare nel Mar dei Caraibi
con 8 navi da guerra (fregate, cacciatorpedinieri ed un sottomarino nucleare) e
circa 4000 marines, con il ridicolo pretesto della “lotta al narcotraffico”.
Subito dopo c’è stato lo spostamento di dieci caccia F35 in una delle basi a
stelle e strisce di Puerto Rico, protagonisti immediati di provocazioni ai
limiti dello spazio aereo venezuelano.
Il
6 ottobre, Trump ha ordinato all’inviato speciale della Casabianca, Richard
Grenell, di sospendere tutti i contatti diplomatici con il governo bolivariano.
Contatti che avevano portato ad un parziale allentamento del blocco
petrolifero, alla liberazione di alcuni mercenari statunitensi catturati e alla
ripatriazione di decine di venezuelani espulsi dagli Stati Uniti. Secondo
il New York Times, Trump lo ha fatto
per la sua “crescente frustrazione per il fatto che Maduro non abbia
acconsentito alle richieste degli Stati Uniti di abbandonare volontariamente il
potere (sic) e per la continua insistenza dei funzionari venezuelani
nel sostenere di non avere nulla a che fare con il traffico di droga”.
La reazione di Grenell all’assegnazione del Nobel a Machado sul suo profilo di
X è stata lapidaria: “il Premio Nobel è morto da anni”.
Lo
scorso 7 ottobre, il Presidente venezuelano Nicolás Maduro ha denunciato un
piano per compiere un attentato esplosivo contro l’ambasciata degli Stati Uniti
a Caracas, fortunatamente sventato. Un attentato di “falsa bandiera”,
organizzato da un settore dell’estrema destra venezuelana, alla ricerca di un
pretesto per un attacco militare statunitense. La sede diplomatica è chiusa dal
2019, quando si sono interrotti i rapporti diplomatici. Il governo Maduro ha
comunicato “ufficialmente” a Washington i dettagli del complotto. “Gli Stati
Uniti dispongono delle informazioni, dei nomi e cognomi, dell’ora dell’incontro,
di ciò che è stato discusso e dove si è discusso di questo attentato, approvato
e richiesto da una persona che sarà presto resa nota”, ha affermato il
Presidente venezuelano senza fornire ulteriori dettagli.
Secondo
il New York Times, in queste settimane il numero dei militari
statunitensi nei Caraibi è aumentato a circa diecimila, la maggioranza dei
quali a Puerto Rico. Al largo delle coste del Venezuela, si sarebbe poi
aggiunta la nave da guerra “fantasma” Ocean Trader, che funge da
supporto alle forze speciali statunitensi con una capacità di navigazione senza
tracciabilità.
E
nei giorni scorsi, Washington si è assicurato l’appoggio allo spiegamento
militare del governo di Trinidad Tobago, grazie alla promessa dell’esplorazione
congiunta di un giacimento di gas al limite delle acque territoriali
venezuelane. La minaccia militare è oggi a circa 11 chilometri dalle coste
venezuelane.
Il
15 ottobre, tre caccia-bombardieri statunitensi, partiti dalla Louisiana, sono
entrati nello spazio aereo venezuelano, per l’ennesima provocazione, mentre il
New York Times filtrava l’informazione di un semaforo verde dato da Trump alla
CIA per operazioni in territorio venezuelano.
Dulcis
in fundo, l’assegnazione del premio Nobel per la pace a Machado.
Maga,
non Maga….
Nonostante
le apparenze, la politica estera dell’amministrazione Trump non è priva di
contraddizioni. Da una parte, ci sono i falchi, capitanati dal Segretario di
Stato, il guerrafondaio cubano-statunitense Marco Rubio (con la sua ossessione
di utilizzare la potenza militare contro Cuba e Venezuela). Dall’altra, i
membri del MAGA nel governo (gruppo in cui Richard Grenell ha una posizione di
rilievo per la politica estera), che sarebbero in contrasto con la visione di
Rubio e che provano a screditarla e ridurne la portata. Un eventuale intervento
militare potrebbe allarmare la base del MAGA, vista la forte inclinazione
isolazionista, con dei costi politici ed elettorali per lo stesso Trump. Questo
braccio di ferro per imporre la propria visione della politica estera, al
momento, traspare anche dai mezzi di comunicazione statunitensi. Le
contraddizioni della Casa Bianca stanno dando al Venezuela il tempo di
prepararsi al peggiore degli scenari, mentre il presidente Maduro si rafforza
di fronte alla minaccia esterna. Per Rubio, il tempo scorre in un clima di
tensione e aumenta la pressione nei suoi confronti. Il movimento MAGA, guidato
da Grenell, spera nel suo fallimento, per espellerlo definitivamente dal
gabinetto di Trump.
La
risposta bolivariana
Da
parte sua, il governo venezuelano non sottovaluta il pericolo di conflitto.
Oltre ad aver posto in stato di allerta le FF.AA., mobilitato la marina e la
milizia popolare, il governo è impegnato in un’offensiva diplomatica. Tra le
altre iniziative, ha convocato una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite, tenutasi il 10 ottobre, per denunciare l’escalation bellicista.
Il Segretario generale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV),
Diosdado Cabello, ha affermato che «la Nazione utilizza tutti i meccanismi
diplomatici per evitare sempre qualsiasi conflitto, non solo nel territorio
venezuelano, ma in qualsiasi parte del mondo», dato che «il Venezuela si è
sempre contraddistinto per la sua diplomazia bolivariana di pace».
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SCHEDA
Un
poco di storia del Nobel
L’Istituto
Nobel, anche nel lontano passato, si è s/qualificato con l’assegnazione del
premio a personaggi a dir poco sinistri. Solo per rinfrescare la memoria delle
perle più eclatanti, nei primi decenni del secolo scorso furono insigniti del
Premio Nobel per la Pace due dei presidenti più guerrafondai di tutta la storia
coloniale degli Stati Uniti: Theodore Roosevelt nel 1906 e Woodrow Wilson nel
1919.
Roosevelt
creò la politica del big stick (speak softly and
carry a big stick, you will go far) con cui gli Stati Uniti riaffermarono
la possibilità di intervenire se i loro interessi erano in gioco. Fu così che
ordinò la guerra coloniale del 1898 (la «piccola guerra splendida», come fu definita
cinicamente) con cui gli Stati Uniti si impossessarono di Porto Rico, Cuba,
Filippine e Guam. Roosevelt mise anche lo zampino nella secessione di Panama
dalla Grande Colombia per la costruzione del Canale, oltre a invadere Cuba,
Haiti, la Repubblica Dominicana e il Nicaragua.
Woodrow
Wilson, era un razzista a tutto campo, simpatizzante del Ku Klux Klan e
difensore della “purezza razziale” dei bianchi statunitensi, che approfondì la
segregazione nella pubblica amministrazione. Non contento, ordinò operazioni
militari in Messico (l’invasione di Veracruz e le spedizioni punitive contro
Pancho Villa), ed appoggiò lunghe occupazioni con i marines ad Haiti, nella
Repubblica Dominicana e in Nicaragua. A quei tempi, la proxy war fu
condotta dal pirata William Walker, fedele mercenario ed esecutore della teoria
del “destino manifesto”.
Più
recentemente, altri tre premi Nobel per la pace hanno fatto scandalo.
Il
primo, nel 1973, a Henry Kissinger per i negoziati nella guerra del Vietnam e
per i successivi accordi di pace di Parigi, anche se in realtà la guerra di
liberazione nazionale terminò con la vittoria dei Việt Cộng e la caduta di
Saigon nel 1975. In quell’occasione fu insignito del Nobel anche il Presidente
vietnamita Le Duc Tho, l’unico a rifiutare il premio in
tutta la storia del Nobel per la Pace. Come si ricorderà, Kissinger era stato
Consigliere per la sicurezza nazionale e poi Segretario di Stato del Presidente
Nixon, allargando la guerra del Vietnam al Laos e alla Cambogia, con pesanti
bombardamenti nei due Paesi. In America Latina è stato il cervello del colpo di
Stato contro Salvador Allende in Cile del 1973 e delle altre dittature
civili-militari oltre all’inventore del macabro Plan Condor. Lo
scandalo del premio fu tale che due membri del comitato Nobel decisero di
dimettersi.
Nel
2009, è stato premiato Barack Obama «per i suoi straordinari sforzi volti a
rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli».
Peccato che l’ex presidente democratico ha continuato le guerre in Afghanistan
e Iraq iniziate da George W. Bush; ha distrutto la Libia di Gheddafi (il Paese
più prospero e sviluppato di tutta l’Africa); ha sostenuto la guerra civile in
Siria contro il governo di Bashar al-Assad ed appoggiato l’Arabia Saudita nella
sua guerra contro gli Houthi dello Yemen.
E
nel 2016, il premio è toccato al presidente colombiano Juan Manuel Santos per
gli accordi di pace firmati all’Avana con la guerriglia delle FARC-EP. Ma come
ministro della Difesa di Álvaro Uribe, Santos è stato responsabile dei
cosiddetti “falsi positivi”, con centinaia di esecuzioni extragiudiziali di
indigeni o contadini, fatti passare come guerriglieri uccisi in combattimento.
Viceversa,
non si può che salutare positivamente, l’incontrovertibile assegnazione del
premio a Desmond Tutu e Nelson Mandela per la loro lotta contro l’apartheid in
Sudafrica, a Martin Luther King per la sua battaglia contro l’apartheid negli
Stati Uniti, o a Adolfo Pérez Esquivel per la difesa dei diritti umani durante
l’ultima dittatura civile-militare argentina.
Ma,
da tempo, l’ago della bilancia del Nobel pende sempre più a destra, con un
premio geopolitico, utilizzato per dare una verniciata di legittimità alle
cause e alle figure ben viste dalle potenze occidentali nei momenti più
opportuni. Seguendo la geografia dei premi, possiamo identificare la mappa
degli avversari dell’Occidente collettivo: la ex-Unione Sovietica, la Cina
governata dal Partito Comunista, il mondo arabo-mussulmano o la Russia di
Vladimir Putin.
«La
satira politica è divenuta obsoleta da quando il Premio Nobel per la Pace è
stato dato a Henry Kissinger» (Tom Lehrer, autore e compositore satirico).
Erano gli
anni Settanta e il Premio Nobel per la pace venne assegnato a Le Duc Tho, il
politico e rivoluzionario vietnamita che fu il capo della delegazione del
Vietnam del Nord ai trattati per la pace in Vietnam con gli Stati Uniti, e ad
Henry Kissinger, segretario di Stato degli USA. Il motivo del duplice premio
erano appunto gli Accordi che avrebbero portato alla fine di una guerra che
aveva trucidato da una parte il popolo vietnamita – pur non piegandolo, anzi –
e dall’altra un’intera generazione nordamericana, costretta alle armi.
Le Duc Tho,
però, rifiuta il premio, affermando che nel suo Paese la pace non era affatto
stata raggiunta, visto che i combattimenti continuavano a sud.
Kissinger, al
contrario, il premio lo accetta eccome. Peccato che era il medesimo Kissinger
ideatore del Plan Condor, che stava assicurando sostegno economico, militare e
politico alle sadiche dittature latinoamericane.
D’altronde,
da eccellente realista qual è, il segretario di Stato sa bene quanto sia
necessario influenzare i destini dei Paesi che servono al benessere e al
mantenimento dello status quo delle sfere d’influenza. Ed è una pratica
politica talmente accettata, talmente ritenuta normale che persino l’altra
parte, l’URSS, non si scompose minimamente, riconoscendo i nuovi dittatori a
capo dei rispettivi Paesi.
A corollario
delle azioni di politica estera aggressiva, il soft power veniva agito per
raggiungere anche l’ultimo dei cittadini del mondo e convincerlo che gli Stati
Uniti, in fondo, aggiustavano le cose, stavano coi buoni, fornivano le
soluzioni corrette a chi rischiava di corrompersi a causa del socialismo o,
peggio, del comunismo.
E perché non
farlo anche attraverso il Premio Nobel per la Pace?
Le istituzioni
occidentali hanno da sempre sostenuto e difeso un determinato modello di mondo:
l’eurocentrismo ha sdoganato pratiche aberranti come il colonialismo, fatto
passare come legittime le invasioni, accettato le distruzioni e i massacri
quando utili ad aumentare la potenza di un grande Stato occidentale. Spesso
persino chi era vittima del sistema eurocentrico lo sosteneva, vivendolo come
ineluttabile o addirittura giusto.
«Colonialidad
del poder» la chiamava Anibal Quijano, aggiungendo all’analisi anche il
richiamo alla razza, concetto inventato appositamente per costruire
una gerarchia dell’umanità e un presunto destino biologico di una parte a
dominarne un’altra.
Quijano era
peruviano: scriveva forte di un’esperienza diretta che ha aiutato spesso altri
grandi studiosi latinoamericani a redigere analisi che hanno apportato elementi
nuovi e originali, più volte in rottura anche con la parte più vicina (si pensi
a come il marxismo occidentale ha compreso a fatica, quando non rigettato in
toto, gli approcci politici latinoamericani).
Oggi il
metodo non è cambiato: il Nord globale continua a voler dettare la linea
politica ed economica rispetto al Sud (o, a mio parere, ai differenti Sud),
attraverso un sistema ben oliato di hard e soft power.
E il Premio Nobel
per la Pace fa parte di questo sistema, oggi come ieri.
A parte
qualche rarissima eccezione (Martin Luther King o Rigoberta Menchú), il premio
è stato sempre legato a una precisa lettura della realtà, da cui i promotori
della pace o dei diritti umani possono essere di una parte politica. Già con la
nascita della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’Accademia degli
Antropologi denunciava che quella dichiarazione sottoponeva il mondo a una
forma di “giustizia” che stava solo da una parte, appunto.
È di qualche
giorno fa la scandalosa assegnazione del Premio Nobel per la pace del 2025 a
María Carina Machado. Scandalosa per due ragioni: non risulta che abbia fatto
qualcosa per la pace e ha suggerito, al contrario, azioni violente contro il
suo stesso Paese, nel suo stesso Paese.
María Carina
Machado è figlia di un ricco imprenditore, direttamente coinvolto nelle grandi
aziende dell’acciaio e dell’energia elettrica che durante l’era di Chávez sono
state nazionalizzate. Machado si è formata in scuole d’élite, per poi
perfezionarsi in Massachussetts e a Yale. Ad un certo punto ha deciso di
dedicarsi alla politica e lo fa partecipando attivamente al colpo di Stato che
nel 2002 tenta di far fuori Chávez: è al fianco dell’autoproclamato presidente
ad interim Pedro Carmona e firmataria del decreto di scioglimento
dell’Assemblea Nazionale. In effetti, già dall’inizio della sua carriera, si
nota come il pacifismo è la cifra rilevante della sua azione politica.
Per
consolidare la sua posizione crea Súmate, una ong che riceve ingenti
finanziamenti dagli Usa e viene accolta da G.W.Bush alla stanza Ovale, come
diretta interlocutrice del governo statunitense in Venezuela.
Se durante
il mandato di Obama, Machado chiedeva sanzioni molto più forti nei confronti di
personaggi politici del suo Paese, con l’arrivo di Trump Machado si è
convertita in un personaggio chiave, che ha sistematicamente accolto
positivamente non solo le sanzioni individuali ma anche la stretta economica
contro il Venezuela (soprattutto il divieto di vendere petrolio, prima e più
importante risorsa venezuelana), che ha spinto il Paese verso una crisi senza
pari. Il tentativo di allentamento delle pressioni, suggerito
dall’amministrazione Biden, è stato duramente criticato da Machado, in quanto troppo
morbido.
Le critiche
hanno avuto fine con l’avvento del secondo Trump e il ripristinarsi di minacce
e operazioni di forza contro il Venezuela. La signora Machado ha spesso
invocato la necessità di un intervento armato contro il suo stesso Paese, condividendo
la posizione dell’ex ambasciatore statunitense in Venezuela, Cile e Colombia
William Brownfield secondo il quale per portare la pace in un Paese si deve
ricorrere a qualsiasi misura drastica, sia essa una invasione militare o
lasciare i cittadini senza cibo.
Insomma un
rinnovato Plan Condor, senza neppure cambiare di copione.
María Corina
Machado è la prima cittadina venezuelana a ricevere un Nobel per la pace, con
queste motivazioni: «per il suo instancabile lavoro nella promozione dei
diritti democratici per il popolo venezuelano e per la sua lotta per
raggiungere una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia».
Rimangono
almeno due enormi quesiti alla luce di questa premiazione. Il primo è legato
alla comprensione di quali siano i criteri secondo cui invitare i Paesi
stranieri ad invadere militarmente il proprio Paese (è spuntato anche un
documento in cui la pacifica signora Machado invita il presidente Netanyahu a
mandare truppe per salvare il Venezuela) equivarrebbe a proporre transizioni
pacifiche e democratiche, rispettose dei diritti umani.
Il secondo è
l’ubriacatura della pseudo sinistra governativa italiana che si spertica in
applausi per questa premiazione, aggiungendo che non si poteva premiare Trump.
Peccato che Machado abbia dedicato il premio proprio a Trump (mi meraviglio non
l’abbia dedicato anche a Netanyahu). A questo coro felice e sognante si è
unita, immancabilmente, anche una parte di pseudo intellighenzia, che non
riesce più ad unire un paio di informazioni concrete e vive della medesima
propaganda dei detestati Salvini e Meloni.
A conferma
che Quijano aveva ragione: non è quanto abbiamo studiato, ma quello che ci fa
sentire al sicuro.
Machado: cancellata la tradizionale fiaccolata per il Nobel per la Pace - Giusi Di Cristina
Il Consiglio
della Pace norvegese ha annunciato che quest’anno non organizzerà la fiaccolata
che solitamente celebra la consegna del premio Nobel per la pace. Secondo la dichiarazione
ufficiale, i membri della ong «non sentono che la vincitrice sia conforme con i
valori fondamentali del Consiglio della Pace norvegesi e dei nostri membri».
L’ONG raggruppa infatti altre 17 organizzazioni pacifiste norvegesi e circa
15.000 attivisti e ne ha approfittato per criticare anche l’intero comparto
decisionale che, ha affermato, non pare aver rispettato alcuni loro valori
imprescindibili, quali ad esempio «la promozione del dialogo e i metodi non
violenti».
Non è la
prima volta che il Consiglio della Pace cancella la storica fiaccolata (che si
svolge dal 1954), ma il rifiuto a celebrare questo Nobel – che ad ogni modo è
stato ufficializzato e sarà consegnato il 10 di dicembre prossimo – dà la
possibilità a quanti si sono indignati per la scelta di veder riconosciuta,
appunto, la giustezza della propria indignazione.
María Corina
Machado, dopo aver dedicato a Trump il premio, un paio di giorni dopo la sua
proclamazione ha telefonato al presidente israeliano Netanyahu, congratulandosi
per la gestione della guerra. Insomma: un premio Nobel che si premura, fra i
primi atti, di congratularsi con un leader dell’estrema destra mondiale che sta
conducendo da anni un’aggressione inarrestabile che mira alla pulizia etnica.
Per quanto
la fiaccolata sia un atto simbolico, essa accompagna da moltissimi anni la
consegna del Nobel per la pace e rappresenta il riconoscimento del premio da
parte della società civile, non solo norvegese.
Da parte
sua, l’Istituto per il Nobel non ha dato risposte, a parte informare che
Machado potrebbe forse non riuscire a raggiungere Oslo per ragioni di
sicurezza. Incaponito in una scelta che, evidentemente, ha sconcertato quella
parte di opinione pubblica libera dal lavaggio di cervello neoliberale (che
venga dalla destra o dalla sinistra), procede in un atto che, come
precedentemente scritto su queste pagine, non rappresenta null’altro che soft
power.
In un
momento storico, tra l’altro, in cui l’America Latina è ancora una volta
sottoposta a tentativi di intrusione violenta da parte degli Stati Uniti,
urlati da Donald Trump, ormai convinto di essere il padrone del mondo, in
splendida compagnia di tutti quegli Stati che concepiscono la politica estera
come piena subordinazione all’ordine nordamericano.
Certe volte occorre scuotere le persone. Ero partito formulando questa
frase nella testa: come è possibile non cogliere il baratro etico in cui stiamo
precipitando? Come è possibile accettare che un’intera popolazione venga
sterminata, che bambini vengano lasciati morire di fame. Come è possibile
essere democratici e far finta di non vedere che lo Stato Canaglia bombarda a
piacimento in giro per il mondo, senza remore, con la certezza che nessuno
interverrà?
Però poi penso che sì, le persone vanno anche un po’ scosse, ma
andrebbero prima informate. E non mi sembra che accada con correttezza e
continuità. E non da oggi.
Perché non conviene, così risponde il barbiere anarchico e alchimista
rurale, che in sintesi dice: i media sono di proprietà di qualcuno che
mediamente ha rapporti stretti con i poteri reali, con la politica, con la
finanza. I cani da guardia della democrazia spesso si sono trasformati in
canetti da riporto o da compagnia… Poi il Paese Italia, fregandosi le mani e fregandosene delle
conseguenze, continua a fare affari con Israele, sia sul piano della vendita
delle armi che sugli scambi commerciali o sul piano dei controlli dei servizi
segreti. I turisti vengono a gruppi, per disintossicarsi dalle brutture che
vedono (e qualcuno pratica). Insomma, il sistema in un modo o nell’altro ha
buonissime relazioni con Israele e non ha nessuna intenzione di fare una scelta
basata su valori etici e non su quelli economici. Una vergogna, ma è così. Per non dire della politica. Chi si mette contro Trump e il suo
innominabile alleato criminale? Mi pare che nessuno in Italia abbia il coraggio
di Pedro Sánchez. Il governo Meloni farfuglia scuse e vaghe prese di posizioni
supine. I miracolati del circo barnum fascistoide, un tempo ferocemente
antisemiti, oggi cantano le lodi della pulizia etnica baciando acriticamente
nuove obbedienze, chiamiamole così. Con un’adesione di antichi sentimenti a una
forma nuova e violenta di fascismo e suprematismo.
Quindi, le
persone potrebbero scuotersi, certo: ma chi scuote un sistema pavido di piccole becere
convenienze che non si schiodano neanche di fronte ai campi di concentramento
che vediamo in diretta e che non si opporrebbero neanche dovessero vedere a due
passi bruciare vivo un bambino palestinese? Perché gli arroganti, i prepotenti,
i manganellatori alla fine dei conti sono pavidi. Non hanno neanche il coraggio
di porsi un dubbio, se questo dubbio non favorisce il padrone di turno.
Tappetini della storia su cui il potere (quello vero) può comodamente pulirsi i
piedi.
Per aiutare
i popoli oppressi, per lottare per la Palestina libera, dobbiamo aiutare la nostra
coscienza civile e politica, dobbiamo lottare perché i criminali non siano al
potere nei nostri Paesi, perché le obbedienze al capitalismo feroce che
calpesta diritti, opprime e cancella la nostra storia, vengano superate.
Dobbiamo riprenderci la democrazia, sottrarla dalle mani dei furbetti
intolleranti che con i portafogli gonfi, e lo schiavismo come riferimento
culturale, stanno beatamente occupandola in tutti i suoi aspetti.
Ci stiamo
provando, ci dicono i nostri giovani ribelli. Ce lo dicono quelli che impugnano
la bandiera della solidarietà veleggiando con la Sumud Flottilla, sfidando gli
assassini che possono colpire, assaltare, fare pirateria nel silenzio roboante
della politica occidentale e dei suoi media di regime.
Ci stiamo
provando e continueremo a farlo. Ci sono settori della vita sociale che sono
scesi in piazza e tanto, lavoratori che hanno bloccato i porti, giovani e
giovanissimi che hanno preso mazzate dalla polizia pur di protestare. Ci sono
persone che si sono attivate, in un modo o nell’altro, che hanno scelto di
partecipare in questa difesa della democrazia, della libertà, contro l’oppressione
nazista e razzista. Anche in nome delle altre persone che si sono defilate: per un turista
in più, per non metterci la faccia, per tenersi buona anche la parte crudele
che distrugge tutti i diritti, per mettere nelle mani di pochi criminali i
destini dell’umanità, così come il futuro e il bene comune dei territori.
D’altra parte il potere feroce vuole solo sudditi obbedienti, non
cittadini consapevoli, istruiti, che comprendono quello che accade davanti ai
loro occhi e che hanno quel quid di senso critico per capire che parteggiare
per chi ti rapina diritti e futuro è un suicidio.
Continuiamo a batterci, quindi, nei luoghi in cui abitiamo civilmente,
per far sentire attraverso di noi la voce dei popoli oppressi, degli sfruttati,
degli ultimi della società mai così a rischio come adesso. Per tenere accesa la
fiammella della conoscenza contro la bufera dell’ignoranza arrogante, strumento
perfetto di dominio.